Dice di aver perso un sacco di tempo nella vita, ma scorrendo la sua biografia la trovate piena zeppa di libri, pubblicazioni, lezioni, conferenze, interviste e chi più ne ha più ne metta. E Ilaria Gaspari non ha ancora 34 anni. È una filosofa in ascesa della nuova generazione – non ditele che è giovane, sarebbe troppo paternalistico – e non ha per nulla l’aria ombrosa (lei direbbe “pesantona”) a cui ci hanno abituati i suoi colleghi: sempre sorridente, con vestiti sgargianti e quel rossetto scintillante che mette in mostra una orgogliosa vanità femminile.
Si è laureata con due tesi, una sul panteismo nella filosofia tedesca e l’altra sull’immaginazione in Spinoza, eppure ha esordito con un libro noir con protagonista una donna nevrotica che tutti hanno scambiato per una storia autobiografica. Ciononostante, negli ultimi anni si sta affermando come una delle voci più originali del panorama culturale, nel nostro paese e all’estero. Nata e cresciuta a Milano, diplomata al Liceo Classico Parini, ha fatto l’università alla Normale di Pisa con dottorato alla Sorbonne di Parigi, attualmente vive a Roma, però insegna scrittura alla Holden di Torino. Più che averlo perso, vien da chiedersi dove lo abbia trovato il tempo per fare tutto.
L’abbiamo incontrata, scoprendo che tra gli antichi greci c’era un punk ante litteram come Diogene di Sinope, che il suo motto tratto da Montesquieu chiarisce già tanto della sua personalità: “Bisogna aver perso la metà del proprio tempo per saper usare l’altra metà”, che per spiegarci cos’è l’amore le basta prendere a esempio il rapporto che ha con Emilio (il suo cane) e, quindi, che un filosofo può anche essere simpatico. Nel complesso, ci sembra già una bella rivoluzione.
Qual è il primo ricordo che hai di Ilaria bambina?
A circa due anni, quando mi hanno regalato una pelliccia rosa che mi piaceva da morire. E mi ero impuntata che volevo tenerla anche in casa. Era inverno e all’interno non ce n’era bisogno, per cui i miei genitori tenevano le finestre aperte e appena le chiudevano mi mettevo a piangere.
Dopo tanti anni e tanti studi, come ti spieghi quell’atteggiamento?
Credo che volessi essere io a controllare il tempo, sia meteorologico che di come stare al mondo. Nel decidere come mi dovevo vestire, non mi importava che le condizioni lo impedissero, ero io a determinare se fosse giusto o sbagliato. Un po’ questa cosa mi è rimasta, anche se sono diventata più flessibile. Mi spiace aver perso quell’ostinazione, ma continuo a voler fare di testa mia.
Tu sparigli le carte da subito, non essendo il classico filosofo ombroso, un po’ triste e vestito in modo formale, meglio se di nero. Come mai questa solarità rispetto ai tuoi colleghi?
Da un lato è il mio modo di continuare a portare quella “pelliccia rosa”, di crearmi una misura delle cose che mi interessano. Per tanto tempo è stato un problema, a partire dall’università. La Normale di Pisa è molto competitiva, eravamo solo in due ragazze del mio anno. E tutti si prendevano molto sul serio. A me invece non mi prendeva sul serio nessuno. Sembravo poco autorevole, perché il mio carattere emerge senza rendermene conto. A vent’anni ho provato a vestirmi di nero, a darmi un tono, a reprimere questo stato gioioso ma, pur avendo dei lati oscuri, prevale l’atteggiamento “canino”. Insomma, sono sempre “presa bene”.
Ne parli come se ti avesse fatto soffrire particolarmente.
Ne ho sofferto molto, sì. Quando sono uscita dal mondo accademico, dovevo fare un concorso per rimanere in Francia e ho sbagliato a leggere la data di scadenza. Per cui non ho consegnato il materiale. In quel momento ho pensato che forse sarebbe stato meglio cambiare. È stata durissima questa carriera, ho passato un paio di anni senza una lira, però ci ho creduto. E quell’errore è come se mi avesse permesso di capire che per essere felice l’unico modo era giocarmi le mie carte per come sono fatta. Se avere un rapporto con lo studio e la filosofia mi mette di buon umore, perché dovrei nasconderlo?
In realtà sta diventando un tuo punto di forza. E l’essere donna, quali conseguenze ti ha portato in un mondo culturale di solito dominato dagli uomini?
