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Al Coachella tra i giganti silenziosi di Edoardo Tresoldi

Un Borromini da festival, però la sua opera non inganna, anzi. L'intervista all'artista brianzolo in questi giorni a Indio con i suoi templi trasparenti.
Etherea, l'opera di Edoardo Tresoldi pensata per Coachella 2018 - Foto di Roberto Conte

Etherea, l'opera di Edoardo Tresoldi pensata per Coachella 2018 - Foto di Roberto Conte

Il primo dei due fine settimana del Coachella è arrivato e da oggi sul palco di uno dei festival più famosi al mondo si alterneranno Eminem, Beyoncé, The Weeknd, St. Vincent, i War on Drugs e decine d’altri. Ci sarà anche il dj Joseph Capriati, unico italiano presente al festival. O meglio, unico musicista, infatti da qualche decennio il Coachella è diventato meta di grandi artisti che con le loro installazioni e sculture animano gli spazi di Indio in California: quest’anno anche Edoardo Tresoldi sarà presente con una sua creazione agli Empire Polo Fields, accanto ai palchi. Ha bazzicato i mondi della scenografia, quelli dell’archeologia e della street art, anche se lui dice “cerco di evitare di definirmi. Non perché voglio fare l’alternativo, ma perché nel momento in cui ti incastri in un settore, ti precludi una serie di chiavi di lettura”.

Forbes un paio di anni fa lo ha inserito nella lista degli artisti Under30 più influenti al mondo e adesso che i 30 anni li ha passati (da pochi mesi) Tresoldi ha committenze da tutto il mondo. Il suo codice è la trasparenza, infatti si è affermato con le sue creazioni con le reti, che compongono disegni nell’aria. Prima figure umane, poi architetture imponenti. Proprio grazie alla sua conoscenza tecnica, Tresoldi riesce a far svettare nell’aria edifici e strutture enormi delle quali si può vedere solo il perimetro. Come se fossero, appunto, trasparenti. E attenzione perché trasparente non significa invisibile, anzi a volte gli elementi si possono svelare celandoli, ed è così che Edoardo agisce: crea cornici del paesaggio, telai di ambienti, bordature di panorami. Le sue opere sono enormi, ma discrete come “giganti silenziosi”, come dice lui. E il silenzio in arte può essere la forma più alta di espressione, qualcosa che ci riempie permettendoci una dimensione di intimità persino in mezzo a una folla.

Al Coachella ha creato tre diversi templi di 10, 16 e 21 metri. Tutti uguali nella loro struttura e nella loro trasparenza, ma su scala diversa. Un percorso che con svariati approcci ci permette di sagomare il cielo. Immaginatevi, proprio dove vi trovate ora, di entrare nella porta più vicina e che questa vi dia accesso a una stanza identica a quella che avete lasciato, ma una volta e mezzo più grande. E da questa di poter accedere a un’altra, sempre uguale, ma ben due volte più grande. E se poi la struttura nella quale vi trovate non ha più pareti o soffitti, ma soltanto i contorni, allora ecco che anche il cielo sarà di volta in volta diverso, sempre più alto, e le nuvole sempre più piccole e lontane. Chi avrà la fortuna di fare questo percorso, potrà godere del privilegio dell’intimità persino in mezzo alle centinaia di migliaia di persone del Coachella, magari sentendosi anche un po’ strano come quando (chi non l’ha mai fatto, provveda) si attraversa il capolavoro di trompe-l’oeil della falsa prospettiva di Borromini a Roma, che con un’illusione ottica ci farebbe giurare che una statua di appena 60 centimetri sia invece alta due metri. Tresoldi è un Borromini da Coachella, però la sua opera non inganna, anzi ci permette di scegliere quanto sia alto il cielo spostandoci da una struttura all’altra.

Lo Abbiamo incontrato, o meglio ci siamo collegati con lui proprio durante il montaggio che impegna decine di persone. È un bel traguardo essere invitati a un festival simile e per lui non era la prima volta: «Conoscevo molto bene il Coachella e non puoi capire quanto ho rosicato quando l’anno scorso mi hanno chiamato e non ci sono potuto andare, perché ero negli Emirati per un altro lavoro. Questa è una dimensione che mi piace molto».

Tu giochi con la trasparenza. È un modo per nasconderti?
A volte ci ho pensato e mi sono risposto che la mia timidezza intrinseca qualcosa deve c’entrare per forza. Anche se questo poi va a scontrarsi con la voglia di volersi mostrare. È come mettere amplificatori enormi per far sentire una persona che parla sottovoce. Per sentire ti devi concentrare ed è allora che entri in un livello più intimo, in una dimensione più personale.

quando ti relazioni con il cielo è un momento molto intimo, anche se sei in mezzo a tante persone

Cosa metti al centro?
Ciò che c’è già. Il cielo in questo caso: lo inquadro in una forma, in un disegno in aria, che rende materiale ciò che esisteva anche prima. Vorrei portare le persone a guardare in alto, perché quando ti relazioni con il cielo è un momento molto intimo, anche se sei in mezzo a tante persone. Nei primi lavori, con le figure umane, cercavo un contatto empatico con il pubblico. Se mettevo una figura trasparente a scrutare il mare, chi la guardava si sentiva suo compagno e non semplice spettatore, perché guardava verso lo stesso orizzonte.

