Dieci anni di Adult Music, il suo primo disco ufficiale lanciato con lo slogan “un ascolto per adulti colti”. Li festeggia Immanuel Casto con la rilettura del suo singolo Escort 25, intitolata Escort 35 e in uscita venerdì 30 luglio, e con due concerti a Bologna e a Milano.
Sono le nuove tappe di un percorso avviato nel 2003, che ha visto Manuel Cuni – questo il nome all’anagrafe del cantante, gay dichiarato – affermarsi come il principe del “porn groove”, come lui stesso ha definito la sua musica, mix di electropop con rimandi agli anni ’80 e testi ad alto tasso erotico e dal linguaggio esplicito che gioca con la satira, il divertissement e la provocazione per contrastare moralismo e perbenismi in fatto di sessualità, ma non solo.
Si va dall’ossessione per modelli di bellezza irraggiungibili (Zero carboidrati) alla spettacolarizzazione della criminalità da parte dei media (Killer Star). Il tutto si è tradotto di recente anche nel nuovo singolo D!CKPIC, uscito a giugno, ed è correlato a una serie di giochi da tavolo politicamente scorretti che il 37enne ha ideato e commercializzato con la sua società Freak & Chic, tra cui Squillo, in cui si è invitati a gestire giri di escort, Witch & Bitch, le cui eroine sono streghe che lottano contro omofobi, fanatici religiosi, complottisti e pseudo-scienziati, e Red Light – A star is Porn, gioco di carte dedicato all’industria pornografica.
Progetti che fanno del Casto Divo, come lo chiamano i fan, il personaggio giusto con cui confrontarsi su temi oggi al centro del dibattito pubblico come il Ddl Zan e le lotte per i diritti LGBT+. Abbiamo colto l’occasione per rivolgergli qualche domanda senza filtro, a partire da una constatazione: “Nei 10 anni trascorsi da Adult Music l’approccio a certe istanze ha preso direzioni diverse rispetto al passato”. “Abbiamo la sfortuna o la sfortuna, questo lo valuteremo in futuro, di assistere a enormi cambiamenti culturali”, dice Cuni, presidente del Mensa Italia – l’associazione che riunisce coloro che vantano almeno il 98º percentile del QI e che dunque rientrano in quel 2% della popolazione considerato “plusdotato”.
Qual è la tua prospettiva rispetto a questa evoluzione?
La prima cosa che mi viene da sottolineare è che in Italia è sostanzialmente solo dall’approvazione delle unioni civili che la questione dei diritti civili delle persone LGBT+ è entrata a pieno titolo nel dibattito politico. Prima si era iniziato a discuterne timidamente verso la fine degli anni ’90, ma a partire da una condizione particolare che riguarda il nostro Paese nello specifico. Da noi l’omosessualità non è mai stata illegale, al contrario che in altre nazioni come Francia e Inghilterra dove, invece, lo è stata, con vicende come quelle di Alan Turing e Oscar Wilde che hanno scosso l’opinione pubblica, o ancora come la Germania, dove le prime proposte di decriminalizzazione dell’omosessualità – ovviamente non andate in porto – risalgono alla fine dell’Ottocento. Questo cosa significa? Che in quei Paesi nella mente delle popolazione quella dei diritti LGBT+ era un’istanza da tempo: la maggior parte delle persone non era d’accordo, ma l’istanza esisteva e con essa classi politiche nate in un mondo che quell’istanza l’aveva già presa in carico. Da noi, al contrario, almeno fino alla fine degli anni 90, c’è stato un patto implicito tra la società e le persone LGBT+, le quali teoricamente, certo, fanno parte della società, ma nei fatti sono una categoria di serie B. E il patto era questo: libertà in cambio di clandestinità.
Ossia hai diritto di vivere come ti pare, ma lontano dai miei occhi. Pura ipocrisia, no?