Anche qui, tante vicende passate mi hanno insegnato che è un settore molto maschilista quello della cultura. Mi sono trovata in situazioni spiacevoli. Se sei donna e vai in giro da sola, alcuni pensano che tu possa essere favorevole ad avances, anche un po’ moleste. Ma ciò che mi da più fastidio è il pregiudizio nei confronti delle donne che scrivono. Da un lato sembra che stiamo sempre tenendo un diario, quindi senza uno sguardo universale che nell’uomo è dato per scontato. Come nel mio primo libro, un noir ironico con protagonista una donna nevrotica. Nessuno credeva che avessi inventato la storia e mi facevano domande sui fatti miei. Dall’altro, c’è molta pressione affinché la scrittrice sia edificante. Per esempio, Teresa Ciabatti è stata molto attaccata per aver scritto un libro ferocemente ironico. Ma agli artisti è sbagliato chiedere di essere rassicurati.
Anche il fattore estetico immagino ti sia stato fatto notare spesso.
Quasi sempre, persino dalle donne stesse che attiravano l’attenzione sul mio aspetto. Non è che sia una “turbo gnocca”, però in genere quando sono in pubblico mi vesto colorata e mi metto il rossetto, che è una maschera, perché di base sono timida. Mi aiuta a disegnarmi da sola. Quindi, sì, sono un po’ più appariscente del normale scrittore e vengo presentata partendo dall’aspetto estetico. Sui social, un commento mi ha molto ferita. Diceva più o meno così: “Se ti togliessi quella porcheria dalla faccia saresti più credibile…”. Mi ha fatto ribollire il sangue. Poi ho scritto un articolo su quell’episodio e tantissime donne mi hanno contattata, anche di 60 anni, per dirmi che da tempo vengono giudicate solo per l’aspetto estetico. È una spia di un atteggiamento maschilista.
Hai dichiarato più volte di aver perso un sacco di tempo nella tua vita. Eppure, a neanche 34 anni il tuo curriculum sembra quello di una 50enne. Non sarai troppo critica con te stessa?
Rispondo spesso con questa citazione di Montesquieu: “Bisogna aver perso la metà del proprio tempo per saper usare l’altra metà”. È il mio motto. Obiettivamente di tempo ne ho perso tanto. Non faccio sport, non sento la musica, cioè soffro di amusia, non cucino. Tanto tempo non so dove vada a finire delle mie giornate. Mi hanno bocciata cinque volte alla patente e poi l’ho presa ma per timore non guido mai. Vado sempre a piedi. La sfida di quest’anno sarà usare l’auto.
Hai detto di non sentire la musica. In che senso?
L’amusia è l’incapacità di eseguire, comprendere e apprezzare la musica. Chi ne soffre ha difficoltà a distinguere una melodia, o a comprendere l’altezza delle note. È una disfunzione cerebrale, come se fossi dislessica sulla musica. Non mi provoca emozioni. Non mi accorgo se c’è. Per cui non ho un cantante o una band preferita e non sono mai riuscita a cantare una canzone. È abbastanza rara. Quando una amica neurobiologa mi ha fatto il test ho capito perché ero terrorizzata quando mi portavano a ballare. Da bambina pensavano fossi sorda, visto che tutti battevano le mani a tempo e io no. Non sono sorda, però dopo che ne ho scritto in tanti hanno scoperto di avere questo disturbo.
E così hai sostituito la musica con le riflessioni filosofiche.
Sì, soprattutto camminando. Non amo neanche i mezzi pubblici. Un sacco di tempo lo uso a piedi e mi piace tantissimo. Se non camminassi starei male. Mi permette di pensare e conoscere le città. Mi muovo con lentezza senza mezzi, però quando mi metto a scrivere sono super veloce. Evidentemente, la metà del tempo che perdo è utile al tempo che utilizzo.
Stando sempre ai luoghi comuni, chissà quante volte ti avranno presentata come “giovane filosofa”. Ma quando finisce la giovinezza oggigiorno?
In Italia fino a 50 anni sei giovane. Il problema è che poi passi direttamente da giovane a vecchio. Sei un vecchio giovane e poi un giovane vecchio. È un po’ inquietante. Fino a 30 anni una persona si sta formando, anch’io avevo questa percezione. Ma poi è bello scoprire il fascino dell’età adulta. La nostra società, comunque, è ossessionata dalla giovinezza in modo assurdo, a una versione illusoria della giovinezza. Se non è autentica, ma una imitazione, a cosa serve? È una follia. In più è un modo per farti sentire in stato di minorità, per fare paternalismo. È un brutto vizio molto italiano e che riguarda la mia generazione.
