Amanda Knox è stata scarcerata 14 anni fa, eppure si è sentita libera solo di rado. Avrebbe tutto il diritto di vivere la propria vita di giornalista, podcaster e mamma di due bambini che ha avuto dal marito Christopher Robinson. E invece Knox, che oggi ha 37 anni ed è stata incarcerata ingiustamente nel 2007 durante un semestre di studio all’estero a Perugia, condannata due volte e poi scagionata per l’omicidio di Meredith Kercher, potrebbe non liberarsi mai dalla gogna pubblica.
«Non so come evitare la sofferenza, trovare pace e cancellare il trauma», scrive in Free: My Search for Meaning, la sua nuova autobiografia lucida e straziante. «Non so come essere veramente libera. Ma so come provarci».
Questo tentativo assume molte forme in Free. Nel carcere di Capanne a Perugia, ricorda Knox nel libro, la libertà poteva significare una cosa semplice come un pasto condiviso con le compagne o correre lungo il perimetro del cortile. Dopo essere stata scagionata nel 2011, la libertà poteva somigliare alla tipica vita di una ventenne, con tanto di trasferimento a New York e relazioni sentimentali avventate. Più di recente, Knox ha trovato la libertà nella decisione di contattare Giuliano Mignini, il Pubblico Ministero del suo processo.
L’improbabile amicizia con Mignini è precisamente quel che le ha dato l’impulso per scrivere Free. «Uso la scrittura per elaborare pensieri, sentimenti, esperienze», mi racconta Knox. «Il libro è nato dopo essere stata in Italia per andare a trovare il PM del mio processo. Sono tornata sentendo che, per la prima volta, avevo fatto qualcosa per definire me stessa che non fosse solo una reazione a ciò che gli altri dicevano di me. Questa è una storia di auto-affermazione».
Incubo italiano
Le opinioni degli altri hanno tormentato Knox fin dall’inizio del suo calvario. Nell’autunno del 2007 la ragazza, allora ventenne, stava iniziando il suo semestre da studentessa straniera a Perugia, dove viveva con tre coinquilini, uno dei quali era Kercher, studentessa inglese proveniente dall’Università di Leeds. Quando la mattina del 2 novembre Knox è tornata a casa dopo aver trascorso la notte col suo nuovo ragazzo Raffaelle Sollecito, ha notato tracce di sangue nel bagno e la porta di Kercher chiusa a chiave. Ha chiamato immediatamente la polizia. Kercher, 21 anni, è stata trovata morta nella sua camera da letto con la gola tagliata e i chiari segni di una violenza sessuale.
Nei giorni seguenti, la polizia ha interrogato Sollecito e Knox. Lei parlava un italiano stentato e non aveva con sé né interprete, né un avvocato. È stata colpita sul viso dalla polizia, privata del sonno, le è stato impedito di parlare con la madre e, infine, le è stata estorta una confessione scritta. Pensando che tutto sarebbe finito se avesse firmato il documento, Knox ha involontariamente coinvolto Patrick Lumumba, proprietario di un bar dove lei lavorava part-time. Appena si è resa conto di ciò che aveva fatto, Knox ha ritrattato la confessione, ma era troppo tardi. Il 6 novembre 2007 la polizia ha arrestato Knox, Sollecito e Lumumba. Quest’ultimo è poi stato rilasciato, visto che i clienti del suo bar gli hanno fornito un alibi. Knox e Sollecito hanno invece affrontato il processo per omicidio.
Knox era convinta che la verità sarebbe venuta a galla e che le prove, che indicavano chiaramente la colpevolezza di Rudy Guede, un vicino di casa di Knox e Kercher, l’avrebbero scagionata. Ma l’accusa guidata da Mignini si è scagliata contro di lei con tutte le forze. Facendo leva su un vecchio soprannome di quando giocava a calcio, Foxy Knoxy, l’accusa ha costruito una narrazione sensazionalistica in cui Knox, Sollecito e Guede avrebbero architettato un gioco a sfondo sessuale fatto di violenza e droga, un gioco finito male con la morte di Kercher. Nella cattolicissima Italia, Knox è stata descritta dai media scandalistici come una depravata sessuale e una diabolica manipolatrice.
«Nulla di ciò che dicevo sembrava avere alcuna importanza», dice Knox a proposito del rapporto coi media che, anche nei più indulgenti Stati Uniti, erano scettici circa la sua innocenza. «Mi sembrava di non contare nulla. Il messaggio che passava era: tu devi restare in questa piccola scatola da demone del sesso che abbiamo costruito per te e qualsiasi cosa tu dica o faccia per smentirci la useremo contro di te o la cancelleremo».
