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Enrico Brizzi: «Chi parla male dei Måneskin è già vecchio dentro»

In libreria con ‘Due’, il sequel di ‘Jack Frusciante è uscito dal gruppo’ 30 anni dopo (ma ambientato nei ‘90), lo scrittore racconta la sua esistenza punk: le proposte indecenti, la tesina sugli 883 con Umberto Eco, i complimenti di Vasco e l’ironia di Michele Serra, la trap che non rappresenta i giovani, i coetanei vecchi dentro (quelli che criticano Damiano e soci) e i suoi 50 anni

Foto: HarperCollins

«A volte la vita è più imprevedibile di una scheda editoriale». Non ha tutti i torti Enrico Brizzi, che in questo caso si riferiva al ritardo con il quale ha risposto alla nostra intervista, anche se era assolutamente giustificato essendo rimasto bloccato in treno a causa del maltempo in Emilia Romagna. Ma uscendo dagli imprevisti della vita quotidiana, chi si sarebbe mai aspettato che, esattamente 30 anni dopo, avrebbe scritto il sequel di un bestseller come Jack Frusciante è uscito dal gruppo? In pochi, diciamoci la verità. E ci ha confessato che neanche lui stesso ne aveva mai sentito l’esigenza, nonostante per dieci anni gli editori abbiano provato a convincerlo in tutti i modi, addirittura con proposte davvero indecenti («metti la firma e scegli la ragazza con chi vuoi uscire stasera»).

Con Due, questo il titolo del nuovo romanzo che ci fa conoscere come prosegue la relazione tra Alex e Aidi, HarperCollins non ha però dovuto nemmeno insistere perché a un certo punto, ci ha spiegato l’autore, si è guardato intorno e ha visto «le mie figlie che hanno 20 anni, la vita che ha fatto un giro intero» e nel novembre scorso ha ripreso in mano il volume e «per la prima volta l’ho riletto dall’inizio alla fine come se fosse scritto da un altro». Così, alla fine, «all’ultima pagina ho aperto il computer e mi sono messo a scrivere come poteva continuare la storia secondo me». Ne abbiamo approfittato per ripercorrere insieme la sua esistenza da scrittore di culto poco più che maggiorenne, che si è ritrovato in pochi mesi al centro di un caso letterario tradotto in ventiquattro Paesi e diventato un film nel ’96, dopo aver tenuto una tesina da 30 e lode con un professore come Umberto Eco sugli 883 (e anche lì qualcuno usciva dal gruppo).

In questa lunga chiacchierata ci ha raccontato dei detrattori: «A Bologna disegnarono sui muri gli stencil con scritto Jack Frusciante è entrato nel business e Michele Serra mi soprannominò Il giovane Holding». Il più bel complimento ricevuto da Vasco Rossi: «Jack Frusciante sta a Bastogne come Albachiara sta a Fegato, fegato spappolato». La differenza tra i suoi esordi e l’editoria di oggi senza ricerca: «Puntano sugli influencer di cui misuri i follower che si convertiranno in acquirenti». Della trap, che non rappresenta tutti i giovani perché «c’è anche chi ascolta rock, elettronica e classica». Di un metodo personalissimo per riconoscere tra i coetanei chi ha patito di più il trascorrere del tempo: «Quelli che parlano male dei Måneskin secondo me sono già vecchi dentro». O come mai ha deciso di lanciarsi nella «cosa più pericolosa che ho fatto finora» scrivendo come proseguono i rapporti fra personaggi che hanno segnato l’adolescenza di diverse generazioni e scegliendo di rifugiarsi «in un alberghetto sull’Appennino tosco-emiliano, senza wifi, a mangiare in una locanda per cinque giorni come negli anni ‘90». E perché, all’alba dei suoi 50 anni, può cambiare tutto intorno, ma non l’attitudine punk: «Nessuno in buona fede dimentica il posto da cui viene».