Come disse Alberto Arbasino, da giovane promessa a venerato maestro e poi solito stronzo.
È una condizione del nostro tempo. Siamo forse la prima generazione che ha sperimentato un’altra idea di vita. In foto i nostri nonni a 30 anni ci appaiono come se ne avessero 50. Già i nostri genitori sono in un tempo diverso e certamente conta l’aspettativa di vita. Però il Covid ha rappresentato un brusco risveglio, con la durata media delle nostre esistenze che ha subito un contraccolpo. È un trauma collettivo che a ci costringe a pensare a qualcosa che davamo per scontato. E poi l’Italia soffre di ricambio generazionale. Quelli della mia età non avranno mai le condizioni favorevoli di chi ha oggi un contratto da 30 anni. Loro hanno iniziato a lavorare in un panorama molto vantaggioso. E questo ha come conseguenza che la nostra opinione pesa un po’ meno, visto che siamo costretti ad arrabattarci su più fronti. E così, quando dicono “il giovane” in tono paternalistico, rimarca che abbiamo sempre meno voce in capitolo. Un po’ è colpa nostra che non riusciamo a ribellarci, un po’ è che siamo immersi in una condizione che non abbiamo scelto.
Nel libro Lezioni di felicità spieghi come avvicinarsi a quella che in molti pensano sia solo una utopia. Ma quindi è possibile raggiungerla?
Tutti ci poniamo il problema della felicità. Io ho provato a tirare fuori una idea diversa su come raggiungerla. Oggi siamo monopolizzati da una versione consumista e molto esteriore della felicità, forzatamente irraggiungibile. Da un lato sembra obbligatorio esibirla come conquista, dall’altro è irraggiungibile perché connotata come uno stato di euforia e spensieratezza, che per definizione possono durare solo qualche istante. Ciò è legato anche alle idee di inconsapevolezza e di illusione, più cresci e più sarai disilluso. Ma tutto questo è ingiusto verso di noi come esseri complessi. Sentirsi in colpa di non essere abbastanza felici è diseducativo. Bisogna educarsi all’ambivalenza di quello che proviamo e alla legittimità. Temperando gli stati emotivi senza soffocarli.
Quindi più si cresce e più si può essere felici?
È questa l’idea greca della felicità e ci può insegnare tantissimo, perché tiene conto di noi come esseri complessi. È un percorso: più passa il tempo e più siamo in grado di essere felici. Il saggio per i greci è felice. Un po’ come me, che provo piacere a occuparmi di queste cose “pesantone”. È molto greco da parte mia, infatti studiare il loro esempio mi ha consentito di dare un nome a sensazioni che già provavo. Uno è più felice quanto più è padrone della sua visione del mondo.
Peccato che i greci non avessero i social, che ci propongono costantemente modelli inarrivabili con i quali confrontarci.
In quei luoghi è tutto ancora più contraddittorio, perché quando sei felice non hai voglia di fermare quel momento. E la rappresentazione non corrisponderà mai al tuo vero stato d’animo interiore. Ti costringono alla distanza. Sui social non cerchiamo comprensione o vicinanza, ma ammirazione. Non li demonizzo, certo è che bisogna ricordarsi che possono essere pericolosi per i meccanismi emulativi che innescano: la felicità devi acchiapparla prima che la prenda qualcun altro. Infatti, è la competizione che spinge ai commenti pieni di odio. Ci sentiamo come se qualcun altro ogni volta ci stia rubando qualcosa che dovrebbe essere nostro. Fortunatamente stanno mutando, da una concezione di perfezione a una di naturalezza. Anche in questo caso c’è il rischio che diventi una rappresentazione stereotipata, per cui bisogna fare caso al modo in cui ci raccontiamo, chiedendoci sempre il perché lo facciamo, se per noi o per seguire un modello di altri.
C’è un filosofo greco che oggi sarebbe perfetto come influencer?
Quello che io vorrei è Diogene di Sinope, detto “il Cinico”. Spregerebbe i social spaccandoli in mille pezzi, ma il suo pungolo sarebbe fondamentale. Lui è una specie di punk ante litteram. Di scuola socratica. Solo che Socrate andava in giro a chiedere alla gente per farla ragionare. Diogene invece era molto più urticante. Voleva mettere in crisi il conformismo, quindi dare scandalo mostrandosi anticonformista. Ci farebbe notare tutte quelle cose a cui siamo disposti a conformarci in maniera acritica.