Già, perché tradotto significa: puoi fare quello che vuoi, basta che lo fai a casa tua. Il punto è che chi dice questo anche in buona fede, e molti lo dicono ancora oggi, spesso lo fa sentendosi persino un po’ illuminato, come se stesse concedendo chissà cosa. Il che ha una ragione storica, se il termine di paragone sono le decine di Stati in cui tuttora nel mondo l’omosessualità è illegale, se non addirittura punita con la pena di morte, ma naturalmente non dovrebbe essere quello il termine di paragone. Però insomma, fa comodo e di sicuro ha fatto comodo in passato, fino a quando con i moti di Stonewall di fine anni ’60 – la cui ricaduta è arrivata fino a noi, anche se come sempre in ritardo – le persone LGBT+ hanno violato il suddetto patto e hanno cominciato a dire che non volevano solo la libertà, ma anche la legittimità, gli stessi diritti degli altri, una famiglia. Lì è successo che sia all’interno della stessa comunità LGBT+, sia all’esterno, si sia creata una divisione tra chi ha rotto quel patto e aperto il conflitto e coloro che appartenendo a generazioni precedenti quel conflitto avrebbero preferito non aprirlo. Adesso le conseguenze di tutto ciò sono sotto i nostri occhi: il dibattito è mostruosamente polarizzato, basti pensare al Ddl Zan.
Che cosa ti va di dire in proposito? Parliamo di un decreto legge la cui approvazione è stata finora osteggiata con una pioggia di polemiche ed emendamenti.
Spero che prima o poi il Ddl Zan passi. Dopodiché trovo peculiare che altre istanze ugualmente urgenti come la sburocratizzazione dell’apparato fiscale, aiutare i giovani a fare impresa e i diritti dei lavoratori non riescano a catturare l’attenzione della gente, che in sostanza se ne disinteressa. Mentre il Ddl Zan ha catalizzato l’attenzione, per cui tutti si sono sentiti e si sentono in dovere di schierarsi a favore o contro.
Non è dovuto a mancanza di preparazione e pigrizia mentale, questo? Per discutere di diritti sociali devi approcciarti a temi economici che per i più sono semplicemente astrusi e da evitare. Più facile focalizzarsi sui diritti civili, il che è un bene, sono importanti, ma se l’obiettivo è quello di una società più equa non basta.
Sì, sono convinto c’entrino anche i fattori che dici, la lotta per i diritti civili è più facile da abbracciare. Anche perché quel tipo di diritti, avendo a che fare con aspetti quali l’identità e la sessualità che ci toccano nel profondo a prescindere da quali siano le nostre idee in proposito, ha un impatto emotivo sulle persone. Mentre chi è che ha voglia di stare lì ad ascoltare uno che ti fa un’analisi del sistema fiscale?
Già, credo sia un gap che vada colmato. Però vorrei chiederti: rispetto agli anni ’90 e ai primi Duemila la discussione oggi non è più incentrata sul cosiddetto “gay pride”, ma sul concetto di fluidità di genere. Il che ha aperto ulteriori, nuovi risvolti, nella polarizzazione cui accennavi prima.
Verissimo, e addirittura chi ha portato avanti per decenni un determinato tipo di battaglie ora si ritrova spiazzato.
Tu che ne pensi?
Domanda complessa. Penso che le etichette siano uno strumento e che come tutti gli strumenti non siano buone o cattive in sé: vanno usate bene. In questo caso servono a identificare un determinato tratto identitario, per cui se devo parlare di una categoria perché ha delle problematiche e delle istanze specifiche avrò bisogno di utilizzare un’etichetta. Il rischio sempre presente, e da evitare, è di schiacciare un’intera identità in quell’etichetta. Molto banalmente io sono della scuola secondo cui ognuno fa le proprie scelte di comunicazione e al netto di soluzioni offensive va bene così. Detto questo, è difficile che io dica “i gay vogliono questo”, semmai parlerò di “persone omosessuali”, perché il focus è il fatto che gli omosessuali sono persone, laddove l’omosessualità è una sfaccettatura del poliedro che ognuno di noi è. Oppure, andando un po’ sullo stereotipo, pensiamo a una persona che dice “ah, io adoro i gay!”: l’affermazione è di per sé positiva, ma espressa nello stesso modo in cui si potrebbe dire “ah, io adoro i barboncini!”.
L’obiettivo è comprendere che siamo tutti persone e che l’orientamento sessuale non è che un aspetto: è questo che stai dicendo?
Esatto, dopodiché a proposito della fluidità estrema ammetto che ci sono cose che non capisco perché non mi appartengono. Ma questo non vuol dire che le ostacolo, anzi, ciò che dico è ok, prenditi il tuo spazio, raccontami la tua storia, aiutami a comprendere.