Jack Frusciante è uscito dal gruppo è stato pubblicato nel 1994, quando non avevi ancora 20 anni. Ma chi era l’Enrico Brizzi di allora?
Uno dei tantissimi quasi ventenni che sognava di suonare in una rock band, solo che al terzo anno consecutivo di premio come “peggior bassista di Bologna” ho lasciato perdere. Il premio è uno scherzo, però facevo cagare. Ma è vero che sono cresciuto più in mezzo a quell’immaginario che a una formazione da studente di lettere. Allo stesso tempo, già da tre anni, rompevo le scatole agli editori con i miei racconti sperando di ricevere un feedback.

In questo senso è stato fondamentale l’incontro con Massimo Canalini.
Sì, della casa editrice Transeuropa, realtà anconetana nota perché aveva pubblicato le raccolte dei racconti di narratori under 25 curate da Pier Vittorio Tondelli. Un faro per qualcosa che anche allora era così fuorimoda ma sempre affascinante come la scrittura. Ero molto inesperto, come tutti i ragazzi, ma ero convinto che se ti piace una cosa almeno devi provarci seriamente.

Alla scomparsa di Massimo Canalini hai scritto: «Su un fatto non l’ho mai sentito scherzare. Penso precisamente a quando definiva la propria opera con un termine solenne e avventuroso, che tanta editoria di oggi farebbe bene a rivalutare: “ricerca”». Quanto manca oggi nell’editoria?
Manca totalmente. Perché è cambiato il flusso del sistema editoriale. Detto semplicemente, una volta le grandi case editrici cercavano gli autori nelle piccole case editrici, perché chi ci pubblicava aveva fatto una gavetta. Io ho pubblicato molto giovane, ma erano due anni e mezzo che stavo dietro a quella storia. Ogni weekend finivo la scuola, andavo ad Ancona in casa editrice e stavo con altri giovani autori, che erano meno giovani di me visto che ero lo sbarbato della compagnia, ma questo mi ha fatto crescere. Come suonare la chitarra. Se lo fai da solo in cameretta non evolvi, se invece lo fai ai concerti con altri progredisci più in fretta.

Jack Frusciante è uscito dal gruppo è prima uscito in 200 copie che in breve si sono trasformate in milioni, è stato tradotto in ventiquattro Paesi ed è diventato un film nel ‘96. Ti sei mai montato la testa?
È raro che a questa domanda qualcuno risponda: «Sono diventato una puttana e ho ceduto a tutte le tentazioni di Babilonia». È difficile spiegare quante cose belle succedono con il successo, ma ancora più difficile è spiegare quante cose brutte. Per esempio, a un certo punto c’è tantissima gente che ti ama dopo averti idealizzato. A me era chiaro come qualcuno potesse amare un disco o un libro, non mi era chiaro come uno scrittore potesse diventare il tuo idolo tanto da volerci uscire, andare a letto, stargli vicino a forza. Invece è impressionante che ci siano persone che sviluppano un atteggiamento così morboso. Per me non è così.

Oggi i musicisti, in molti casi, vengono selezionati sui social.
Infatti le case editrici campano senza i giovani autori. Quando Transeuropa mi ha pubblicato, come tanti altri, c’era il contratto che prevedeva, al passaggio a una grande casa editrice, che la metà rimanesse alla casa editrice d’origine. Anzi, per me fu uno choc quando dalle 200 copie si passò a 500, 1000, 14mila… l’editore stesso che ti dice: «Guarda che te ne devi andare perché per stare dietro alle ristampe del tuo libro non abbiamo abbastanza personale».

E come hai reagito?
Mi sono sentito triste, perché sostanzialmente mi mandavano via da casa mia. Con il senno di poi, era l’unica scelta sensata da fare. Mi ci sono confrontato con Silvia Ballestra poco tempo fa, lei che allora era anche l’autrice di riferimento dopo aver pubblicato due libri passati alla Mondadori. Oggi, come le case discografiche, che bisogno c’è di investire su una piccola label che ti fa pagare la formazione di una band, quando puoi fare una proposta agli influencer di cui misuri i follower che si convertiranno in acquirenti del libro? Per questo motivo escono volumi scritti da un ghostwriter per influencer, cantanti, attori e sportivi. Ci sarà qualcuno che sa scrivere, ma la maggior parte non ha davvero quella formazione.

