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Ospedale ASST di Cremona, sala operatoria trasformata in rianimazione. “In guerra la gente esplode. Qui, si spegne” dice Gabriele Micalizzi, fotoreporter del collettivo Cesura che ha immortalato la presa di Kobane. “In guerra, per lo più, all’aperto. In pace, per lo più, al chiuso”. Comunque, sempre, si muore. “Per me è strano, dopo essermi mosso tra i cadaveri come in Siria, tornare in una casa con i termosifoni caldi a cuocermi una bistecca sui fornelli invece che raschiare col dito il fondo di una scatoletta in qualche rifugio scalcinato”. Questa non è una guerra. Lo sembra. I posti di blocco, i viveri nelle cantine, le piazze agli uccelli, i letti affastellati negli ospedali, i convogli militari in città, i bollettini di morte. Proprio come la pipa disegnata da Magritte sembra una pipa. Ma quella pipa non puoi fumarla. Allo stesso modo noi rappresentiamo il virus come un nemico, ma non possiamo sparargli. Viviamo giorni di guerra surrealista.
Un altro paziente intubato a Cremona. Il bunker del nemico è il nostro corpo. “Qui non ci sono mutilati”. Le vittime hanno quattro arti attaccati, nessuno squarcio. A Gabriele Micalizzi mancano invece due falangi della mano destra. Gliele ha fatte saltare un razzo Rpg di Isis, a Baghuz, nel febbraio 2019. “Quasi tutti, la guerra, l’hanno vista solo in televisione”. Per questo ci convinciamo che, forse forse, perfino il macello sarebbe meglio di questa strage goccia a goccia. La fortuna della metafora bellica è dovuta al suo segreto potere tranquillizzante. Sconfitto il nemico, ogni cosa brillerà nella luce eterna della salvezza. Un giorno non ci saranno più nemici. Sigleremo un trattato di pace perpetua. È come se ci dicessimo: non si muore in tempo di pace. È come se ci dicessimo che organizzando in modo più efficiente la società, riformando i rapporti tra stato e regioni, lavandoci per bene le mani, allora vivremo per sempre. Tutte ottime cose, ma naturalmente è una menzogna. Naturalmente moriremo comunque. Naturalmente: è questa la parola chiave.
L’ospedale San Gerardo di Monza è un’eccellenza della sanità pubblica. “Nel reparto di pneumatologia, una fisioterapista mobilizza i pazienti per favorire l’ossigenazione del sangue”. Per lo stesso motivo s’impiegano anche caschi respiratori come quello di questa foto. Ovviamente, sintetici. È curioso. Diciamo: la natura si sta riprendendo ciò che è suo, i cigni biancheggiano nei Navigli, le lepri s’inseguono nei parchi. Diciamo: il clima torna a respirare, il futuro è verde. Poi guardi gli scatti di Micalizzi: la plastica regna. Imbusta i piedi in sacchi azzurri, si gonfia in caschi attorno alle teste, si allunga nei tubi delle terapie intensive, ricopre la totalità dei corpi come una seconda pelle. La sua impermeabilità artificiale, la sua plasmabilità assoluta ne fanno l’elemento perfetto per correggerla, la natura. Per dirle: qui finisci tu, qui cominciamo noi. In tempo di pace, i confini li tracciamo con la plastica. La plastica ci maschera: la plastica ci smaschera. Messi alle strette, questo vogliamo: che il mondo resti il più umano possibile.
Il professor Giuseppe Foti, direttore del reparto di rianimazione e di terapia intensiva del San Gerardo, col suo infermiere capo “Mimmo” Cosimo Iacca. “In guerra fotografo spesso volti scoperti” dice Micalizzi. “Mentre ora, per rendere una persona espressiva, non posso che concentrarmi sulla postura dei corpi”. Anche i nomi scritti sul petto danno umanità agli enigmi in cui ci tramutiamo con le mascherine addosso. Gli occhi sono lo specchio dell’anima: allegata ai cioccolatini, la frase fila che è una bellezza. Riletta nell’anno delle mascherine chirurgiche, suona falsa. Con il resto del volto coperto, gli occhi umani manifestano tutta la loro ambiguità. Da qui, il senso di straniamento che proviamo in fila fuori dai supermercati, o guardando queste foto. Gli occhi, decontestualizzati, spaventano. Dolore, speranza, consapevolezza, rabbia, paura. Cosa pensano, gli altri? È difficile attribuire un sentimento a un paio di occhi senza l’aiuto di una bocca, di un naso, delle pieghe d’espressione. Il fatto è che oggi la realtà intera sembra indossare una mascherina. La guardi un secondo e ti dici che il peggio è passato. La guardi il secondo dopo, e ti dici che non ne usciremo mai più. Il pianeta ci osserva con i suoi occhi abissali e noi non capiamo che diavolo ci stia comunicando.
