Claudia Durastanti è come i suoi romanzi: sembra innocua, ma tanto innocua non è. Mentre la ascolti, così come quando la leggi, tutto ciò che esprime è talmente ben costruito, oltre che ideato in modo intelligente, che è in grado di insinuarsi fra le pieghe del pensiero altrui in modo naturale. Se però ti soffermi a riflettere a quello che ha detto (o scritto), ti accorgi che ha appena messo in discussione molte delle certezze che avevi prima di incontrarla. Dopo La straniera, finalista al Premio Strega e tradotto in più di 25 Paesi, forse il suo nuovo romanzo Missitalia (La nave di Teseo) non avrà un impatto mediatico come il precedente, ma solo perché sembra essersi divertita a nascondere alcune critiche sociali in un’opera complessa e coraggiosa nella quale, inaspettatamente, spuntano delle “mine” che alla minima pressione esplodono mandando in frantumi convinzioni che sembravano incrollabili. Così, armati di pazienza e con le dovute cautele, abbiamo provato in questa intervista a farle brillare visto che, rispetto agli ordigni militari, stavolta si tratta di ragionamenti capaci di proiettarci oltre a tante ipocrisie, verità di comodo o falsi miti che resistono anche in ambito culturale.
Le tre donne protagoniste di Missitalia? «Più violente, cattive e potenti, non sopportavo di raccontarle ancora in posizione inerme». Perché «a volte c’è un godimento nella rappresentazione della donna in quanto sempre e solo vittima». Il femminismo attuale? «Più legato a una sensazione di protagonismo» che «se occupa spazi distorti, problematici, inquinati, perpetua le stesse storture». E si è chiesta: «Come si guadagna centralità senza adottare logiche di potere?». Persino sulla famiglia queer, su cui la collega Michela Murgia aveva condotto incendiarie battaglie, ha avanzato dei dubbi: «Mi sembra un modo di raccontare una bellissima sottomissione che fuoriesce da una dimensione tradizionale, ma che rischia di replicarla». Inoltre, ci ha spiegato l’importanza «del lasciare andare», da Alessandro Baricco a Nick Cave. Ancora il problema della serialità, tra musica ed editoria, perché «manca la responsabilità nel sostenere la variazione». Infatti, ammette, da esordiente non avrebbe potuto scrivere un libro del genere: «Oggi il romanzo te lo devi conquistare». Non è poi mancato uno sguardo a Sud dove, come Brunori Sas, vede una «idea di modernità parallela» con le fabbriche che «non sono solo aggregatori di ingiustizie, ma anche di ispirazioni». E un occhio a livello internazionale: da Jorit e la foto con Putin, perché «legato a un’idea di disobbedienza che perde di vista la proporzione», a Trump «personaggio da WrestleMania» che paradossalmente potrebbe «non sostenere il genocidio che Israele porta avanti a Gaza». Per fortuna che, ha sottolineato, «tendo a non utilizzare espressioni roboanti».
Nel romanzo Missitalia affronti tre storie di donne, ambientate in tre epoche diverse e che racconti con tre stili di scrittura differenti. È stato un modo per metterti alla prova?
Sicuramente, avevo voglia di imparare a fare anche cose che ho sempre temuto di non saper fare. Il mio ingresso nel mondo della letteratura è stato accompagnato da romanzi, benché non esplicitamente, autobiografici. Adesso sentivo di voler compiere un viaggio e che fosse un modo per mostrare sulla pagina un processo di apprendimento. Così ho provato a confrontarmi con generi a bassa intensità, scalando le marce del romanzo storico, del noir d’atmosfera, del romanzo di costume o della fantascienza sentimentale. Un tentativo per verificare cosa sarebbe rimasto di quei generi se esposti a questo trattamento.
E cosa ne è rimasto?
Il rapporto tra Storia e presente. L’idea comune è che si scrivano storie ambientate nel passato per parlare del presente, ma è anche vero il contrario. Cioè si può usare il presente per dimostrare che nel passato c’erano già tensioni che sarebbero esplose nel contemporaneo.