Non hai paura che le persone interpretino le opere in modo sbagliato?
Soprattutto all’inizio mi facevo molti problemi su quello che volevo o non volevo venisse percepito, ma alla fine ho capito che l’opera è ciò che le persone vivono vedendola. Per esempio, quando facevo le figure trasparenti tutti le chiamavano “i fantasmoni”. Per mesi ho odiato l’idea che li chiamassero così, ma poi ho capito non ne potevo uscire e che anzi, questa cosa poteva rappresentare un’occasione. La gente creava un racconto con le mie immagini e io questo racconto potevo sfruttarlo proprio attraverso l’immaginario collettivo del fantasma. E allora ecco che con il mio linguaggio parlavo loro dell’assente, dello sparito, di ciò che non c’è più ma è tornato. Concetti che a me interessavano e che potevo veicolare senza forzare nessuno a vedere ciò che volevo io.

E con l’architettura invece?
Immagino le mie opere come una sorta di filtro, con cui gli elementi circostanti diventano l’attrazione principale deviata da ciò che ho inserito. Voglio portare le persone a guardare in alto, verso una cupola che le proietti verso il cielo. Sono le nuvole a dare un senso agli spazi, perché poi con la trasparenza si creano giochi ottici sorprendenti.

Cosa ti aspetti dai visitatori?
Che si lascino coinvolgere, ma come vogliono loro. Ho cercato infatti di strutturare l’opera al di là del discorso scultoreo, di creare una installazione vivibile e attraversabile. Sono arrivato all’architettura proprio perché volevo fare opere che avessero un rapporto ludico con le persone. Qui al Coachella ho trovato interessante spingere le persone a scoprire lo spazio, dedicando una mezz’ora a camminare, a sdraiarsi, a passare da un tempio a un altro. C’è chi si troverà meglio in quello più piccolo, chi in quello più grande.

vorrei che il contenuto
parlasse più della forma

Certo questo non è un palcoscenico facile con cui confrontarsi.
Hai ragione, quando ti mettono a disposizione uno spazio pubblico si deve avere un rispetto incredibile, perché alla fine occupi uno spazio che è di tutti. E allora cerco di non essere invadente, perché voglio creare riflessioni con chi vive il mio lavoro. La mia è una esperienza, se la condividiamo allora possiamo discutere e tutto assume un senso. Ho creato una architettura classica, linguaggio che a noi italiani appartiene tantissimo, per cercare di capire cosa questo significhi nel contemporaneo. E vorrei che il contenuto parlasse più della forma.

Tu hai trovato un codice estetico riconoscibile. In generale hai paura quando devi dare vita a un’opera o vai sul sicuro?
L’insicurezza è un elemento fisso. Non riuscirei mai a prendere il pacchetto vincente e fare un’azione senza rischio. Mi sentirei in colpa verso me stesso e verso la mia ricerca. Ho avuto la fortuna di vedere riconosciuto velocemente il mio codice estetico come dici tu, me questo non mi fa sedere sugli allori, anche mi dà un ulteriore carico di responsabilità. Sento di dovere ricercare con più forza. Il discorso della rete è definito, chiaro, iconico, però sto cercando di lavorare anche con altri materiali, di oscillare. Perché poi sai, hai bisogno ogni tanto di uscire da dove sei e trovare altre chiavi di lettura. Già dal figurativo sono passato all’architettonico e questi sono due approcci, magari non per il pubblico, ma per me molto differenti. E poi mi sono confrontato con tanti ambiti, persino con la musica.

Si può vedere la musica?
Assolutamente sì.

E che forma ha?
Ne ha tante. Quando tocchi un materiale che è identico a quello di un giocattolo che usavi da bambino, immediatamente di tornano alla mente luoghi, sapori, odori che non hai davanti, ma fanno parte di te. La musica allo stesso modo è un contenitore di esperienza e ogni canzone che ascoltiamo ci riporta alla mente il nostro vissuto, determinate esperienze. Questa è la forma della musica: la visione di un momento. Se scegliamo di ascoltare un certo tipo di musica è perché vogliamo essere trasportati a una certa forma del mondo. In un festival come questo, il gruppo che non conosco e scoprirò, in futuro mi riporterà a questo posto, a questa gente, a questi tre templi che ho progettato.

Usi molti medium, però c’è un confine tra architettura, musica, arte.
Io vorrei sfumare questi confini, questi limiti. Vorrei rompere i muri che si creano tra discipline, perché oltre c’è di tutto. Io uso il linguaggio dell’architettura, ma non sono un architetto. Uso quello della musica, ma non sono un musicista.

Cosa rimarrà alla gente di ciò che fai?
Non lo so, l’arte è indefinibile. Io mi sono fatto la mia idea, non di quello che è l’arte ma di quello che vorrei proporre, ovvero la poesia degli spazi e dei gesti come elemento imprescindibile.

Cocteau diceva che la poesia è indispensabile, ma che non sapeva dire per cosa.
È vero. Ed è inspiegabile: chissà perché la poesia la si può trovare nel semplice gesto di guardare in alto o di andare in un sito archeologico ad ammirare quello che non c’è più. Ci sono tutta una serie di piccoli elementi poetici nelle esperienze umane e tutto ciò che desidero è farli esplodere.

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