Medici e infermieri si preparano prima del loro turno. “In guerra, di solito, si cerca di proteggere il personale sanitario tenendolo il più lontano possibile dalla linea del fronte” dice Micalizzi. “Per me sono eroi. Tutti dicono che sono eroi. Ma qui sono spesso trattati come fanteria d’assalto. Un po’ perché il virus s’infiltra comunque nelle retrovie, un po’ perché non vengono messi nelle condizioni di lavorare in relativa sicurezza”. Eroi, gli diciamo. Sono angeli, ci commuoviamo. Forse abbiamo soprattutto paura di rimetterci la pellaccia. O che ce la rimetta qualcuna delle poche persone a cui teniamo davvero. Speriamo che i nostri commenti giubilanti sui social e i nostri cartelli esposti fuori dai balconi svolgano la funzione del cloridrato di fenitillina: quello che i capi del jihad distribuiscono ai loro soldati perché vincano la paura. Eroici infermieri, angelici dottori, coraggio, andate avanti voi. Fate quel che dovete fare, costi quel che costi, ma fatelo in fretta e fate che la mia famiglia se la cavi. Finita l’emergenza, chi si ricorderà i loro nomi? I nomi delle decine di loro a cui non hanno retto i polmoni. Il timore è che, per essere ricordati, quelli che oggi chiamiamo eroi dovrebbero accumulare follower su Instagram. Respiratori artificiali, cuffiette di plastica, zoccoli sanitari e camici slavati non sono cool. Una volta che saremo sicuri di avere accumulato altri anni di vita, riprenderemo ad accumulare altri seguaci. Chissà che, superati i 10 mila, il social non ci conceda di eliminare la morte con uno swipe up, sia in pace sia in guerra.
Carmelo Grova, infermiere a fine turno nel reparto terapia intensiva di Monza.
Marta Trivellato, collega di Carmelo.
Altri medici e infermieri indossano le protezioni prima di mettersi all’opera nell’ospedale di Monza.
Stefania Vanini, infermiera a fine turno, con i segni lasciati dalla mascherina sul volto.
Codogno. Una farmacista scattata il giorno in cui il paese lombardo fu dichiarato zona rossa. “Da allora le farmacie hanno dovuto lavorare a battenti chiusi” spiega Micalizzi. Durante i conflitti armati è chiaro chi siano i prigionieri di guerra. Lo spazio della libertà e quello della prigionia sono ben distinti. C’è un al di qua e un al di là delle celle. Ora l’intero tessuto urbano è un labirinto di sbarre.
Un caso di grave emorragia celebrare dovuta al coronavirus nell’ospedale di Monza. Poco dopo lo scatto, il paziente si è ripreso. “Per fortuna, di attimi, quelli che il suo tatuaggio invita a non lasciarsi scappare, potrà coglierne ancora parecchi” dice Micalizzi.
“Nel forno crematorio di Piacenza le bare erano troppe: hanno dovuto accatastarle. Per la mancanza di spazio sono stati costretti utilizzare pure la sala del comitato” dice Micalizzi. “Il forno può smaltire dodici feretri al giorno. Quando ho scattato, la settimana scorsa, ne arrivavano quotidianamente venticinque circa: a Piacenza si sono offerti di accogliere quelli provenienti dai comuni vicini e anche da Bergamo. Così, l’esercito ha montato una tenda per contenere i cadaveri a temperatura nel giardino della struttura”. A un certo punto quegli occhi, così criptici sopra le mascherine, non possiamo più sopportarli. Gli occhi dei morti. Gli occhi sbarrati, eppure morti. Allora, finalmente, copriamo anche quelli. Finalmente abdichiamo al nostro sforzo di comprensione, proprio perché adesso abbiamo paura dell’univocità interpretativa: niente, non ci sono più dubbi, quegli occhi non ci dicono più niente.
Ospedale Papa Giovanni di Bergamo. “Chi combatte non si prende cura del proprio fucile ma della propria bombola d’ossigeno, vedi questo infermiere” dice Micalizzi. Il virus ci obbliga al minimalismo relazionale. C’è chi porta a spasso un bambino attorno all’isolato, chi un cane, chi una bombola d’ossigeno. Si possono passare mesi senza presenze umane, giorni senza cibo, ore senza acqua, solo pochi secondi senza aria. La bombola d’ossigeno, accomodata in tutto il suo peso sulla sedia a rotelle, come migliore amica dell’uomo. La porzione di universo più importante dell’universo contenuta in mezzo metro di metallo a tenuta stagna.
Membri dell’esercito russo, specializzati in bonifica sanitaria, lavorano nella struttura di Ponte San Pietro.
“Nel forno crematorio di Piacenza le bare erano troppe: hanno dovuto accatastarle. Per la mancanza di spazio sono stati costretti utilizzare pure la sala del comitato” dice Micalizzi. “Il forno può smaltire dodici feretri al giorno. Quando ho scattato, la settimana scorsa, ne arrivavano quotidianamente venticinque circa: a Piacenza si sono offerti di accogliere quelli provenienti dai comuni vicini e anche da Bergamo. Così, l’esercito ha montato una tenda per contenere i cadaveri a temperatura nel giardino della struttura”. A un certo punto quegli occhi, così criptici sopra le mascherine, non possiamo più sopportarli. Gli occhi dei morti. Gli occhi sbarrati, eppure morti. Allora, finalmente, copriamo anche quelli. Finalmente abdichiamo al nostro sforzo di comprensione, proprio perché adesso abbiamo paura dell’univocità interpretativa: niente, non ci sono più dubbi, quegli occhi non ci dicono più niente.
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