Liberarsi di Foxy Knoxy
Dopo quattro anni di carcere, nell’ottobre 2011 il processo d’appello ha scagionato Knox e Sollecito dall’accusa di omicidio. I due sono stati rilasciati. Guede è stato invece condannato e da allora ha scontato 13 anni di una pena di 16. Knox ha avuto enormi difficoltà a riprendere la propria vita come l’aveva lasciata a Seattle. Ha in parte elaborato l’accaduto (nel 2013 ha pubblicato il suo primo libro di memorie, Waiting to Be Heard, che racconta il suo calvario), ma, come spiega in Free, aveva debiti pesantissimi per le spese legali sostenute, faticava a trovare un lavoro, a completare gli studi universitari e a uscire con qualcuno. Non importava se era stata assolta o aveva scritto un libro di successo. Il solo fatto di essere stata accusata «faceva del mio nome una specie di prigione».
Come se non bastasse, il nome di Knox continuava a rispuntare nelle cronache. Anche dopo l’assoluzione del 2011 per l’omicidio di Kercher, nel marzo 2013 la Corte di Cassazione italiana ha annullato l’assoluzione di Knox e Sollecito e stabilito che il processo era da rifare; il 30 gennaio del 2014 Knox e Sollecito sono stati nuovamente giudicati colpevoli.
Alla fine, nel marzo 2015, la Corte di Cassazione ha annullato entrambe le condanne con sentenza definitiva. Eppure Knox non è riuscita a scrollarsi del tutto di dosso l’immagine di «femmina diabolica», come l’ha definita un avvocato, né le implicazioni pratiche di una fedina penale sporca. Knox è stata scagionata dall’omicidio di Kercher, ma un tribunale italiano l’ha nuovamente condannata per calunnia, nel giugno 2024, una sentenza contro cui Knox ha fatto ricorso e che la Corte di Cassazione ha confermato nel gennaio 2025.
«Le difficoltà pratiche legate al fatto di essere stata accusata mi inseguono ovunque vada. Devo dimostrare di essermi riabilitata anche se non ho commesso quel crimine, devo subire controlli sui precedenti penali da parte dell’FBI, devo lasciare le impronte digitali, devo chiedere lettere di raccomandazione», dice Knox. «Questa cosa è entrata nella coscienza collettiva. Sono stata accusata pubblicamente, la mia reputazione è stata stravolta nel modo più negativo possibile a livello internazionale. Non c’è modo di fingere che tutto questo non faccia parte della mia vita».
Nel frattempo un documentario di Netflix del 2016 ha ritratto la personalità di Knox (e quindi la sua innocenza) come aperta all’interpretazione, con cartelloni promozionali in cui alcune foto di lei sono accompagnate dalle parole “mostro” e “vittima”. Due interviste molto importanti con Diane Sawyer della ABC e Chris Cuomo della CNN non sono andate per il verso giusto, coi conduttori che hanno posto domande che hanno alimentato i dubbi del pubblico circa l’innocenza di Knox, che critica l’insistenza su un personaggio, una proiezione, una fantasia e mai una persona in carne e ossa.
«Ho dovuto lottare per essere trattata come una persona e non come un prodotto», dice. «Foxy Knoxy non era una persona. Era un’idea di persona che alla gente piaceva perché era fonte di una soddisfazione morbosa. Ed era anche stuzzicante a livello sessuale».
Un nuovo capitolo
Knox ha cominciato a battersi per le persone accusate e condannate ingiustamente. Da quando è uscita di prigione, si è dedicata alla missione di fare pressione per una riforma della giustizia penale. Oltre a raccontare storie di crescita personale e di resilienza nel podcast Labyrinths, che conduce col marito, fa parte del comitato consultivo del Frederick Douglass Project for Justice e del consiglio di amministrazione dell’Innocence Center.
«Buona parte del mio lavoro di sensibilizzazione ha a che fare col tentativo di rendere più trasparente la giustizia penale e il lavoro della polizia, in modo da poter fare scelte migliori che portino a risultati più giusti», dice Knox. «Questo include il divieto, per la polizia, di usare l’inganno durante gli interrogatori e l’obbligo di registrare tutte le interazioni con gli agenti, in modo che le persone capiscano cosa accade, a livello psicologico, tra i cittadini e le autorità che hanno il diritto di toglierti la libertà. Sono cose che non comprendiamo ancora appieno».
Oltre a raccontare il suo percorso di reinserimento nella società dopo la scarcerazione, Free contiene riflessioni complesse su come il pubblico elabora le storie di traumi e torti subiti. Per esempio, Knox parla di «fallacia della vittima unica». E la spiega così: «Quando avviene un crimine può esserci una sola vera vittima. Chiunque altro si dichiari tale sta, in qualche modo, sottraendo a un’altra persona il diritto di essere vittima». Nello specifico, l’opinione pubblica vede Kercher come «vittima unica», quindi Knox non dovrebbe rivendicare per sé il ruolo di vittima del sistema giudiziario.
