Il 19 aprile 1943 il chimico svizzero Albert Hofmann si auto-somministra 250 microgrammi di Lsd (dietilammide dell’acido lisergico), sostanza da lui sintetizzata nel 1938, ma non percependo nessun tipo di reazione, si dirige tranquillamente verso casa con il proprio assistente. Mentre è in bicicletta, però, incomincia ad avere alcune visioni psichedeliche, incipit di quello che diverrà il primo trip di Lsd della storia. Quel giorno è ora conosciuto come la Giornata della bicicletta (bicycle day).
Hofmann scopre una sostanza, di per sé, così fantastica (fantastica era anche il nome degli psichedelici fino a metà del Ventesimo secolo) che nei decenni successivi sarà utilizzata nelle ricerche più disparate. Negli anni ’50 e ’60 sarà sperimentata sia in ambito psicanalitico/psicoterapeutico che dall’FBI, verrà provata dallo psichiatra John Lilly nella comunicazione tra uomo e animali (in particolare sui delfini) e dal farmacologo Peter Witt sui ragni nell’ormai celebre studio sulla tessitura delle ragnatele. Infine ammalierà e ispirerà grandi artisti come William Burroughs e Aldous Huxley diventando simbolo per eccellenza della contro-cultura dei sixties (tramite Timothy Leary) fino al bando americano del 1967. Dopo oltre trent’anni di proibizionismo, nel 2006 e all’età di 101 anni, lo stesso Hofmann scriverà di suo pugno una lettera indirizzata a Steve Jobs richiedendo un finanziamento per uno nuovo studio sull’Lsd in relazione alla psicoterapia. Steve Jobs aveva indicato l’Lsd come stimolatore creativo nella nascita della Apple Computers.
Nel 2016 cambia tutto di nuovo. Robin Carhart-Harris dell’Imperial College di Londra scopre quello che verrà definito il “bosone di Higgs delle neuroscienze”, riuscendo a fotografare con risonanza magnetica funzionale il cervello umano durante un trip di Lsd. L’anno successivo il chimico Bryan Roth descriverà e mostrerà il modo atipico con cui l’Lsd si lega al recettore della serotonina. Queste immagini cristalline diventano le evidenze scientifiche da cui può ripartire, con molte difficoltà, la ricerca su Lsd e psichedelici. Inizia così il rinascimento psichedelico.
Per la nostra indagine sulle sostanze che, finora, ci ha portato a conversare con Giorgio Samorini, Federico Di Vita e Peppe Fiore ed Enrico Petrilli e Cosmo, abbiamo incontrato Agnese Codignola, giornalista con formazione farmacologica (laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche all’Università di Genova e con dottorato in farmacologia all’Università di Milano) che all’Lsd ha dedicato un intero libro, LSD. Da Albert Hofamnn a Steve Jobs, da Timothy Leary a Robin Carhart-Harris: storia di una sostanza stupefacente (UTET, 2017).
Buongiorno Agnese. Partiamo dall’inizio: come hai sentito il bisogno di scrivere un libro sull’Lsd?
Nella mia attività quotidiana guardo la letteratura scientifica e leggo i grandi media internazionali. A quei tempi, si iniziava a (ri)parlare dell’Lsd grazie al celebre studio del 2016 di Robin Carhart-Harris, capace di “fotografare” un cervello umano sotto Lsd con la risonanza magnetica funzionale, e alla battaglia di David Nutt per liberare gli studi su Lsd e psichedelici. Da grande curiosa di nuove idee scientifiche, ne sono stata attratta. E da qui arrivano due motivazioni differenti. La prima, quella pratica, è che siamo una società di depressi: l’OMS stima a più di 300 milioni i depressi clinici diagnosticati. Nonostante questo, gli antidepressivi non funzionano come e quanto sarebbe auspicabile e sono pieni di effetti collaterali. Gli studi su Lsd e psilocibina hanno dato dei risultati impressionanti: se gli antidepressivi funzionano sul 30% circa dei malati, Lsd e psilocibina arrivano al 90%. Quando ci sono questi grandi passi nella medicina, io mi innamoro. Poi c’è un motivo storico. Lo sviluppo della vicenda dell’Lsd negli anni dice molto sulle civiltà occidentali, su cosa viene considerato lecito o meno. Un aspetto culturale, sociologico, antropologico che trovo molto intrigante. La scienza è mettere in discussione; tu pensi di aver delle certezze fino a quando non vengono buttate all’aria. Le certezze di oggi non è detto siano quelle del prossimo futuro. Quello che sovverte, dal punto di vista intellettuale, è stimolante: queste sostanze, che ora vengono considerate droghe, si possono rivelare dei farmaci che possono risolvere tantissimi problemi o migliorare la vita delle persone.
