La buona notizia è che Filippo Scòzzari è sempre nel pieno della lotta, uno scontro dai tratti dicotomici, un tormentoso incedere contro le bassezze dell’ordinario, del reiterato, dell’innocuo. La sua opera resta fra le più detonanti dell’ultimo mezzo secolo, quasi un’aporia per un’Italia che nel fumetto ha sempre creduto poco ma che in lui ha riconosciuto un autore di irriverente originalità e dissonante audacia. A ribadire la necessità dei suoi “cortocircuiti” – come lui stesso li definisce – è arrivato Una Regina, Due Re, il volume per Coconino Press che ripropone il meglio delle sue opere, un librone dal peso artistico elevatissimo che segue l’uscita di altri due titoli come Lassù no e Il mar delle blatte.
Fra le pagine dell’ultima raccolta troviamo dunque tutte le storie e le tavole di tre personaggi fondamentali del fumettista bolognese, soggetti unici nel panorama della nona arte come Suor Dentona, Primo Carnera e Dottor Jack. A rendere ancor più interessante la pubblicazione c’è stato il lavoro di scansione e ritocco di Scòzzari, che ha perfino cesellato i testi in un’operazione di definitiva revisione. I più recenti tributi al lavoro di questo “delinquente culturale” sono arrivati sia col Premio Romics d’Oro sia con la candidatura di Lassù no nella Sèlection Patrimoine del Festival de la Bande Dessinée d’Angoulême, fra i più prestigiosi eventi dedicati al fumetto in Europa. Attestazioni più che ovvie per uno dei padri innovatori del disegno italiano, fondatore di esperienze editoriali rivoluzionarie come (solo per citare alcune fra le più clamorose) Frigidaire, Cannibale e Il Male. Ma queste riedizioni e questi riconoscimenti sono anche un’occasione per ripensare al presente dell’editoria a fumetti nazionale, per comprendere quale stagione straordinaria sia stata quella di fine anni ’70 e di come il rumore bianco dell’odierna interazione digitale abbia reso ancor più complicato l’emergere delle migliori esperienze underground.
Che effetto fa vincere questi premi dopo una vita passata nel fumetto?
Si decidono a conferirti questi premi alla carriera solo per cercare di battere la morte in velocità. Il ritardo con cui si sono accorti che esisto, dopo 40 inutili anni di ululati, progetti, scoperte, botti, grida e invenzioni ha reso abbastanza ridicola l’intera faccenda. E inutile, poi: quelli a cui tengo veramente non hanno bisogno di premiarmi; sanno bene di che pasta è fatto il mio universo. Ad ogni modo, non sono un mostro: un premio fa sempre molto piacere e sottolinea se non altro che qualcuno al di fuori della tua cerchia si è accorto di te. Non sei stato inutilissimo.
Che cosa ha significato lavorare a questa edizione delle sue opere per Coconino?
È stato un bel tuffo all’indietro: scoprire agghiacciato quanto fossi brocco, ingenuo e presuntuoso mi ha costretto a rimettere le mani sulle tavole originali e soprattutto sui testi, nel tentativo di rimediare a disastri e disastrini. L’editore mi ha scongiurato di star fermo con le manacce, queste cose non si fanno, non ti permettere, ma di certe ingenuità mi vergognavo troppo e ho voluto bastonare quell’antico Filippetto di seconda fila, rimetterlo al suo posto. È stato abbastanza piacevole, perché mi sono autoconferito il potere di rimediare al passato, cosa che non succede MAI. Tu chiamalo, se vuoi, barare…
Lei è fra i pochi autori che lavora sulla lingua, considerandola uno strumento potente almeno quanto i disegni. Com’è riuscito a conquistarsi una cifra così personale?
