Il decreto legge esordio del governo Meloni è ancora l’argomento polarizzante del momento, soprattutto per quanto riguarda il tema rave: se ne dibatte da giorni, sollevando dubbi sulla legittimità costituzionale della norma o plaudendo alla volontà repressiva insita nel provvedimento del ministro Piantedosi, in un discorso pubblico che dà spazio a giuristi, politici, opinionisti dell’ultima ora. Il paradosso è che ne parlano tutti, tranne chi questi eventi li respira e li organizza: qui a Rolling Stone vogliamo percorrere una strada differente, dando il giusto spazio di opinione a chi ne è privo e cogliendo l’occasione per porre in risalto l’aspetto artistico, culturale e aggregativo proprio di questa tipologia di eventi. La scorsa settimana, ad esempio, abbiamo intervistato una crew italiana specializzata in Free Party per parlare delle implicazioni del decreto Piantedosi e sfatare alcuni falsi miti. Oggi, invece, abbiamo il piacere di fare una chiacchierata con Chiara Fossati, fotografa, attivista, parte del collettivo Cesura e, soprattutto, autrice di Whatever, progetto fotografico che raccoglie sette anni di scatti realizzati dai Free Party più ganzi e partecipati d’Europa. «Questa è la storia della mia famiglia adottiva e del sogno comune a migliaia di ragazzi di vivere in un mondo senza regole né costrizioni», ci spiega Fossati: proviamo a ripercorrerla in sua compagnia.
Partiamo dalla classica domanda for dummies: come hai conosciuto il mondo dei rave?
Per pura casualità: sono cresciuta in una piccola città dove, come puoi intuire, venivo guardata con un certo sospetto a causa della mia immagine: piercing, tatuaggi e dreadlocks non andavano molto d’accordo con il benpensaggio e la ristrettezza mentale tipici della provincia. Scoprire quel mondo è stato uno shock nel senso più positivo del termine, una sorta di epifania: quando ho partecipato per la prima volta a un Free Party mi sono sentita a casa; nessuno sguardo giudicante, disponibilità al dialogo, inclusione: cose a cui non ero assolutamente abituata.
Di che evento si trattava?
La primissima festa era di sicuro in Lombardia, ma non ricordo precisamente la località. Ho delle istantanee sparse: ricordo che c’erano quattro muri di casse e che la musica mi attraversava completamente. Soprattutto, in quell’occasione conobbi per la prima volta i Mutoid Waste Company, un collettivo nato parallelamente al mondo dei rave famoso per la capacità di dare vita a sculture gigantesche, anche semoventi, dette per l’appunto mutoidi, saldate utilizzando esclusivamente materiale di recupero. Ah, già: c’erano anche dei ragazzi che pilotavano dei mostri meccanici che sputavano fuoco.
Cosa vuol dire aver fatto parte di questa cultura negli anni dell’adolescenza?
Cambia tutto: contrariamente a quanto si potrebbe pensare, avere la fortuna di far parte di questa famiglia comporta tantissimi vantaggi. Ad esempio, si viaggia tanto, ci si interfaccia con culture e lingue diversissime tra loro e si è costretti, giocoforza, ad abbandonare ogni tipo di pregiudizio. Passavo interi weekend fotografando eventi organizzati in fabbriche abbandonate e località semi sconosciute in tutta Europa, organizzando inconsapevolmente il materiale che, anni dopo, sarebbe andato a comporre Whatever, il libro fotografico dedicato alla rave culture di fine anni Novanta/inizio anni Duemila pubblicato dal collettivo Cesura. Ovviamente, ogni spostamento veniva minuziosamente nascosto a mia madre: ho dovuto mentirle spudoratamente, e col senno di poi un po’ mi dispiace. Del resto, non potevo fare altrimenti: pensava che andassi a passare il fine settimana da qualche compagna di classe, non di certo in un capannone abbandonato nei pressi di Torino. Quando, anni dopo, ha scoperto il misfatto, be’, non l’ha presa benissimo.
Qual è l’evento più assurdo a cui hai partecipato?
Il Teknival che facevano ogni anno in Repubblica Ceca: creavano una vera e propria cittadina composta da muri di casse e furgoncini, con tanto di percorsi a tema. Pazzesco.
Qual è il significato politico di queste modalità d’aggregazione?
Ogni evento rappresenta per così dire, il “foro d’uscita” di un processo che è avvenuto al di sotto della superficie della società attraverso progressive accumulazioni e, come quei fenomeni tettonici di crisi, come i grandi terremoti, a un certo punto emerge alla superficie in forma di evento, di microcosmo abitato da persone che non avevano modo di esprimersi al di fuori delle barriere culturali imposte dalla società. Anche Whatever vuole propagare questo tipo di messaggio: è la storia della mia famiglia adottiva e del sogno comune a migliaia di ragazzi di vivere in un mondo senza regole né costrizioni.
Com’è nata l’idea di recuperare questo materiale e attualizzarlo?
L’intuizione è arrivata su iniziativa del collettivo Cesura: conoscevano il mio passato da raver, quindi non ho dovuto fare altro che aprire un baule delle meraviglie pieno zeppo di negativi.
Come mai la scelta del bianco e nero?
Ero povera! Scattare a colori costava troppo: all’epoca ero inconsapevole che queste foto avrebbero potuto essere ricondotte a sistema o venire inserite in un concept più preciso. Ero solo una ragazzina molto, molto curiosa che scattava fotografie e aveva bisogno di risparmiare: oggi sembra una scelta stilistica ben precisa, ma in realtà è stata una scelta obbligata e dettata da condizione economiche.
Sono scatti “rubati” o concordati con il soggetto?
Assolutamente concordati. Tieni conto che parliamo di un’altra epoca: non c’erano gli smartphone, le persone erano più disponibili a farsi fotografare o filmare senza troppe paranoie. Nessuno mi ha mai detto niente, perché non c’era ancora il timore che gli scatti potessero essere diffusi sui social senza consenso. E poi facevo convintamente parte del movimento, era chiaro a chiunque che non ci fosse alcuna cattiveria di fondo.
Quando la politica parla di rave, lo fa sempre e soltanto in senso repressivo: come te lo spieghi?
Principalmente perché non c’è il minimo interesse di capire, e poi per una questione di opportunità: la strumentalizzazione dei free party a fini politici contribuisce a cristallizzarne un’immagine stereotipata e semplicistica. I free party vengono narrati come eventi mostruosi e inaccettabili anche per distogliere lo sguardo da questioni più pregnanti. Un esempio? Nelle stesse ore in cui, a Modena, si bloccavano le strade e si dava la caccia ai raver, a Predappio si stava tenendo un revival fascista in piena regola. È assurdo che l’attenzione mediatica venga interamente catalizzata da un evento in cui dei ragazzi partecipano in maniera pacifica e spontanea, ma purtroppo funziona così.