Hallyu. Ovvero “Korean Wave”, quel fenomeno culturale che da trent’anni ha caratterizzato l’ascesa di un Paese che ha avuto nella crescita culturale ed economica la sua rivincita sul palcoscenico mondiale dopo una dittatura militare e una crisi economica durissima. Lo hanno fatto puntando sulla tecnologia, sul cinema, la televisione e la musica giovanile. Conquistando il mondo, dall’Oscar ai record di visione su Netflix, dal K-pop di BTS, Blackpink e affini agli smartphone e i televisori a schermo piatto. Sintetizzando e semplificando, la nostra quotidianità è stata colonizzata dalla Corea del Sud da tempi insospettabili. Come e quando lo racconta una mostra battezzata proprio Hallyu! The Korean Wave, che dal 24 settembre sta animando alcune delle sale del Victoria & Albert Museum di Londra (resterà in cartellone fino al 25 giugno 2023).
Una passeggiata che si apre con una parete tappezzata di monitor che mandano in loop Gangnam Style di Psy, uno dei più grandi successi musicali del XXI secolo (4 miliardi e mezzo di visualizzazioni solo sul profilo ufficiale), che ben spiega la portata di un fenomeno che nasce da una guerra, quella del 38° parallelo che nel 1953 diede vita alla Corea del Sud. Settant’anni durante i quali il Paese e il suo popolo ha vissuto di tutto, senza mai dimenticare di avere alle spalle secoli di tradizione e di cultura. Probabilmente è proprio questa fusione tra passato, presente e soprattutto futuro ad avere accelerato un processo che in molti altri Paesi, alcuni di questi ufficialmente definiti come industrializzati, è stato più lento quando non addirittura lacunoso. Non bisogna andare troppo lontano per trovare il giusto esempio.
Divisa in quattro sezioni, la mostra parte proprio dai giorni successivi alla fine della guerra per arrivare alla fine degli anni Novanta, passando per le varie dittature militari alle storiche elezioni del 1988, quasi concomitanti alle Olimpiadi di Seoul che si trasformarono nel biglietto da visita per potersi sedere al tavolo dei grandi. Una dimostrazione di carattere, replicata poi nella restituzione a tempo di record del prestito al Fondo Monetario Mondiale ottenuto nel 1997 per tamponare la crisi finanziaria che aveva colpito il Paese e da cui si risollevò puntando sulla crescita dell’industria tecnologica di pari passo con quella culturale. Non è un caso che uno degli artisti sudcoreani più rappresentativi, Nam June Paik, abbia basato la maggior parte delle sua opera sulla videoarte e l’utilizzo della tecnologia.
Ma il motore vero arriva dalla cultura pop, quella dei K-drama, l’equivalente dei nostri sceneggiati, ma anche dal cinema, che in Corea del Sud non nasce con la trilogia della vendetta di Park Chan-wook (Mr. Vendetta, Old Boy, Lady Vendetta), ma che già negli anni Novanta aveva una produzione di genere importante per il mercato interno. Certo, poi è arrivato Parasite (di cui è stato ricreato con dovizia di particolari uno dei set più significativi: il cesso), così come Squid Game, serie che si trasforma in un fenomeno globale grazie a Netflix.
Dopo il cinema e la televisione, è stata la musica a spianare ulteriormente la strada, quella delle boy e girl band capaci di smuovere milioni di giovani ammiratori in tutto il mondo, dai BTS a Blackpink, fino al rapper G-Dragon, rappresentato come un moderno San Michele in uno dei pezzi forte della collezione. Portatori di una cultura musicale occidentale fusa a un concetto di fandom molto orientale, e anche ambasciatori di un nuovo concetto di fashion, quarta e ultima sezione della mostra e che apre scenari futuri anche in un mondo, quello della moda, in cui vige un’egemonia europea e che potrebbe nei prossimi anni prendere tutt’altra direzione. Perché la regola, si sa, è sempre quella di seguire i soldi.
Hallyu! The Korean Wave è una tappa assai gustosa se avete in programma un viaggio a Londra nei prossimi mesi, vacanza che, viste le difficoltà della sterlina britannica, potrebbe rivelarsi molto più conveniente del previsto. Tanto vale approfittare.