Per quest’avventura coconinica ho cercato di riverniciare la scrittura, renderla un pochino più attuale, meno ripetitiva, meno melensa. Ho eliminato ogni odor di fumetto underground, le troppe banalità da parvenu. Ma di questo ho già detto. Mi chiedono spesso da dove vengono certe cose. Naturalmente non lo so: sono cortocircuiti che mi ustionano il cervello, scintillone accecanti innescate da letture, esperienze, vittorie e bastonate che nei casi fortunatissimi mi proiettano in mondi già pronti. Faccio una maledetta fatica a disegnare, ma mi risulta facile articolare tra loro situazioni, pupazzi e dialoghi: è la parte divertente. Gli anni che passano sono una vera maledizione, fidati, ma in compenso ti regalano una sorta di maturazione, condita di consapevolezza, furbate e trucchetti. Non raccontare fandonie prima dei quarant’anni dovrebbe essere un imperativo assoluto per chiunque: dentro non hai niente, perciò non hai niente da dire, non hai ancora imparato nulla, hai capito molto poco, non hai croste né cerotti. Non sei interessante, sono quasi tutti migliori di te. La mia ricetta: sta’ zitto e impara.
Le esperienze di Cannibale, Frigidaire o Il Male sono irreplicabili?
Gli autori non hanno voglia di battagliare per bande, non se la sentono. I meglio agiscono da soli. Sono questi i tempi: ognuno per sé e affanculo tutti. Non ho voglia di chiedermi perché. Sono cambiate le teste, le voglie, le insoddisfazioni, le armi della comunicazione. Quarant’anni fa eravamo una banda di delinquenti culturali e ci divertivamo follemente a rompere i coglioni, cosa parzialmente concessaci da una realtà merdosa ma non ancora così gommosa e monocorde. Oggi comanda la rete, l’imbuto nel quale tutti affogano. Una morte praticamente obbligatoria: i costi della carta sono inaffrontabili, la gente consulta il telefonino ad ogni sospiro, a che cosa servono le edicole? L’aspetto positivo è la possibilità – almeno in partenza – di arrivare a platee infinitamente più vaste di quelle accessibili negli anni ‘70. Oggi tu sei autore, editore, distributore di te stesso. E sei a un pelo dal trasmutarti in influencer. Ma i contenuti? Stiamo zitti…. D’altra parte il rumore bianco si è alzato moltissimo. Tutti dicono la loro, è un pigolìo planetario di scemenze senza senso. Sto scrivendo un fumetto in cui canto la Rete che si strangola da sola.
Oggi creare un prodotto editoriale è facile, però è difficilissimo lasciare il segno…
La definizione “delinquenti culturali” è una connotazione precisa di quello che volevamo e sapevamo fare. Eravamo animati da una cattiveria/nausea esistenziale, politica e culturale, che ci obbligava a scendere in campo. E quanto eravamo sdegnati… Oggi ci sono quelle “molle”? O hanno vinto i tatuaggi di Fedez?
Esiste una scena che in questo momento lei giudica interessante?
Stai parlando con un ignorante. Non seguo nulla, ma mi dicono che il fumetto è tornato in auge, se non altro nelle vendite, una sorta di vendetta sulla Kultura Alta. Molti autori sono dotati di una grandissima mano, sono matite portentose, ma non riescono a spingermi oltre la terza o quarta pagina… non mi chiedere perché…
Avete cambiato la vita di tante persone…
Non saprei. Una banda culturale riesce sì e no a farsi ricordare… non credo sia congeniata per la semina. Sui banchetti delle Fiere del Fumetto – le Fiere del Nulla Demente, le chiamo – noto solo le imitazioni e le imitazioni e le imitazioni di Cannibale: siamo all’undergrunt de ‘noantri. Nessuno a porsi il problema di superare le formula, di dire qualcos’altro, e in un altro modo.
Lei ha lavorato anche nella comunicazione. Che cosa ha significato cimentarsi in quel mondo?
È stato molto divertente: mi sembrava di essere un alieno. M’ero nutrito di me stesso, avevo imparato da solo a scrivere fumetti, sceneggiature, testi. Appena entrato nella comunicazione pubblicitaria ho scoperto che sapevo già tutto e il mio stile, le mie invenzioni, il mio odore mi denunciavano come alieno. Non sopportavo quel pianeta: fattami la macchina, alzai i tacchi.