Attorno alla scienza sembra che chiunque si senta autorizzato a dire la propria opinione senza saperne: lo vediamo in maniera macroscopica ora nella conversazione sul COVID-19. Ho scritto questo libro per inquadrare, in maniera laica, cosa si era capito finora dell’Lsd e le sue potenzialità.
Leggendo il tuo libro, molti potranno trovarsi ad un pensiero spiazzante che abbiamo trattato anche nella nostra conversazione con Giorgio Samorini: l’Lsd non è una droga.
L’Lsd, assunto nel modo corretto, non crea dipendenza e non presenta tossicità. È una sostanza che agisce sul sistema nervoso in un modo profondamente differente rispetto a quelle che noi di solito definiamo droghe. L’Lsd è utilizzato per guarire o per cercare una trasformazione in sé; è un cammino, non una sostanza da abuso come le altre droghe. Non è nella sua natura, l’Lsd non è un ricreativo temporaneo.
Facciamo chiarezza proprio su questo punto che emerge: ci sono rischi legati all’Lsd?
Al contrario di quanto si è detto dagli anni ’60 in poi, con studi successivamente confutati, non è mai emerso un effetto tossico dell’Lsd. Non è nemmeno stata rilevata una dipendenza dalla sostanza, ma questo è anche possibile perché, negli studi, le dosi cliniche sono molto elevate e difficilmente ripetibili dal paziente con continuità. Da persona con una formazione farmacologica posso affermare che ogni tipo di sostanza assunta con costanza induce tolleranza (un concetto farmacologico specifico), ovvero l’organismo si abitua e si modifica di conseguenza. Tendenzialmente la tolleranza può portare alla dipendenza. L’Lsd lavora sulla serotonina, ma con un’assunzione cronica va a coinvolgere anche circuiti diversi che chiamano in causa la dopamina e quindi altri neurotrasmettitori che incidono sui centri che coinvolgono le dipendenze. A quel punto potrebbe diventare pericoloso. Sono iniziati degli studi sul microdosing e non mi stupirei se si rilevasse una possibilità di dipendenza, se praticato per lunghi periodi. Se ti abitui ad una sensazione piacevole, come ad esempio la maggior concentrazione che pare comporti il microdosing, dopo si innesca anche una dipendenza psicologica. Nell’uso convenzionale, a scopo terapeutico e ricreativo, ovvero nel trip, non sono mai state rivelate dipendenze o effetti tossici anche perché in questi test c’è uno screening a monte onde escludere persone a rischio dall’assunzione.
Lo screening clinico serve quindi ad evitare che l’Lsd venga assunto da persone con condizioni a rischio. Quali sono queste categorie a rischio?
Negli screening si escludono le persone che hanno una storia familiare di malattie psichiatriche con sintomi psicotici (come la schizofrenia); queste malattie prevedono spesso una predisposizione familiare. La maggior parte di queste malattie ha un esordio dalla tarda adolescenza in poi. È noto fino dagli studi degli anni ’60 che l’uso dell’Lsd può slatentizzare queste malattie. Sono ad alto rischio anche i grandi utilizzatori di altre droghe come cocaina, eroina, cannabis, che – di per sé – possono condurre a delle modificazioni celebrali e a sindromi psicotiche. Sono individui a rischio poiché i tossicodipendenti sono tendenzialmente persone psicologicamente fragili a cui è sconsigliato somministrare alti dosaggi di Lsd. L’assunzione di Lsd per combattere una dipendenza invece ha un altro senso, anche perché si parla di una seduta o poco più, non di un consumo costante.