Così si perde l’ispirazione nelle opere, che siano letterarie o musicali?
Un libro è nelle ambizioni di tanti, quindi anche questi personaggi sono contenti di farli, ma non calcolano che sarà il primo e ultimo, perché subito dopo cercheranno qualcun altro che nel 90% dei casi ha il suo stesso ruolo nella società e in quel momento più visibilità.

Allora succedeva in musica, ma anche nell’editoria qualcuno ti ha dato del «venduto»?
Dopo il successo a Bologna, spuntarono degli stencil disegnati sui muri con scritto: «Jack Frusciante è entrato nel business». Come vedi, con il successo c’è anche tanta gente che ti odia con questi atteggiamenti da fuori di testa. Poi è vero che c’è molta gente che si vende, ma nel mio caso mi sembrava fuori luogo per un libro che era uscito in 200 copie con una casa editrice indipendente di Ancona. Oppure, visto che all’epoca collaboravo con il settimanale Cuore, che da Milano si era trasferito a Bologna, regalai alcune copie ai giornalisti, tra i quali Michele Serra che quando iniziò a vendere bene cominciò a prendermi in giro supponendo che stessi facendo i miliardi e mi soprannominò «Il giovane Holding». Però sono rimasto più impressionato dalle proposte, dopo le quali, ti rendi conto di ritrovarti di fronte a quel famoso signore con le corna, la coda e le zampe da capra.

Immagino siano arrivate per scrivere subito dopo il sequel di Jack Frusciante.
Esatto, ma io non ne volevo sapere, non mi passava neanche per l’anticamera del cervello. Ma a quell’età è dura subire pressioni del genere. Me l’hanno chiesto ancora per dieci anni buoni, anche se c’è modo e modo di chiedere. In particolare quando un editore o un produttore ti spinge un contratto sotto al naso con un book di foto di belle ragazze e ti dice: «Metti la firma e scegli con chi vuoi uscire stasera». O sei un puttaniere fatto e finito o, se hai un minimo di morale, ti rendi conto che è una proposta inaccettabile e lo mandi affanculo.

Violante Placido (Aidi) e Stefano Accorsi (Alex) nel film tratto da ‘Jack Frusciante è uscito dal gruppo’

La politica ti ha mai fatto proposte “indecenti”?
Come no. Ero un ventenne che andava alle manifestazioni antiproibizioniste, pensa come ho reagito quando il Presidente del Consiglio mi ha chiesto di diventare il volto della campagna antidroga, ma in un Paese in cui non si fa differenza tra uno che fuma un joint e uno che si fa di eroina. Avrei avuto una grande visibilità e diversi contatti politici, solo che per me era sbagliato e ho rifiutato. Come fare il giudice a Miss Italia. Dio solo sa quanto mi piacciono le ragazze, ma non mi piacciono i concorsi con le ragazze in costume in fila per essere giudicate con un numero come in carcere. E sono rifiuti che in qualche modo ti fanno pagare.

Non ti sei mai pentito di un rifiuto?
Venire dall’underground mi ha aiutato a fare le scelte giuste. Il bivio che mi vedevo di fronte era quello di voler fare la sub celebrità o il tuttologo che parla di giovani, oppure, come nel mio caso, il narratore. Non potevo che scegliere il secondo caso. Puoi sempre farlo con spirito rock and roll, ma sai che il giurato a Miss Italia non lo puoi fare.

Ricordo che Andrea Pinketts, scrittore accomunato come te alla Gioventù cannibale, andava molto fiero di far parte del concorso Miss Muretto di Alassio.
Bisogna rispettare la morale di ognuno. Ma non bisogna neanche subire quella degli altri.