Amalia Spada, Ada e A sono tre donne che reagiscono di fronte alla Storia in maniera inaspettata e ci restituiscono una sorta di evoluzione di come la donna potrebbe essere, al di là di come viene dipinta nell’immaginario mainstream. Ma cosa pensi che le donne possano mantenere e cosa invece perdere nel percorso di emancipazione?
In base a determinate dinamiche storiche, si presuppone che certe categorie ai margini reagiscano non tanto con un istinto di autodifesa, quanto invece con una voglia di apertura, di rottura, di interesse verso quello che c’è fuori. Per garantire la tua esistenza in quanto donna devi imparare a gestire le risorse, visto che vieni costantemente interrogata. Infatti queste donne diventano autocoscienti, autoriflessive, quasi antropologhe di loro stesse, e molto presto. Penso al confronto con i personaggi maschili, dove dimostrano una consapevolezza di sé radicale. È una costante in queste tre donne, anche nelle loro differenze nel rapporto verso la sottomissione, la libertà, l’accettazione, il rifiuto e il dissenso. Volevo rappresentare un panorama più variegato rispetto a come viene descritta la donna. E loro hanno una forte capacità di indagare loro stesse, questa è la costante. Un ascolto e una visione amplificati.
E cosa pensi che perdano, come tutti, in questo viaggio nel tempo?
Nel momento in cui guadagni una sorta di centralità nel discorso pubblico, in ambito lavorativo e di rapporti, è qualcosa che va gestito. Come si fa a guadagnare centralità senza adottare forme a tua volta oppressive e soverchianti? Come si riesce ad arrivare a uno stato di emancipazione, di sviluppo, di crescita e piena conquista dei tuoi desideri e della tua esistenza senza, in qualche modo, adottare le stesse logiche di potere? Il rischio è di perdere il ricordo di come si è arrivate a quel punto. Ed è perfettamente ammissibile. Non c’è nessun dovere nei confronti della propria storia e del proprio passato. Ma a volte, quando si fa questo scarto in maniera troppo veloce o brutale, penso che si perdano queste domande.
Fra le pieghe del romanzo, e ancor più chiaramente in quello che mi stai raccontando, sembra esserci una forte critica a determinate forme di femminismo. O sbaglio?
Ti rispondo partendo da quando avevo già iniziato a lavorare a Missitalia e si è sovrapposto il lavoro di curatrice alla casa editrice La Tartaruga con la lettura dell’opera di Carla Lonzi (teorica dell’autocoscienza e del femminismo radicale, nda). È stata una turbolenza, perché avevo già immaginato di costruire i personaggi in quel modo, ma quando leggi il discorso di una femminista che parla di stare su un altro piano, che critica il femminismo della presenza, allora acquisisci delle conferme a quello che stavi scrivendo. E cioè che se si conquista una centralità, come avviene oggi, a volte ho l’impressione che alcune tendenze del femminismo contemporaneo siano più legate a una sensazione di protagonismo, di presenza, di ipervisibilità, e le questioni della dignità o della giustizia vengano misurate solo su quanto più occupi degli spazi. Invece credo sia necessario chiedersi sempre quali spazi stai occupando.
Con questo ragionamento le “quote rosa” sembrano uno strumento superfluo.
Perché se a loro volta le donne occupano spazi distorti, problematici, inquinati, femministi solo in superficie, in qualche modo ineguali dal punto di vista delle classi sociali, si perpetuano le stesse storture. E quindi c’è un accontentarsi o un illudersi che conti soltanto la presenza. C’è poi un’altra tendenza che discuto nel libro, anche facendo delle forzature e creando un falso antropologico, con donne lucane più violente, cattive e potenti, perché non sopportavo di vederle raccontate ancora in posizione inerme. La rappresentazione della vittima è importante, ma quando diventa l’unica forma per raccontare come si vivono i rapporti si rischia di perdere altre componenti. Penso ad Amore e violenza di Lea Melandri.
Per esempio, nel concreto?
Come le esperienze nei centri antiviolenza, che spesso rischiano di essere un po’ parziali o limitate perché c’è una difficoltà umana a raccogliere queste storie, sembra quasi di colpevolizzare una donna se racconta il perché resta in alcune situazioni che la fanno soffrire. E poi credo che ci sia anche una componente, più o meno inconscia, di godimento nella rappresentazione della donna in quanto sempre e solo vittima e bisogna stare molto attente, secondo me, a non prestare il fianco esclusivamente a questo tipo di schema.