Hai citato di una tecnica molto in voga in questo periodo, il microdosing, ovvero la privata assunzione continua di Lsd o psilocibina per migliorare le proprie prestazioni lavorative e individuali. Qual è il tuo pensiero a riguardo?
Il concetto di microdosing è paradossale: cercare una liberazione dalle catene del quotidiano attraverso la dipendenza da una sostanza è, secondo me, una contraddizione in termini. C’è un paradosso in questo: se l’obbiettivo è la ricerca di un miglioramento della propria vita, perseguirlo con la sola chimica è un approccio ingenuo, e probabilmente destinato a fallire.
Spostiamoci all’interno della ricerca e delle cliniche. Come funziona una terapia psichedelica con Lsd oggi?
Si parte con un percorso terapeutico che prevede un certo numero di sedute per capire qual è la situazione del paziente, capire qual è il suo problema e prepararlo all’esperienza. Solo successivamente ci si sposta all’assunzione vera e propria dell’Lsd, in ambiente clinico, in una seduta in cui sono presenti uno o due terapeuti, meglio se uomo e donna così da poter comprendere i diversi vissuti possibili del paziente con interpretazioni da diverse sensibilità. Questi ambienti sono preparati con cura, con colori di un certo tipo, una certa musica, luci soffuse. Non stanze di ospedale, ecco. Spesso al paziente è chiesto di indossare una mascherina sugli occhi così da concentrarsi sul suo trip. Un ambiente caldo e predisposto porta ad un’altra predisposizione del paziente. Fondamentale è anche la scelta della musica che deve seguire l’evolversi del trip (12 ore) e di cui si fa un utilizzo razionale. Questo serve ad aver trip forti, ma sereni e non angoscianti. Nelle settimane successive all’esperienza, si susseguono altre sedute di terapia per trasformare quell’esperienza in qualcosa di solido e strutturale rispetto alla personalità. Questo è il protocollo.
Quali sono le fasi di un trip? E quando avviene un bad trip?
Il trip di Lsd (parliamo di quello più forte, ad alti dosaggi) prevede una serie di fasi che ha, come esito, un cambiamento davvero molto significativo. La prima è quella dell’allucinazione che, paradossalmente, è inutile a scopi terapeutici perché è condizionata solamente da una maggiore percezione di stimoli. In una seconda fase si hanno visioni più complicate in cui molto spesso si ritrovano persone o episodi della propria vita. Lì si può andare verso qualcosa di angosciante, come riportano molti trip report; ci si può spaventare. Nella fase successiva invece si ha una sensazione di morte, ma con una consapevolezza che a questo momento seguirà una rinascita, una rigenerazione. Anche qui la situazione può farsi critica: alcune persone in quel momento pensano davvero di essere in punto di morte, ne sono sicure. L’ultima fase, invece, ad alti dosaggi, conduce a visioni mistiche, ad un senso di appartenenza alla natura e alla dissoluzione dell’ego che conduce l’individuo a realizzarsi come una delle tante cose presenti nell’universo. Il bad trip può apparire nella seconda o terza fase come un film dell’orrore amplificato. Queste persone possono avere esperienze davvero terrorizzanti che perdurano nell’esistenza. Un bad trip meno forte, invece, può creare disturbi visivi che durano oltre il trip stesso. È uno dei pochi effetti collaterali ed è quello di cui si pensa soffrisse Syd Barrett, allucinazioni che durano giorni, mesi, anni. Mentre nei primi studi il rischio di queste allucinazioni era più alto, ora, grazie allo screening dei pazienti e ad una migliore attenzione al setting, non accade più nelle sperimentazioni cliniche in cui, oltretutto, c’è la possibilità di fermare il bad trip con farmaci che bloccano l’LSD. Per questo è fondamentale che ciò avvenga in clinica con due medici a seguito.