Bisogna riconoscere che la confusione è tanta, specie se la lotta per i diritti LGBT+ si incrocia con la questione del politicamente corretto, che portata all’estremo può condurre a derive non indifferenti, e con il dibattito sull’uso dei pronomi she/her, he/him, they/them per definire il genere in cui ciascuno si identifica. Siamo in una fase di passaggio?
Penso proprio di sì, ma per fase possiamo tranquillamente intendere un paio di decenni. Del resto, l’evoluzione non è un processo lineare, passa sempre per l’eccesso e la sperimentazione, che è un po’ quello che sta avvenendo adesso, si tratta di una dinamica antropologica. Credo anche ci sia un profondo senso di rivalsa: categorie marginalizzate per lungo tempo adesso, grazie ai social e a una cultura dell’inclusività che sta prendendo fortunatamente piede, si ritrovano con in mano un po’ di potere che gli era stato negato per secoli, non per qualche giorno, né per qualche anno. Ecco, quando questo si trasforma in pratiche come il necroposting, consistente nell’andare a vedere cosa ha dichiarato una persona anni fa senza tenere conto che non c’era la sensibilità di oggi verso certe tematiche, allora non mi piace.
Concordo, è una delle derive cui accennavo poco fa e fa il paio con la cancel culture, il caso Kevin Spacey la dice lunga. O no?
Guarda, da fan di House of Cards sono ancora in lutto, l’ultima stagione senza Spacey è inguardabile, quasi apocrifa. Lì, a seguito delle accuse che gli sono state rivolte, si è deciso che lui andava proprio cancellato, ed è un ottimo esempio, questo, perché nella stagione girata senza Spacey non solo non appare l’attore, ma non appare quasi mai nemmeno il suo personaggio, come se non fosse mai esistito. Ad ogni modo non ho capito quanto il dibattito sulla cancel culture sia davvero rilevante, anche perché le informazioni che ci arrivano dipendono dalla nostra bolla sociale, politica e culturale. Lo sappiamo, ormai, qual è il problema dei social, ossia che non ci fanno vedere ciò che ci piace, ma ciò che già pensiamo: sono piattaforme di aziende che sanno benissimo che è la conferma l’elemento che ci fa stare lì, che ci gratifica. È per questo che se il problema della cancel culture esiste, capirne la portata è difficilissimo, e io non ci sto riuscendo. Perché capita che casi poco rilevanti facciano il giro del mondo assorbendo l’attenzione dei social per giorni, vedi il caso della giornalista di San Francisco, ossia una persona al mondo, che ha constatato che il bacio a Biancaneve fosse non consensuale: era così essenziale parlarne? E davvero la cancel culture ha una portata così rilevante?
Forse più nel mondo anglosassone, da cui tendiamo ad assimilare usi e costumi, salvo talvolta non renderci conto che il nostro terreno culturale è totalmente diverso.
A proposito di questo, tornando al discorso della fluidità, ora si parla di identità non binarie, cosa giustissima, perché spinge verso la decostruzione del binarismo di genere. Ciò detto, vedo che per tentare di conseguire questo scopo si ricorre agli stessi strumenti usati negli Stati Uniti, peccato che negli Usa lo hanno a livello grammaticale, il they neutro, noi no, e data questa differenza, cercare di importarlo è un’operazione complessa dal punto di vista culturale e linguistico.
Nonostante tutte queste trasformazioni, come Immanuel Casto non mi pare tu abbia cambiato linguaggio.
Il linguaggio no, non si è così modificato. Più che altro progressivamente mi sono lasciato alle spalle quella che inizialmente era un’operazione artistica – passami il termine – dadaista, alla Duchamp, per cui prendo un cesso, lo metto in un museo, dico che è arte ed è l’operazione stessa a renderlo arte: allo stesso modo io ho preso tematiche molto disturbanti, le ho trattate con un lessico molto esplicito e ci ho costruito attorno una cornice pop, una produzione musicale, dei videoclip… Operazione interessante, e all’epoca ha funzionato, ma che se reiterata sarebbe diventata sterile, per cui pian piano mi sono spostato verso la satira di costume e questo mi ha portato a un’evoluzione nei contenuti, più che nel lessico. Parlando di Adult Music devo dire che riascoltato oggi è un disco che resta per me moderno, non sento che sono passati 10 anni da quando lo pubblicai. È l’attualità che descrive che è effettivamente cambiata, ma è pur vero che sono sempre stato attento a non fare riferimenti espliciti al qui e ora, a non citare fenomeni, personaggi, oggetti, marchi o fatti di cronaca specifici: la canzone scritta così magari funziona, ma invecchia in fretta. Credo, semmai, nel concetto junghiano secondo cui quando scavi veramente a fondo, la tua verità è la verità di tutti e prescinde dal trascorrere del tempo. Che è il motivo per cui ci sono autori del passato che riusciamo a capire perfettamente anche oggi.