C’è un altro aspetto, in Missitalia ma che hai ribadito anche in un’intervista sul Corriere con Teresa Ciabatti: “La retorica che i rapporti elettivi siano più liberi di quelli di sangue: falso. Nei rapporti scelti si ripropongono le stesse forme coercitive e di potere. A volte più pervasive”. È una critica alla famiglia queer sostenuta da Michela Murgia?
Quando l’ho riletta mi sono resa conto che sarebbe potuto sembrare un attacco frontale. Ma riparto dalla pandemia, il periodo in cui ho scritto questo libro, che è stato probabilmente il momento in cui io stessa ho avvertito la bellezza e il valore delle reti costruite come forma di sussistenza. Quando collassa la famiglia, le strutture sanitarie sono in difficoltà, la politica è allo sbando, ti affidi alle reti amicali. Non a caso, quello è stato il momento più alto delle comunità. Ecco, della famiglia queer l’elemento che più mi fa pensare è il termine “famiglia”. Michela Murgia ragionava molto sulla tradizione e sugli elementi matriarcali e vi inseriva la definizione “famiglia”. Ma ne abbiamo bisogno? Perché famiglia e non comunità?
Perché, secondo te?
Comprendo che della famiglia si voglia richiamare quella potenza, quell’ancestralità, quel senso di necessità, quei rapporti viscerali e di sangue. Rischiamo però di creare non delle fotocopie, ma di costruire un’alternativa che rischia di assomigliare a qualcosa che è estremamente forte, ma che ci ti tiene anche molto prigionieri. Mi sembra un modo di raccontare una sorta di bellissima sottomissione che fuoriesce da una dimensione tradizionale ma rischia di replicarla. La filosofa Donna Haraway parla di “legami imprevisti” rispetto ai “legami di parentela”. Ma rimane comunque il “legame” e forse non riusciamo a uscirne…
È solo una questione di definizioni?
Il nostro linguaggio probabilmente è ancora insufficiente a “slegarci”, però ho trovato, per esperienza, che i legami formativi che ho sviluppato fuori dalla famiglia, che possono essere dalla “falsa madre” al “falso padre”, hanno creato un senso di necessità di risposta alle loro aspettative e un senso di confronto che mi ha bloccata molto nella vita. Forse, per paradosso, riescono a essere più belli, viscerali, forti, ma nello stesso tempo più violenti. A un certo punto tutti facciamo a meno di mamma e papà e la questione primaria è l’amica, l’amico o il compagno che ti sei scelto. Insomma, non farei un salto così innocente da una parte all’altra.
A un certo punto, nella prima parte del romanzo, c’è la scena dove Amalia si oppone a continuare a curare la cavalla ferita, mentre Rosa la vuole salvare. La conseguenza è che la cavalla si riprende, ma poi muore. E l’hai spiegata come “l’importanza del lasciare andare”. Anche Baricco ha detto di averlo imparato dopo la malattia.
Per me ha sempre coinciso, ammesso che avvenga questo passaggio alla vita adulta che può durare un tempo molto lungo, con l’imparare a lasciare andare. Amalia, pur non essendo biologicamente madre, si assume la funzione di maternità e di insegnare e trasmettere che non tutto si può salvare o recuperare. È forse anche la resistenza più forte che noi come individui e collettività applichiamo rispetto alla memoria. Ci sono poi implicazioni politiche fortissime in questa incapacità di lasciare andare sul piano della memoria. Ricordo, rispetto a un momento esistenziale estremamente personale come il lasciare andare un lutto e non viverlo all’infinito, quanto sono rimasta sconvolta intervistando Nick Cave.
Un’intervista che avevi realizzato proprio per Rolling Stone.
Esatto, quando perse il primo figlio. Era un’intervista complicata, la prima dopo quell’evento luttuoso, e mi disse una frase che ribaltò tutto quello che pensavo sul percepirci come la parte che perde in quelle circostanze: “È qualcosa che, innanzitutto, è successo a lui”. Era in grado di emanciparsi dal ruolo di padre, dalla sua sofferenza, per dire “è mio figlio che ha perso qualcosa”. C’è la mancanza della sua vita e come sarebbe potuta procedere. Lì ho sentito una grandissima commozione, mi sono fermata a pensare se fosse un grado di amore al quale uno vuole arrivare, cioè di riconoscere l’autonomia dell’altro rispetto a sé.