Quali sono le patologie più promettenti trattate con terapie di Lsd?
Nei disturbi dell’umore come ansia e depressione si sono riscontrati ottimi risultati. Generalizzando, molte situazioni di disagio mentale, più o meno gravi, caratterizzate dal fatto di rimanere a rimuginare con lo stesso tipo di pensiero o ragionamento, possono essere spezzate dall’utilizzo di queste sostanze. Questo perché noi umani abbiamo dei percorsi di pensiero ripetitivi che l’Lsd riesce a spezzare portando alla guarigione. Questo è anche il motivo per cui si utilizzano e funzionano per scardinare le dipendenze. L’Lsd funziona anche sui traumi da stress post traumatico, come dimostrati studi su veterani di guerra o donne vittime di stupro. Nel libro riporto la storia di un medico olandese Bastiaans che, grazie all’Lsd, trattò e curò circa 5000 persone uscite dai campi di concentramento. Fuori dalla sfera psicologica, l’Lsd invece ha dato ottimi risultati anche su una patologia drammatica come la cefalea a grappolo, detta anche cefalea da suicidio (neurologi mi hanno raccontato di come alcuni loro pazienti, impazziti dal dolore, si fossero cavati un occhio) e questo perché questo disturbo coinvolge la serotonina. Ultimamente si è scoperto come l’Lsd possa avere effetti antiinfiammatori sul sistema nervoso e quindi si sta provando ad utilizzarlo come possibile cura per le demenze, per ora con studi in vitro e su animali. Ci sono anche studi sulla creatività che dimostrano che i centri associati alla creatività sono particolarmente attivi sotto Lsd.
Risultati così promettenti potrebbero far subito pensare ad un grande investimento sulla ricerca per le terapie con Lsd e psichedelici, ma la storia presente e passata ci racconta che non è così. Ci puoi fare una panoramica sulle problematiche che portano a questo ostracismo?
Una delle obiezioni più forti arriva da chi non pensa si possa adottare questo tipo di terapia per 300 milioni di depressi per una questione di costi. In realtà sono state fatte anche valutazioni economiche su queste terapie. Un trattamento con psicofarmaci, sulla lunga distanza, ha un costo più alto rispetto ad un trattamento in una struttura predisposta con del personale formato. Noi passiamo la vita a dire che nella medicina il paziente deve essere al centro, ma questo rimane sempre e solo uno slogan. Con l’Lsd c’è proprio questo problema: nonostante ci fossero stati tanti indizi sui vantaggi dell’Lsd, solamente in tempi recenti è tornato un certo interesse in materia, questo perché le terapie con l’Lsd confliggono con gli interessi delle aziende farmaceutiche e della medicina per come è strutturata oggi. Molte di queste sostanze psichedeliche non sono brevettabili e non c’è quindi un’azienda che ha interesse a fare studi con l’Lsd. È come un vaccino: se questa terapia funziona nel modo giusto, prevede un’applicazione one-shot o al massimo un due-tre nell’arco di mesi. Quindi non c’è business. Questo sovverte l’impostazione della medicina contemporanea che è fatta di esami diagnostici molto sofisticati e di farmaci. L’utilizzo dell’Lsd ha un approccio olistico, non disdegna la farmacologia, ma si prende cura della persona e di ogni persona nella sua specificità.
Con le ricerche di Robin Carhart-Harris e Bryan Roth citate nell’introduzione all’articolo, la scienza ha finalmente avuto delle evidenze chiare e inattaccabili da cui far ripartire la ricerca su Lsd e psichedelici. Dall’uscita del tuo libro del 2017, però, la situazione sembra molto più favorevole per questi studi, quantomeno nella conversazione pubblica e nei media. Cosa ne pensi di questo cambio di paradigma mediatico?