Però il tuo nuovo singolo “D!CKPIC” parla della tendenza odierna di spedire immagini intime esplicite in chat senza il consenso del destinatario o della destinataria.
Confermo, non si parla della mera condivisione di materiale intimo nel contesto del cosiddetto sexting, quando si sta flirtando e ci si eccita a vicenda in remoto: si parla di questa condivisione quando non richiesta.
E stando al tuo testo, non mi sembra che questa cosa ti esalti.
No, infatti. Nella mia esperienza ho la percezione che chi invia queste foto pensi di farti un regalo. Della serie: ehi, guarda cosa ti faccio vedere! A me non piace per niente, è uno schifo, ma non per moralismo, è la decontestualizzazione che mi disturba.
No, infatti. Nella mia esperienza ho la percezione che chi invia queste foto pensi di farti un regalo. Della serie: ehi, guarda cosa ti faccio vedere! A me non piace per niente, è uno schifo, ma non per moralismo, è la decontestualizzazione che mi disturba.
Cioè, che qualcuno lo faccia a caso, senza che prima si sia instaurata una reale complicità tra le due parti.
Esatto, la vera discriminante tra una cosa buona e una cosa cattiva è proprio questa ed è un elemento centrale di quell’educazione sessuale e affettiva che non si riesce più a fare: una cosa è buona se ci sono consapevolezza, ossia “so cosa sto facendo”, e consenso, ossia “voglio farlo”, da entrambe le parti.
Mi viene una curiosità su una cosa che hai detto sul tuo canale YouTube: “Un adulto non ha il diritto di essere amato, essere amati è un privilegio”. Cosa intendi?
È una delle intuizioni che ho avuto nel corso del mio lavoro di “postacuorista” [si riferisce alla rubrica “C’è posta per Casto” su Gay.it] di cui vado più orgoglioso, benché dubiti di essere stato il primo a formulare questo concetto. La premessa è che noi sappiamo che la maggior parte delle relazioni che abbiamo nella nostra vita hanno un termine, dopodiché con la fortuna, l’incastro giusto e tanto lavoro ci sono relazioni che proseguono. Tuttavia quando un amore finisce la reazione è la rabbia: quel bastardo, quella stronza… Che è curioso, è come arrabbiarsi perché non si è vinto alla lotteria. Eppure leggendo le lettere di persone che uscivano da una delusione sentimentale mi sono reso conto che la tendenza comune è proprio questa e si poggia su un presupposto: pensare che tutti abbiamo diritto a una storia d’amore. Ma non è così: i bambini hanno diritto di essere amati, ma se noi adulti partiamo dall’affermazione di questo diritto, la conseguenza logica è che gli altri hanno il dovere di amarci, e se non ci amano, allora sono cattivi, vanno puniti. No, noi adulti abbiamo tutti il diritto di essere rispettati, questo sì, e se ci arrabbiamo quando non lo siamo è giusto, significa che rispettiamo noi stessi. Al contrario essere amati è un privilegio e attenzione a scambiare i diritti per i privilegi, perché questa è la ricetta per l’infelicità.
L’ho trovato un concetto interessante da esplorare anche nel contesto della lotta contro le discriminazioni, perché credo che quella lotta non dovrebbe mai fossilizzarsi sul vittimismo di una parte.
Va chiarito che quella di vittima è una condizione e non un tratto identitario. Ma la presa di coscienza di questo è un processo lungo e difficile che solo il diretto interessato può condurre. Perché non puoi andare da una persona e dirle che non è vero che è vittima, primo perché magari lo è stata davvero, secondo perché decidere che hai subito certe cose, ma pazienza, non le farai subire ad altri, e riuscire quindi a spezzare la catena accantonando il desiderio di vendetta o di rivalsa è molto complicato, pur se necessario. C’è chi ci mette anni di psicoterapia.
In tutto ciò quante accuse di essere diseducativo e da censurare hai raccolto durante il tuo percorso e ne hai raccolte più da destra o da sinistra?