Oltre alla felicità, le persone spesso si affidano alla filosofia per cercare di spiegarsi che cosa sia l’amore. Tu come lo affronti?
Parto da una definizione di Spinoza: “L’amore è gioia concomitante con l’idea di una causa esterna”. Ci sono dentro un sacco di cose in questa definizione. Intanto che sia una forma di gioia, non di euforia. Quindi un passaggio a una maggiore perfezione. L’amore ti fa sentire più radicato. Quando sei innamorato è come se abitassi meglio il mondo. E poi distingue l’amore da tutto il resto sottolineando una causa al di fuori di te, una persona o un animale, che fa nascere questa sensazione, mantenendoti ben presente che è qualcosa di distante da te, dove non esiste una vera fusione. E gli aggiungo una frase di Simone Weil: “Amare vuol dire acconsentire alla distanza che c’è fra te e l’altro”. Per questo l’amore un po’ di sofferenze e di struggimenti te li fa provare.
Hai compreso nell’amore anche quello per un animale. Per esempio il tuo cane, che si vede spesso nelle foto su Instagram?
Assolutamente sì. Se uno non ha avuto un cane non sa cosa vuol dire essere amati. Il loro è un amore totale e incondizionato. Emilio l’ho preso al canile ed era stato maltrattato e abbandonato. È un po’ traumatizzato, anche se molto buono. È un cane tradito dal suo vecchio padrone e probabilmente picchiato, ma nel giro di pochissimo si è affezionato moltissimo a me. Non voglio attribuirgli atteggiamenti come il perdono, però si è dimostrato pronto a volermi bene nonostante quella delusione. Se li abbandoni, ai cani spezzi il cuore. E possono insegnarci un’altra cosa: stare nel presente. Per noi è difficilissimo. Per loro invece è naturale, non avendo il senso del tempo. Se sto via due giorni o due ore mi fa le feste uguale. Cercare di abitare il presente è la grande lezione che possiamo imparare da loro, senza per forza doverci sempre proiettare nel futuro.
Non sembra facile, soprattutto per chi, come te, sta avendo successo nel proprio lavoro. Oppure è possibile?
L’altro giorno una signora al ristorante mi ha riconosciuto e l’ho trovato molto strano. Sento una responsabilità che prima non sentivo e un po’ mi fa paura. Ma ciò che mi ha più cambiato è l’insegnamento alla scuola Holden di Torino e alla Omero di Roma. Si è aggiunta la responsabilità di guidare e stimolare le persone, a volte più grandi di me. Non sono egolatrica, anzi mi spaventa chi è assorbito dal proprio ego, però più sei esposto e più la gente cerca qualcosa da te. Per me è importante non tradirmi, non trasformarmi in quello che sento ci si aspetta da me. Voglio rimanere fedele a me stessa, proteggere quella parte di me che non vuole uscire e nello stesso tempo portare avanti la mia attività come un servizio. Ma spero che gli altri non mi vedano come un’intellettuale rassicurante, come la Mary Poppins della filosofia.
Cosa ti fa più incazzare?
Mi succede molto raramente ed è una delle cose che odio di me. Me lo rimprovero di non incazzarmi quasi mai, perché vedo sempre le ragioni degli altri. Una cosa però mi fa imbestialire, cioè le persone che vengono umiliate. Quando qualcuno sottomette uno più debole. La sensazione di vedere una persona impotente mentre un altro abusa della sua forza. Mi manda fuori di testa, fin da piccola. Per il resto faccio fatica ad arrabbiarmi. Litigare con me è quasi impossibile.
Ci hai mai pensato a come vorresti morire?
Sono terrorizzata dalla morte, quindi faccio fatica a pensarci. Ma il periodo di pandemia mi ha costretta a confrontarmi con questa prospettiva, come un po’ a tutti. Ci ha tolto il velo dietro cui avevamo nascosto l’inevitabile. Premesso che, come molti, spero di non morire, mi piace tanto la fine scelta da Epicuro. È il filosofo che più mi rassicura su questo tema. È morto a causa di calcoli renali nell’antica Grecia, figuratevi il dolore, ma l’ultimo giorno lo ha passato dentro una vasca da bagno a bere vino con i suoi amici e a chiacchierare dopo che si era assicurato che tutti i suoi soldi andassero a sostenere i figli di chi gli era caro. Quindi, se proprio deve succedere, mi auguro avvenga dopo aver disposto che quello che ho racimolato vada a chi mi ha voluto bene e, pur nel dolore e nella paura, trascorrere gli ultimi attimi in uno stato di ebbrezza e non di solitudine.