In questi anni il cambio di paradigma mediatico è stato evidente, ma è importante che se ne continui a parlare coi toni giusti. Io vedo l’Lsd (e la psilocibina) nello stesso modo in cui era visto dal suo scopritore, Albert Hofmann, ovvero come un facilitatore che nell’ambito di un percorso psicoterapeutico/psicologico può essere d’aiuto. L’Lsd va utilizzato all’interno di un percorso di preparazione psicologica, vivendo quell’esperienza con una guida (come dice anche Micheal Pollan nel suo celebre Come cambiare la tua mente) che possa in seguito aiutarti ad elaborare quello che hai vissuto in modo corretto. La sostanza chimica ha un ruolo, certo, ma all’interno di un percorso.
Questo entusiasmo verso una rivalutazione degli psichedelici ha il nome di rinascimento psichedelico. Come ti poni a riguardo?
Sono scettica perché secondo me la storia insegna: questo approccio ingenuo in cui si pensa di poter dare gli psichedelici a chiunque in nome di un mondo migliore non funziona, lo abbiamo già visto. Se non metti paletti, e un supporto tecnico, queste sostanze possono fare danni. Io che mi occupo di salute da tutta la vita, la penso così. Non sono d’accordo con questa tendenza a generalizzare e uniformare le sostanze nel discorso pubblico. Qui parliamo di sostanze diversissime, potentissime, che hanno effetti molto differenti su differenti neurotrasmettitori. Esclusi Lsd e psilocibina, la stragrande maggioranza delle sostanze psichedeliche hanno effetti collaterali su reni, fegato, cuore. Non mi piace che si parli di rinascimento psichedelico in questo senso così ampio e generalizzato. Gli psichedelici non devono essere trattati come un blob informe, altrimenti si fa confusione. Il termine “rinascimento psichedelico” non è stato coniato come invito all’assunzione collettiva e indiscriminata dell’Lsd, ma nasce con il rifiorire degli studi scientifici sugli psichedelici che finalmente ritrovavano la loro dignità dopo decenni di proibizionismo. Non sono critica di per sé verso questo movimento, sono critica con le interpretazioni ultime che tendono a ripercorrere sentieri già battuti. Certo è un altro momento storico e non ho paura che si possa degenerare come successo con Timothy Leary, ma non dovremmo ripercorrere certi errori. Noi abbiamo a disposizione sessant’anni di storia di queste sostanze. Questi attuali profeti mi preoccupano perché – nonostante tutte le buone intenzioni del mondo – non capiscono le pericolosità, anche solo psicologiche. Tra l’altro la tendenza a diventare un guru è molto studiata, come mi hanno riferito di recente anche alcuni membri del gruppo dell’Imperial College di Londra, che ne sono preoccupati, perché è un effetto collaterale di un uso eccessivo, sbagliato e prolungato dell’Lsd. In quel caso il pensiero si polarizza e ci si sente investiti di una missione: molto tipico e noto fino dagli anni sessanta. Nonché rischioso.
Secondo te è possibile che la ricerca sull’Lsd e sugli psichedelici ricominci anche in Italia a oltre sessant’anni dagli ultimi studi in materia?
In paesi ritrosi e bigotti come l’Italia ci si può muovere solo per osmosi. Gli Stati Uniti hanno iniziato ad approvare la psilocibina e questo è un passaggio fondamentale per noi che abbiamo una soggezione culturale verso la FDA (Food and Drug Administration). Probabilmente dopo il Covid queste terapie verranno proposte e visionate anche dall’EMA (European Medicines Agency). Se i media continueranno a parlarne con tranquillità e obiettività, come dicevamo, questa modifica del paradigma mediatico potrebbe sicuramente facilitare la percezione attorno a queste sostanze e terapie. Ma non dimentichiamoci che l’Italia non è un paese che investe sulla ricerca.