Ho una risposta chiara: a meno che la memoria mi tradisca, io ho ricevuto attacchi solo da sinistra. Solo. Che è incredibile, ma tant’è.
Come te lo spieghi? Si tratta di puritanesimo? O della convinzione, discutibile, che l’arte debba avere un compito anche formativo?
Credo sia perché l’istanza dell’attenzione al linguaggio se l’è attestata la sinistra. L’altra ragione è il modo in cui si considera l’arte e personalmente ho orrore di un mondo in cui l’arte deve essere morale: può esserlo, però per me deve essere libera, lo è per definizione. Senza distinguere in maniera dicotomica tra buoni e cattivi – sappiamo che il gioco della politica è fatto anche di battaglie pubbliche e di ricerca di visibilità –, non posso non riconoscere che un tipo di produzione artistica come la mia si presta molto a quel gioco: “oddio, questo ha fatto un gioco sulla prostituzione!”, “oddio, questo inneggia ai disturbi alimentari!”. Però si tratta di accuse finite sempre nel nulla, perché non ci sono i presupposti legali per renderle effettive e perché spesso chi mi attacca fa appello ai giovani, ma i giovani hanno già compiuto il passaggio successivo, non pensano minimamente che l’arte debba formare o educare. Senza contare che spesso le accuse mi sono state rivolte da persone che non avevano nemmeno ascoltato le canzoni o analizzato il gioco, e da rappresentanti dello Stato non mi aspetto questa superficialità.
Ho visto che col Mensa Italia stai diffondendo video e articoli che smontano le fallacie argomentative e i bias cognitivi che tanto inquinano il dibattito pubblico, anche sul Ddl Zan.
Il Mensa è un’associazione apolitica per statuto, però sì, stiamo cercando di fornire strumenti per migliorare il dibattito ed è qualcosa che andrebbe fatto anche a scuola, a partire dalle medie. Tra l’altro vedo che sono strumenti apprezzati, perché possono aiutare le persone a diventare consapevoli di errori dialettici che commettono magari senza rendersene conto e che finiscono per inficiare la possibilità di un reale confronto.
Come ti spieghi questo regresso nel campo della dialettica? Sembra che non si riesca a discutere di nulla senza imbattersi in risposte fuori tema e salti logici.
Credo sia dovuto al fatto che ci siamo ritrovati di fronte a un’accelerazione del progresso tecnologico senza che ci sia stato un congruo progresso culturale. La mancanza di consapevolezza nell’utilizzo di certi strumenti che ci siamo ritrovati tra le mani ci ha portati a farne l’uso peggiore. E proprio in funzione dei nostri bias, del modo in cui la nostra mente si è evoluta in maniera funzionale e utilitaristica. La cosa buffa è che ora stiamo reimportando dagli USA il cosiddetto “debate” che loro insegnano nelle scuole, ma che è una cosa, la disputatio, che abbiamo inventato noi nel Medioevo. Il punto è che è importante sapere dibattere e la base è: io sostengo una tesi, ti porto delle argomentazioni a sostegno, dopodiché tu potrai sostenere la tesi opposta confutando le mie argomentazioni e/o portandomi le tue. Se invece non diamo un minimo di ordine al discorso non capiamo più niente.
A questo proposito ho notato un tuo post sul Green Pass in cui smonti l’identificazione di questa misura con le leggi razziali.
Già, solo che anche lì c’è chi ha commentato con una fallacia argomentativa scrivendomi “allora sei contrario alla libertà”. Ma non è che o ritieni che il Green Pass sia assimilabile alle leggi razziali o per te non è problematico, ci sono una serie di infinite sfumature nel mezzo. E io dove mi colloco? Sono favorevole al Green Pass, ma l’esigenza del Green Pass la ritengo un fallimento politico, amministrativo, culturale. La considero la scelta migliore tra la rosa di scelte orrende a disposizione conseguente a tutti gli errori commessi. È una misura effettivamente discriminatoria, soprattutto perché entrerà in vigore in un momento in cui non tutti hanno avuto la possibilità di vaccinarsi, anche tra coloro che lo desiderano. L’alternativa era tra tenere aperte le attività consentendo a chi si è vaccinato di accedere o di chiudere tutto di nuovo? Diciamo che penso sia meglio la prima soluzione, però sono perfettamente consapevole delle problematiche politiche che questo comporta: capisco chi è preoccupato.