Facendo un passo indietro, hai ricordato come, dopo La straniera, “l’editor americana mi ha detto: ‘Ora scriverai un romanzo storico femminista con coscienza ecologica’”. E tu hai disatteso le sue aspettative. Mi collego a un altro scrittore come Jonathan Bazzi, che ha raccontato sui social la difficoltà dopo il primo fortunato romanzo, Febbre, di tenere fede alle richieste di tornare su quel “personal branding” autobiografico. Anche nell’editoria, come nella musica, c’è questa pressione a proseguire sulle hit?
C’è eccome! È il formato della serializzazione, che è stato onnipresente nella cultura televisiva. E intanto abbiamo perso l’idea del libro come episodio all’interno di un racconto più lungo, come i dischi. Non credo sia un dovere cambiare sempre, però credo che sia un profondo rischio replicare la formula già riuscita, che è una aspettativa di mercato, perché raramente funziona. A meno che non sia sostenuta da un progetto poetico. Invece spesso si arriva a un esaurimento da cui né tu né la comunità che ti sta attorno sanno indirizzarti e proteggerti. Nella produzione artistica oggi manca questa responsabilità nel sostenere la variazione. Io pubblico con il mio editore, Elisabetta Sgarbi, proprio perché c’è stato un patto. Dovrebbe essere scontato, invece ti ritrovi a ringraziare per questa libertà compositiva.
E come nella musica, almeno finora, sembra quasi scomparsa la scena “indie”.
Nella musica è più frequente che qualcuno rompa i legami e si auto-produca. Nel libro invece viene considerato qualcosa di deteriore. Ma se effettivamente da scrittore sei arrivato a un punto dove non dovresti neanche più difendere le tue scelte, cosa succede se non trovi più un contesto in cui farlo? È abbastanza allarmante. Io sono estremamente grata a quell’editor, perché mi ha ispirato un desiderio di ribellione e allo stesso tempo mi ha fatto riflettere che non scriviamo in un vuoto. Si scrive non dico in base a delle tendenze, ma di una febbre leggera che contagia un po’ tutti. Così escono numerose varianti dell’autofiction o delle distopie e non sono sempre scelte a tavolino, c’è qualcosa di spirituale che circola nell’aria.
Ma un’esordiente Claudia Durastanti avrebbe avuto difficoltà a pubblicare Missitalia?
Certamente. Quando ho esordito io non avrei potuto farlo con questo libro. Ma se avessi esordito adesso, avrei dovuto farlo con La straniera. C’è tutta una parte del sistema culturale che patisce molto le minoranze che si auto-rappresentano. E quindi che i queer scrivano sull’essere queer, gli afrodiscendenti sull’essere afrodiscendenti, i working class sull’essere working class, come se non ci fosse, congenitamente, nessuna aspirazione a scrivere storie che non parlano di sé. Non è così. Tutto questo è anche un riflesso di una scelta di mercato e dalla quale vieni cooptato. Sai qual è la verità? Che oggi il romanzo te lo devi conquistare.
Diventa una sorta di premio dopo aver restituito al mercato la sua parte?
Sì, ed è un peccato che si parli sempre del diritto di essere visto e non si parli mai del diritto di essere invisibile. Nel romanzo devi inventare e trasfigurare, quindi è diventata una libertà che corrisponde a una sorta di premio finale. Come in un videogame. Per questo motivo non si può imputare solo al desiderio di autorappresentazione di una generazione di scrittori.
Nel romanzo non manca la tua Basilicata “del sortilegio e del petrolio”. Il cantautore Brunori Sas, poco tempo fa, ha spiegato perché non si è mai trasferito dalla Calabria con queste parole: “Penso sia il futuro e mi sono tenuto un posto in prima fila in quello che verrà, perché resiste al capitalismo di cui vedo la saturazione”.