Knox deve convivere con queste convinzioni. «Capisco che ci sia un po’ di confusione a proposito di dove comincio io e dove finisce Meredith, per come si è svolta questa storia. Ma sono pur sempre una persona e la mia esperienza è importante. Per questo ho scelto di condividerla, e non a danno di Meredith».
Uno dei passaggi salienti di Free è quando Knox racconta di aver trovato un’amica e un’alleata in Monica Lewinsky, che sa cosa significhi essere messa alla gogna dall’opinione pubblica. «Monica non è solo un’amica che ti offre una tazza di tè e con cui puoi parlare quando sei in difficoltà». Sono entrambe co-produttrici esecutive di una serie in arrivo su Hulu incentrata sul calvario di Knox, con Grace Van Patten e Sharon Horgan nei panni di Amanda e di sua madre Edda Mellas.
«Monica ha aperto un dialogo tra chi è stato ostracizzato e criticato e il resto del mondo. Si è messa in gioco per far capire ad altri quel che abbiamo vissuto, in modo che io e le persone come me non ci sentiamo costrette a dare spiegazioni per avere l’opportunità di essere accettate».

Amanda Knox abbraccia Peter Pringle, l’ultimo uomo ad essere stato condannato all’impiccagione in Irlanda. Al loro fianco,, il marito e la madre di lei, Christopher Robinson e Edda Mellas. Foto: Vincenzo Pinto/AFP/Getty Images
L’amicizia più sorprendente di cui si legge in Free è però quella con Mignini. All’inizio il PM non aveva intenzione di dare seguito al tentativo di contattarlo fatto da Knox, ma ha cambiato idea dopo averla sentita parlare all’Italy Innocence Project nel 2019. Lei non aveva deciso di scrivere a Mignini spinta dalla rabbia o dall’orgoglio: semplicemente non voleva credere alla caratterizzazione bidimensionale del suo accusatore, che è esattamente quel che aveva subito lei. «Se avessi scritto che il dottor Giuliano Mignini era un uomo malvagio e corrotto, come avevano fatto la maggior parte dei miei famigliari, amici e sostenitori, non avrei imparato nulla», scrive Knox in Free. «Sì, ha incriminato le persone sbagliate, trasformandomi in una villain da cartone animato di fronte a mezzo mondo. Ma sapevo che la gente sbagliava nel giudicarmi e io non volevo commettere lo stesso errore nei confronti di qualcun altro».
Anche se Mignini aveva alimentato la tesi secondo cui lei era un’assassina dedita a droga e che si faceva sul motivo della sua incarcerazione. «Non sono entrata in contatto con Giuliano con lo scopo di diventare sua amica o addirittura di perdonarlo», dice Knox. «Il mio obiettivo era trovare qualche risposta alla domanda difficilissima e dolorosa che mi portavo dentro: perché? Ero perseguitata da questo interrogativo… non ero disposta a credere che Mignini fosse uno psicopatico o un mostro, perché è proprio così che la gente chiamava me».
Negli anni successivi, Knox e Mignini si sono scritti periodicamente. Negli scambi più leggeri hanno legato grazie alla loro passione comune per Il Signore degli Anelli. Altre volte Knox si è appellata al raziocinio di lui nella speranza che, finalmente, ammettesse di essersi sbagliato (il massimo che è riuscito a fare è stato ammettere che esisteva la possibilità di aver commesso un errore). Alla fine fra loro è nato un legame affettuoso, con Knox che in Free arriva a descrivere Mignini come «una specie di zio gentile e distante».
Nell’estate del 2022, Knox ha voluto tornare a Perugia per incontrare di persona Mignini. Era con la madre, il marito e la figlia Eureka. Si è rivista anche con Sollecito, che nel frattempo si è trasferito a Milano. Tutte queste scelte (tornare in Italia, costruire un rapporto col suo accusatore, continuare a parlare anche quando il mondo le diceva di sparire) sono il modo in cui Knox rivendica la propria libertà. E questa libertà, come scrive nel libro, la si può trovare in parte attraverso la conoscenza, la comprensione e una mente sempre aperta.
«Tanta gente si relaziona col mondo come se fosse un grande magazzino», dice Knox. «Hanno un’idea di ciò che vogliono e sanno esattamente dove trovarlo. E invece il mondo somiglia di più a un negozio dell’usato: non ci troverai il vestitino nero che ti calza a pennello che stai cercando, ma una lampada a forma di fungo che starà benissimo in salotto e di cui non sapevi di avere bisogno».