Una follia che il giovane Enrico ha fatto dopo che il romanzo volava nelle vendite?
La prima è stata andare a vivere fuori da casa dei miei genitori con un amico. La seconda, qualche anno dopo, comprarne una dove oggi vivono le mie figlie. E la terza è molto recente, cioè pubblicare questo romanzo Due. Credo sia la cosa più pericolosa che ho fatto finora.

Quindi cosa ti ha convinto a compiere un passo così “pericoloso”?
Quando ho annunciato a HarperCollins che stavo lavorando al seguito ho messo come condizione obbligatoria che l’editing sarebbe dovuto essere alla vecchia maniera: no riunioni via Zoom, telefono e dialoghi a distanza. Ma solo io e Carlo Carabba, il responsabile della narrativa, che abbiamo preso una stanza in un albergo economico cinque giorni in mezzo all’Appennino tosco-emiliano, senza wifi, siamo andati a mangiare in una locanda e ci siamo chiusi lì come si faceva negli anni ’90. Ci è piaciuto tantissimo. In termini discografici è come fare un disco e registrarlo in analogico e con i tempi di studio che c’erano nel ’94.

Queste le condizioni per la pubblicazione, ma di mettere mano a un bestseller generazionale come ti è venuto in mente? Ha influito la ricorrenza dei 30 anni?
Più che i 30 anni dalla pubblicazione hanno pensato di più i 20 delle mie figlie più grandi e pensare che alla loro età io partivo e facevo presentazioni tutta la settimana per librerie, locali e piazze. Questo pensiero mi ha dato l’idea che la vita avesse fatto un giro intero. E forse ha influito anche che a novembre dell’anno scorso, per la prima volta, ho riletto quel romanzo dall’inizio alla fine come se fosse scritto da un altro. Molto banalmente, all’ultima pagina ho aperto il computer e mi sono messo a scrivere come poteva continuare la storia secondo me.

Così naturalmente?
Ma con un’emozione fortissima, perché sai di toccare qualcosa che per tanti è stato un momento significativo nelle loro vite. Ho sentito una grande esaltazione e una gran pace, sensazioni che, di solito, arrivano insieme quando hai la storia giusta da scrivere.

E perché hai deciso di ambientarlo ancora negli anni ’90 e non, come fanno alcuni, esattamente 30 anni dopo?
Non è stata neanche una scelta, perché rileggendo Jack Frusciante mi è parso chiaro che quei due, Alex e Aidi, esistono in quanto tardo adolescenti. La loro voce e il modo in cui vivono sono quelli delle prime volte. Alex si rende conto che se fai spazio nella tua vita a un’altra persona le cose cambiano. E il tema di Due credo sia che hai appena capito che può essere bello e doloroso fare spazio a un altro, ma come gestisci la lontananza e la mancanza? E l’altro aspetto è la materia di cui è costruito. Dal punto di vista tecnico, una voce del narratore che parla in quel modo, non in altri, per cui l’unica soluzione per continuare a scrivere quella storia è stato riprendere la voce del narratore, quella di Alex disastrato perché lei è appena partita, di Aidi che è piovuta in un nuovo mondo dove non conosce nessuno e non sa stare a galla da sola. La parola “scelta” la capisco in una domanda, ma non me la sento cadere bene addosso. Sono scelte non consapevoli, ma dettate dall’istinto e dall’urgenza.

Mentre parlavi di come si reagisce alla lontananza e alla mancanza mi è risuonata nella mente la canzone di Maurizio Arcieri Cinque minuti e poi…, che non è degli anni ’90 ma del ’68. Fino all’epoca in cui l’hai scritto erano sensazioni comuni a qualunque persona, ma oggi con i social, le piattaforme di messaggistica e le videochiamate è cambiato tutto.
Certo, raccontare la generazione di oggi in quel modo sarebbe assurdo. Però mi colpisce una cosa che mi dicono spesso le mie figlie. Che per i ragazzi di questa generazione gli anni ’90 sono la storia come per noi la erano i mitici anni ’60 con Woodstock, i Beatles, l’estate dell’amore. Era pochi anni prima, ma ci sembravano un altro mondo. Quello che ti esalta è l’entusiasmo, la corsa verso la vita di una generazione. Quando eravamo negli anni ‘90 ci dicevamo «beati quelli che hanno vissuto i ’60, i ’70 e persino gli ’80, perché di questi ’90 nessuno si ricorderà mai». Un errore di prospettiva che fa ridere oggi, quando invece qualunque cosa venga da quegli anni è materia per musica, moda, serie tv e libri.

