Cosa spinge un ventenne a lasciare la propria vita e la propria famiglia per farsi mujahid e unirsi al sedicente “Stato Islamico”? Molto è stato detto negli ultimi mesi, nella ricerca di una soluzione istantanea che possa preservare i nostri corpi, “le nostre abitudini”, i “nostri valori”, che fermi il tempo, mentre le diverse coalizioni internazionali agganciano nuovi Paesi disposti a bombardare il Califfato.
La percezione diffusa è che siamo stati travolti da un maleficio che arriva da un altro tempo, riuscito a insinuarsi nella nostra storia ottimista per incanalarla verso tragitti che pensavamo oltrepassati: quelli della guerra permanente e della banale brutalità del sopravvivere. Percezione che si completa e rafforza attraverso due assunti erronei. Il primo è che il connubio tra Islam e violenza sia indistricabile: un pregiudizio anti-storico che tuttavia finisce per demonizzare tout court i quasi due miliardi di musulmani nel mondo, inducendo pericolose tendenze alla segregazione. Il secondo – altrettanto sbagliato – è che il “pasticcio” del Califfato nasca da “false interpretazioni” di alcune sure del Corano. Anche questa prospettiva non tiene conto del fatto che tutte le religioni, Islam incluso, si sono diramate e frammentate nella storia attraverso interpretazioni, esperienze e manipolazioni da parte del potere. Ma, soprattutto, nel tentativo illusorio di ristabilire una presunta “verità” dell’Islam contro chi ne ha distorto il senso, commettiamo un altro errore: trasformiamo un manipolo di ventenni trasmigrati dalla violenza del videogioco al sangue vero in un esercito di piccoli studiosi del testo coranico, assumendo che essi leggano nel testo molto più – o di meno – di quanto esso non voglia dire.
In realtà è stato proprio il focus mediatico sulle vite dei jihadisti europei in queste ultime settimane a rivelare quanto il viaggio dall’Europa alla Siria non sia l’esito di un profondo tragitto spirituale all’interno dell’Islam, quanto piuttosto di una sua banalizzazione – consumata su siti Internet produttori di fatwe automatiche e aforismi, che ha innescato il desiderio di potere e di sperimentare l’eccitazione della vita togliendola a un altro uomo, per sfuggire banalmente a una quotidianità banalissima. Ed è proprio la banalità a fornire i parametri per architettare l’evasione da se stessa. In altri termini, la spiritualità dei jihadisti che partono per il Califfato non si realizza nell’iper-adesione all’Islam, quanto piuttosto nell’accomodarsi all’interno di una caricatura pseudostorica e utopistica. Le pagine glossate della rivista Dabiq, strumento principe della propaganda dello Stato Islamico diffuso globalmente anche in inglese, riproducono macchiettisticamente una società guerriera che assomiglia molto più alla scenografia di uno scadente lungometraggio che a una realtà davvero esistita.
Come ha scritto Olivier Roy, non siamo tanto di fronte a una “radicalizzazione dell’Islam” quanto piuttosto a una “islamizzazione del radicalismo”. In questo, l’Islam veicolato dal messaggio di al-Baghdadi, autoproclamato Califfo dello Stato Islamico, ha intercettato un desiderio di spiritualità estremamente diffuso nelle società contemporanee, testimoniato dalla proliferazione di “nuove” religioni e nuove credenze. La potenza di questo messaggio rispetto agli altri sta però nella sua inedita socializzazione all’interno di un territorio reale – e non solo immaginato – sul confine tra la Siria e l’Iraq: è così che il sedicente Califfato è riuscito nell’intento di offrire un viatico palpabile alle anime fragili cadute nella rete informatica della propaganda. Tuttavia, è proprio qui che il progetto di al-Baghdadi, dotto sapiente e cinico stratega, mostra la sua vera natura: ovvero quella di un progetto di potere verticistico e squisitamente politico, che mira a cristallizzarsi e dunque ha bisogno di adepti, seguaci e manovalanza. In questa prospettiva, lo Stato Islamico non è astorico né anacronistico, ma in realtà attualissimo e – nella sua capacità di sfuggire alle finalità disattese di una modernità in crisi – perfettamente postmoderno. Serve dunque a poco interrogare rancori ideologici e atavici attribuibili all’Islam per comprendere la violenza che si scatena prima di tutto contro i musulmani non allineati al Califfato (sciiti, ma anche sunniti ribelli) e poi contro un Occidente dipinto come molle ed empio.
Quello che in realtà manca maggiormente nelle analisi sullo “Stato Islamico” è proprio la sua dimensione mediorientale, ovvero quel confine tra Iraq e Siria tracciato nel 1920 alla Conferenza di Sanremo da Francia e Gran Bretagna e ormai squarciato. È sulle macerie dell’Iraq e della Siria che s’instaura e si cristallizza il Califfato. Eppure lo “Stato Islamico”, anche rispetto ad altri gruppi che oggi combattono in Siria, mantiene una sua patina fortemente multinazionale: è rappresentato, cioè, molto più da jihadisti stranieri che da siriani e iracheni.
La differenza tra il jihad locale e quello di coloro che si avvicinano dall’esterno al Medio Oriente è questa: il primo viene interiorizzato e spesso scelto come riscatto dai ricordi del dolore, della tortura, delle prigioni e della violenza della polizia di regime. Il secondo è piuttosto il riscatto da una vita oscura. A consolidare attraverso il jihad potentati elitari e selettivi in Siria e Iraq sono state certamente le molte armi e i finanziamenti esterni provenienti dai loro sostenitori – privati residenti che vivono nei ricchissimi Stati del Golfo Persico – che hanno parallelamente depotenziato i gruppi laici della lotta anti-Asad e indebolito le società mediorientali che subiscono attonite tale violenza. Come in Selfie, lo show del regista saudita Naser al-Qasabi andato in onda durante l’ultimo Ramadan: la storia di un padre che compie un viaggio nello “Stato Islamico” per convincere suo figlio ad abbandonare il jihad e ritornare a casa, ma finisce invece decapitato proprio per mano di suo figlio, morendo sbigottito e senza riuscire a darsi una spiegazione.