Ci sono aree della Basilicata che anticipano il futuro, l’ho sentito fin dall’adolescenza. Se ti ritrovi in un sistema dove il modello di città diventa discutibile, impraticabile, infrequentabile, insostenibile, accade come una sorta di “flashforward” sul fatto che ci troveremo costretti a uscire dalle città. La pandemia ha accelerato questa sensazione. Ma lavorare al Sud ha portato anche delle criticità, perché comunque sono sbarcati una serie di redditi non compatibili con quei territori e, quindi, alla lunga si rischia di avere due Sud. Un po’ come gli expat che ritornano a Milano e vivono con altri redditi, affitti e frequentazioni. Si ritorna al Grand Tour. Però è interessante indagare la dimensione dell’intimità.
I soldi sono importanti, ma non sono tutto?
Come insisto anche in Missitalia, la seconda volta che vedi una cosa è più importante della prima. In questa seconda visione il Sud rappresenta una forza, non solo come immaginario, ma come ipotesi di esistenza perché offre un’idea di modernità parallela. Cerco però di stare attenta con questi discorsi, visto che si rischia sempre di sorvolare sull’assenza di strutture sanitarie, sulla disoccupazione, sui rapporti clientelari e non bisogna far finta che non esistano. Ma se viviamo in una società in cui il lavoro o si indebolisce o sparisce, e questo ci impone di pensare a un reddito universale, è chiaro che in molti territori del Sud dove l’occupazione proprio non c’è si verifica un’anticipazione di una questione che, prima o poi, riguarderà anche persone che non immaginavano di confrontarsi con questo problema.
Quindi non arrivi ancora a dire, come Brunori, che “se c’è una Seattle in Italia non può che essere in provincia di Cosenza”.
Per ora al Sud vedo piccoli laboratori per ripensare alle questioni che riguardano la sostenibilità, la dignità, il rapporto con il lavoro, ma non mi spingo a citare la “felicità” altrimenti sembra che stia spacciando un Meridione che somiglia al paradiso. Sento, però, che lì ci sono dei punti di tensione che anticipano quelli che riguarderanno anche persone distanti dal meridione stesso. Su Cosenza come la Seattle italiana, mi preoccupano certi processi quando sono totalmente esogeni e rischiano di alterare degli equilibri.
Tu che conosci bene l’America essendo nata a Bensonhurst, un quartiere di New York della parte Sud-occidentale di Brooklyn, temi che il capitalismo possa contaminare territori finora incontaminati?
Userò una parola rischiosa come “meraviglia”, prendendo spunto dalla partecipazione al Festival di letteratura working class di Campi Bisenzio, forse l’esperienza più forte che mi è capitato di fare in Italia, dove per la prima volta, effettivamente, entravo in una fabbrica. Gli organizzatori non erano lì per intrattenerci, non si è trattato di turismo della fabbrica. Anzi, mi sono ritrovata a contatto con una comunità di donne e uomini per i quali il rapporto con il lavoro non era soltanto di subordinazione, sconfitta o ingiustizia, ma anche affettivo, immaginifico, e su come ripensare alla conversione o come renderla sostenibile.
Come le donne del tuo romanzo, ci sono narrazioni alternative che mancano nel dibattito pubblico?
Ignorare queste componenti di affettività e meraviglia è rischioso. La fabbrica potenzialmente è un aggregatore di ispirazioni. Credo sia necessario provare a creare qualcosa di diverso, costruire un senso di importanza in rapporto al progresso. Quando scrivo “più cibo, più vestiti, più letti, più amanti”, più tutto insomma, è una visione famelica che è l’opposto del minimalismo pauperista della decrescita felice. E poi questa decrescita, alla fine, chi la paga?
Spesso chi è più debole, o no?
Proprio così, e trovo profondamente violento dire a persone già decresciute che devono ancora decrescere e accollarsi questo bisogno di sanificazione rispetto all’eccesso del consumo. Se posso aggiungere, direi che ho tentato di scrivere un libro non evangelista.
Contro “l’idea romantica del tempo migliore” hai detto che “esiste sempre una rappresentazione”. Ma anche verso un “luogo migliore” o una “forma di governo migliore”? Te lo chiedo rispetto a Jorit, lo street artist che ha fatto una foto con Putin “per mostrare che lei è umano come tutti”. È sempre nella rappresentazione?