Quindi oggi i giovani non provano più sentimenti per la lontananza e la mancanza?
Mi colpisce, parlando con le mie sbarbe, che mi dicano di sapere cosa significa mandare una lettera che ci metterà tre settimane per arrivare e altre tre settimane per ricevere una risposta e che questo gli appaia come inconcepibile. Nello stesso tempo gli sembra normale anche parlare in diretta con un’amica in Ontario o in Nuova Zelanda e sempre sentendone la mancanza. In fondo il cuore dei ragazzi resta segreto. Forse perché non è diventato più facile dire «mi sono innamorato di te» o «mi manchi». Fa parte dell’eternità dell’essere ragazzi.

A parte questo aspetto, come valuti la Gen Z così criticata?
Sono cambiate tante cose, con passaggi storici oggettivi che sarebbe sciocco ignorare. Chi ha oggi 20 anni si è fatto dai 16 ai 18 chiuso in casa per il Covid. La mia generazione non l’ha conosciuto il lockdown. È molto diverso perdere due anni da adulto e perdere due anni da ragazzo in un’età in cui ogni anno conta mezza vita. La generazione dei miei nonni ha fatto la guerra e io non ho l’equivalente di aver fatto la Seconda guerra mondiale. Poi ci sono altri aspetti rimasti identici. D’altro canto la generazione di oggi non ha sperimentato la violenza politica, il prendersi a sprangate tra compagni e camerata, lo studente ripetente e turbolento che poi trovavi al parco con la siringa nel braccio. Oggi tutto questo succede molto meno.

Oggi tutto questo viene spesso simulato nella musica trap.
Sono lontano dalla trap come anche le mie figlie, non è che tutti i giovani ascoltino quella musica. C’è anche chi ascolta rock, elettronica e classica. Il generalizzare che i giovani di oggi sono soltanto quelli della trap è come quando si diceva che ci sono le «mamme anti rock» contro le stragi del sabato sera o che tutti i giovani sono fusi perché si calano le pasticche e ascoltano la techno. La realtà è più complessa. Io ascolto un sacco di hip hop del passato, perché è una forma di espressione in metrica più vicina a Dante che non alla prosa.

Enrico Brizzi. Foto: Sara Vago

Chi ascolti in particolare?
I miei riferimenti sono Frankie hi-nrg mc, Sangue misto, Beastie Boys, Run DMC o Public Enemy e non Sfera Ebbasta o Simba La Rue, che leggo sui giornali ma non so che musica facciano.

I Måneskin?
Sai, ho ideato un metodo per capire quali dei miei coetanei sono invecchiati male.

Quale?
Quelli che parlano male dei Måneskin, secondo me, sono già vecchi dentro. Non che siano il mio gruppo preferito, anche se ho portato le mie figlie a un loro concerto. Ma dai, quanto bisogna essere inaciditi per prendersela con una band di 20enni e dire «che schifo» o chiedersi perché non sono come Lucio Battisti o i Marlene Kuntz? È ovvio che sono un’altra cosa. Ma non riconoscere che tengono bene il palco e hanno una gran presenza è fare un discorso da vecchi dentro, tipo «signora mia dove andremo a finire». Un po’ come mia nonna, che quando aveva 20 anni le piovevano le bombe da due tonnellate sulle campagne intorno, si è trovata i tedeschi in casa con i partigiani nascosti nel fienile e il rischio di essere fucilati, però dal suo punto di vista mi diceva che erano pericolosi gli anni ’80. Per me non sta in piedi questa tesi che il tempo presente è sempre peggio del tempo passato.

