Intelligenze umane e artificiali: è uno degli argomenti clou della ventesima edizione del “festivalfilosofia”, dal 18 al 20 settembre a Modena, Carpi e Sassuolo con quasi 150 appuntamenti gratuiti tra lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, attività per ragazzi e altro ancora. Omaggio al pensiero di Remo Bodei, il programma è dedicato al tema delle macchine, con l’obiettivo di far emergere le sfide poste dall’innovazione tecnologica nei settori più disparati, discutendone le prospettive e le implicazioni sociali ed etiche.
Tra le questioni affrontate, quella piuttosto spinosa degli sviluppi tecnologici legati alle neuroscienze, oggi al centro del dibattito pubblico anche per la visibilità di Elon Musk, il multimiliardario imprenditore sudafricano-americano, patron di SpaceX e Tesla Motors con nel cuore il sogno di colonizzare Marte, che lo scorso 28 agosto ha presentato in diretta streaming i progressi di un’altra sua azienda, Neuralink, che si occupa di sviluppare dispositivi impiantabili nel cervello per mettere in comunicazione uomo e computer. Il che potrebbe un giorno condurci alla cura di molte malattie e, in una quantomeno discutibile ottica transumanistica, persino all’immortalità. Al “festivalfilosofia” l’argomento sarà affrontato da vari relatori, tra cui Alberto Oliverio, professore emerito di psicobiologia all’Università La Sapienza di Roma con in curriculum numerose pubblicazioni sul tema, da Esplorare la mente. Il cervello tra filosofia e biologia (1999) a Il cervello che impara. Neuropedagogia dall’infanzia alla vecchiaia (2017). «Elon Musk? È un esaltato», dice lui che di neurotecnologie è un esperto.
La domanda è: quanto? Ci piacerebbe capire a che punto è realmente la sua Neuralink: ce lo sa dire?
Innanzitutto facciamo una premessa: Musk intende impiantare elettrodi nel cervello umano, ma ci sono degli aspetti tecnici di cui bisogna tenere conto. Finora questo tipo di intervento è stato sviluppato per mezzo di tecnologie non invasive: gli elettrodi vengono impiantati sul cuoio capelluto, per esempio per registrare l’elettroencefalogramma o per rilevare quando una persona immagina di compiere un movimento, tecnica riabilitativa ormai piuttosto diffusa nel trattamento delle paralisi totali. Io stesso ci ho provato, mi sono infilato in testa una cuffietta e nel giro di breve tempo ho potuto osservare che pensare di compiere un movimento equivale ad attivare un’area celebrale. Poi ci sono le tecniche invasive…
Invasive in che senso?
Beh, lo dice la parola stessa, si tratta di tecniche che consistono nel mettere degli elettrodi dentro al cervello, più o meno in profondità. Il problema che si presenta è che questi elettrodi devono essere tollerati dai tessuti cerebrali, e fino a un po’ di tempo fa era un problema non indifferente. Oggi, invece, in seguito a un notevole avanzamento della ricerca in questo settore, si è arrivati a creare degli elettrodi che ingannano i neuroni e dunque le sinapsi, tant’è che abbiamo immagini che mostrano come i neuroni possano attaccarsi alla superficie porosa di questi elettrodi e sinaptarsi con questi ultimi dando vita a dei contatti stabili che in linea di massima possono durare circa un decennio. E qui per ora l’applicazione più gettonata ha riguardato la malattia di Parkinson, nei casi in cui le terapie farmacologiche sortiscano effetti scarsi.
In quei casi come si agisce?
Si impiantano degli elettrodi in strutture profonde – in particolare, il caudato –, e che cosa succede? Che il paziente, con un micro-interruttore posto sotto la clavicola, una sorta di pacemaker, può attivare l’elettrostimolazione, ossia la stimolazione di quei nuclei cerebrali, e quando dorme o non gli serve disattivarla. Il che può aiutare a ridurre il tremore o la rigidità provocati dal Parkinson.
Esistono anche esperimenti volti alla cura della depressione? Perché immaginare di curarla con un microchip…
Qui posso rispondere che si è provato a mettere degli elettrodi sul nervo vago, con dei risultati mediamente positivi. Però aggiungerei che prima di sottoporre un paziente a un intervento del genere, insomma… meglio pensarci due volte; i farmaci e la psicoterapia restano ovviamente la scelta più conservativa. Diverso il caso della cura della sordità: in questo settore, man mano che le tecniche si sono raffinate, è stato possibile impiantare non solo due o tre elettrodi nel nervo uditivo, ma decine di elettrodi che, rispondendo a diverse frequenze, stimolano lo stesso nervo uditivo al di là del sistema degli ossicini, quindi mandando al cervello dei segnali che ovviamente il cervello deve poi interpretare. Tradotto: serve un periodo di esperienza, di rieducazione, per far sì che il cervello risponda a quegli stimoli, a quelle diverse lunghezze d’onda, ma i risultati poi si raggiungono. E questo prova che un interfacciamento a fini terapeutici è possibile e anche giusto.
Il che potrebbe valere anche per la cecità, no?
Certo, e lì adesso si arriva alla possibilità, da parte della persona non vedente, di vedere delle pixellature non estremamente grossolane che consentono il riconoscimento, per esempio, di un volto: se con le prime protesi il paziente arrivava al massimo a vedere un’area bianca corrispondente al volto e due macchie più scure dove ci sono gli occhi, ora può riuscire a scansionare il volto e ad avere una decente informazione rispetto al fatto che si trova di fronte a un volto. Perché anche in questo caso, sia chiaro, bisogna imparare a vedere, non è qualcosa che accade in automatico, in maniera immediata, come per miracolo: il cervello deve imparare a riconoscere il chiaro e lo scuro, e così via.