Credo ci sia molta consapevolezza di come si produce quell’immagine e a volte, non voglio arrivare a dire naïf, però ci si affeziona talmente tanto a un’idea di disobbedienza e contrarietà che poi si perde di vista un senso della proporzione. Mi vergogno quasi a parlare di “proporzione”, perché sembra un valore legato al buongusto o all’opportunità. Ma in questo momento storico mi sembra chiaro sia necessario scegliersi una parte e, in questa scelta, ammetto che ci sono persone che hanno scelto una parte problematica e a me opposta. Però penso anche che farei un torto all’altra parte nel dire che è stato un fraintendimento, infatti voglio riconoscergli una estrema consapevolezza nel tipo di rappresentazione.
Per cui, in qualche modo, è una scelta legittima quella di Jorit?
È giusta perché ci permette di stabilire criteri di distanza. Non mi interessa in nessun modo la gogna mediatica, basta arrivare a un momento di riconoscimento. Ma se ti assumi quel tipo di rischio devi farlo aperto a un discorso di critica. Se invece lo fai convinto che poi il conflitto e la dialettica spariscano per autorità acquisita, in base a un proprio merito artistico, allora credo possa causare grandi fragilità nelle persone che vivono queste esperienze.
Di contro, non posso non chiederti come vivi la tua America che si appresta alle elezioni con un candidato come Trump che arriva a dire “Hitler ha fatto anche cose buone”.
Io tendo a non utilizzare espressioni roboanti, però è vero che queste elezioni sono la dichiarazione palese di un Paese che sta vivendo una guerra civile a bassa intensità. Per me l’aspetto più sconcertante, ma che potrebbe avere persino meriti positivi sul piano internazionale, è questa idea di iper centralità nel proprio ranch, questo spirito texano di protezione verso la tua famiglia e il tuo territorio e perennemente armati. E tutto questo trova risposta in Donald Trump, che è un personaggio da WrestleMania, una sorta di villain che permette a tanti elettori di poter scaricare su di lui tutte le loro pulsioni più oscure.
Pulsioni che, comunque, esistono e vogliono emergere.
Intanto Trump mi sembra uno stand-up comedian in pensione, con tutta una sua retorica da showman. Un tragico che degenera in farsa. Ecco, questa farsa permette che tante persone lo votino in maniera più innocente. Al di là degli “squadroni della morte” esistono fasce ampissime di popolazione che lo votano in una prospettiva buffonesca e innocente ma che, comunque, gli appare in grado di tutelare certi interessi. Noi in Italia conosciamo bene questo atteggiamento dopo un ventennio berlusconiano. Anche Berlusconi sosteneva l’indicibile, ma la dignità e l’eleganza hanno poco a che fare con le scelte politiche che le persone compiono.
Prima hai detto che l’elezione di Trump “potrebbe avere persino meriti positivi sul piano internazionale”. Ti riferivi ai conflitti, come in Ucraina o nella striscia di Gaza?
Esattamente, perché questa iper centralità, per paradosso, coincide con il non immischiarsi più con l’esterno. E ha come conseguenza il non sostenere il genocidio che Israele sta portando avanti a Gaza. Quindi ci sono persone che spostano il proprio voto a Trump e non perché sono abbacinate dalla follia, ma perché convinte che il governo di Joe Biden abbia avuto una complicità con ciò che sta accadendo ai palestinesi. È una carta che non ci aspettavamo in queste elezioni e sta avendo la sua importanza, addirittura su persone che si ritengono solitamente progressiste e democratiche e che vivono un dissidio morale.
Nell’ultimo capitolo del tuo romanzo ci porti nel 2051 dove la “fine” è bandita. Così, per non concludere l’intervista, che musica ci consigli che ci accompagni oltre Missitalia?
Un disco che ha fatto compagnia a me nell’anno di editing del romanzo, quando tiravo le fila e accordavo le varie parti. Si tratta di Spira di Daniela Pes. È molto interessante quel tipo di produzione, che tiene insieme un elemento ancestrale e un elemento sonoro decisamente contemporaneo e destrutturato. È un po’ come se avesse voluto futurizzare la magia, che era un intento anche in me molto presente e per questo ho amato tantissimo quell’album.