Anche perché i “cattivi esempi” cambiano nel tempo e a volte diventano dei simboli generazionali. Come Vasco Rossi, dalla “scomunica” della curia bolognese a riferimento da padre a figlio. Tu ci hai scritto il libro La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco.
Per combinazione sono cresciuto accanto a dove abitava, a due strade dai miei genitori. Ne ho parlato anche con lui, c’è stato un periodo in cui ci siamo frequentati fra cene e tour. Una volta scrisse un articolo sul mio secondo romanzo, Bastogne, e c’era questa frase che per me è una medaglia: «Jack Frusciante sta a Bastogne come Albachiara sta a Fegato spappolato». Immagina sentir dire una cosa del genere su un’opera che hai scritto da un artista che per anni è stato l’adesivo sopra la tua Vespa o il poster appeso in camera. Mi ha colpito fortissimo.

Bastogne è l’opera che portò i critici a inserirti nell’onda della Gioventù cannibale.
Quella era una antologia Einaudi che ha buttato dentro i suoi autori giovani e con una consonanza tematica: storie dure e metropolitane. Come Bastogne, appunto. Ma sai, in quegli anni il film di culto era Trainspotting, si diceva che oltre il 31 dicembre del ’99 si sarebbero spenti tutti i computer del mondo. Insomma, c’era aria da fin de siècle. C’è stata una semplificazione e io tecnicamente non ne facevo parte, ma quando incontro Niccolò Ammaniti, che ne era tra i capofila, come all’ultimo Salone del libro di Torino, ci facciamo due chiacchiere e un calice di vino e insieme sorridiamo di quei tempi.

Tempi dove, quando frequentavi Scienze della comunicazione a Bologna, hai superato l’esame di semiotica col professor Umberto Eco e con una tesina sugli aspetti semiologici del fenomeno 883 che ti valse un 30 e lode. Con un altro caso di uscita dal gruppo…
La tesina l’ho scritta quando Jack Frusciante era pronto per andare in stampa. L’aspetto straordinario non è stato tanto farla sugli 883, ma vedere Eco che la leggeva ridendo sotto i baffi. Gli devo tanto, perché era il primo anno di Scienze della comunicazione a Bologna e lui era una stella dell’università. Eravamo pochi studenti, ci conosceva uno per uno, così quando uscì il romanzo in poche copie lui ne parlò nella rubrica La Bustina di Minerva sull’Espresso. Una pubblicità clamorosa e che ha permesso al libro di inanellare una serie di ristampe.

Insomma, ti ha ribadito due volte il 30 e lode.
Quando passo da Bologna nella strada di fronte alla facoltà di Scienze della comunicazione, c’è un grande murales dedicato a lui e ripeto sempre, a mezza voce: «Ciao prof, grazie!».

Se qualcuno è arrivato a leggere questa intervista fino a qui potresti premiarlo facendo uno spoiler su Due e i protagonisti Alex e Aidi, no?
Sono due ragazzi di 18 e 17 anni, forzatamente lontani l’uno dall’altra per un anno scolastico, e tutto il libro ha a che fare con questa domanda: ma quando ci rivedremo le cose saranno ancora uguali a prima o no? È una parabola verso il momento in cui si ritroveranno.

Invece Enrico Brizzi il 20 novembre 2024 compirà 50 anni.
E non essendo una signora ne parlo con grande tranquillità.

Che cosa è cambiato in te da allora a differenza dei tuoi personaggi?
Che allora vivevo a Bologna e facevo le 4 di notte tutte le sere. Ora vivo sul Lago di Como, dove se ci avessi vissuto a 20 anni mi sarei sparato perché si va a letto troppo presto. Però sono molto contento di avere dei sentieri dietro casa, una bici pronta su una bella strada e il kayak attraccato per andare ogni tanto a pagaiare con Sara, la donna che amo. E mi sento più sereno, anche se credo che l’attitudine non cambi mai.

Se uno è punk lo rimane per sempre?
È ridicolo avere la cresta a 50 anni, ma nessuno in buona fede dimentica il posto da cui viene.

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