Sta dicendo che quando Elon Musk parla come se certe conquiste della scienza fossero già quasi a portata di mano, esagera?
Musk è un imprenditore che investe grandi quantità di soldi. Li ha investiti per la Tesla e ha avuto successo. Li ha investiti per il lancio spaziale con SpaceX e ha avuto successo. E come si sa, le carriere di successo sono molto suggestive per la gente. Ora ha investito molto denaro in Neuralink, oltretutto coinvolgendo tanti scienziati di valore, con l’idea di sviluppare interfacce neurali impiantabili nel cervello, e questo non stupisce, lo stanno facendo anche altri. Ma sebbene queste interfacce possano illustrarci in maniera maggiore che cosa avviene nel cervello, si pone un problema etico.
Dica.
Impiantare questi oggetti sulla corteccia per comprendere il funzionamento del cervello, quindi prima di averlo compreso, quel funzionamento, è un passo su cui bisognerebbe quantomeno riflettere. Perché per il momento tante cose non le sappiamo. Quali sono i codici della memoria? Non lo sappiamo. Sappiamo quali sono le aree coinvolte nei danni alla memoria sulla base di numerosi studi clinici e sperimentali sugli animali e in parte sugli esseri umani. Possiamo anche grosso modo localizzare le sedi della memoria autobiografica. Ma stabilire quali sono le reti neurali fondamentali per un ricordo è un’altra cosa.
Per ora pare che Musk la sperimentazione con i suoi elettrodi l’abbia portata avanti sui maiali. Oltre che su stesso, se è vero che ha già un microchip in testa come ha dichiarato.
Si dice che i maiali siano simili a noi, ma lo sono dal punto di vista del metabolismo e degli aspetti immunitari; dal punto di vista cognitivo imparano anche loro, avranno anche le loro emozioni, ma insomma… Mi pare un salto notevole.
Visto che parlava di memoria, si evoca ogni tanto la possibilità che un giorno ci si possa connettere direttamente con database digitali online. Non ricordi il titolo di un film? Potrai cercare su Wikipedia senza nemmeno accendere il computer o usare lo smartphone.
Perché Wikipedia sarebbe dentro al cervello, certo. Potrebbe anche essere che questo un giorno si verifichi, per ora non siamo ancora a quel punto e il motivo è che non sappiamo quali reti cerebrali o corticali nutrire con dei dati che stanno su Wikipedia. Che cosa del cervello dovremmo interfacciare? Ad oggi non si sa. Senza contare che si tende a riflettere su un cervello già sviluppato, quello dell’adulto, ma il cervello di un bambino, così come quello di un adolescente, deve fare ancora molte esperienze prima di potersi costruire una mappa mentale che gli consenta di sapere che cosa cercare, come e dove effettuare quella ricerca, a quali fonti affidarsi. Altro problema etico che in parte già conosciamo, si pensi alla questione delle fake news. Il fatto è che non si può prescindere dall’esperienza.
Questo vale anche per le tecnologie digitali che già utilizziamo? Quanto è pericoloso lasciare che un bambino trascorra ore a giocare sul tablet?
In alcuni casi le esperienze virtuali possono essere ludiche in senso positivo, però non dovremmo mai dimenticarci che fino a una certa età il bambino crede a ciò che vede: vedendo una persona volare su uno schermo può pensare che si possa volare sul serio, e non è uno scherzo. Onestamente anche nei recenti fatti di cronaca nera vedo un po’ un salto di qualità.
A che cosa si riferisce?
Mi riferisco all’omicidio di Willy Monteiro: un ragazzo pensa di poter massacrare di pugni un altro ragazzo come nei videogiochi, dove se prendi a pugni qualcuno poi tanto quello si rialza. Si tratta, ovviamente, di una mia riflessione estemporanea provocata da una tragedia che ci ha colpiti tutti, ma insomma, abusare di videogiochi e simili può essere effettivamente rischioso in tal senso. Anche perché in più si crea uno stato di eccitazione nervosa dovuto alle immagini rapide, alla musica, alle emozioni suscitate con premi che vengono riconosciuti quando si agisce secondo gli schemi del videogioco stesso. E dato che le emozioni nella vita reale non vengono suscitate così rapidamente, il rischio è quello della dipendenza. Se posso osare un paragone, anche un bagno pornografico può rendere insoddisfacente quello reale, perché hai tutto subito e con tanto di dettagli e così via. Sintetizzando, la nostra realtà è alla portata dei nostri sensi e dei nostri tempi, per cui saltare o ridurre l’esperienza diretta è sempre pericoloso.
C’è chi ritiene che le tecnologie in sé siano neutrali e che tutto dipenda da come le se si usa. Ma seguendo la teoria di Marshall McLuhan secondo cui il medium è il messaggio, si può anche dire che nel momento stesso in cui le uso, le tecnologie hanno già modificato il mio modo di pensare e quindi di comunicare. Lei che ne pensa?
Neutrali in sé le tecnologie lo sono solo fino a un certo punto. Anche un martello è una tecnologia, ma a portata del nostro corpo e del nostro cervello, che non appena vede uno strumento lo classifica come strumento perché sa di poterlo manipolare. Le tecnologie digitali più recenti, invece, richiedono un salto cognitivo, ci introducono in un mondo virtuale con cui dobbiamo fare i conti. È essenziale esserne consapevoli.