Se ancora pensate che il teatro sia una vecchia pratica del passato, ormai soppiantata dalla tv o dalle piattaforme streaming, allora non avete mai visto in scena Federica Fracassi. Non solo una delle attrici più talentuose della sua generazione, ma una artista che da anni ha scelto di intraprendere un percorso indipendente e originalissimo nel panorama del teatro di ricerca, votandosi alle scritture più visionarie, feroci e poetiche. Un vero pugno nello stomaco. Come nell’ultimo spettacolo che sta portando in scena, La febbre di Wallace Shawn, con regia di Veronica Cruciani: un monologo che propone una elaborata denuncia del capitalismo globale, con protagonista una donna benestante, consapevole di ogni paradosso della sua esistenza, mentre guarda indietro a una vita agiata resa possibile dalla povertà degli altri. E la malattia che la tormenta non è altro che il capitalismo stesso.
Formatasi giovanissima alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi, dove era stata bocciata per ben due volte, Fracassi si è rifatta una volta in scena vincendo una miriade di premi, fra i quali un Ubu come migliore attrice protagonista ex aequo con Mariangela Melato, e anche quest’anno si è ripetuta con Le Maschere del Teatro Italiano (ancora come miglior attrice). Impegnatissima come mai prima d’ora, nonostante la pandemia, ci ha spiegato perché non si sente per nulla trascurata dalle istituzioni («il problema principale è che non conoscono il teatro») e che la sua ambizione non è essere considerata soltanto una brava attrice, ma semmai «una vera rockstar» del teatro italiano.
Federica, negli ultimi anni hai collezionato molti premi, ma è vero che agli esordi sei stata bocciata due volte alla scuola di teatro?
Eh sì, è proprio così. Sono stati momenti che mi hanno insegnato l’unicità dei percorsi di ognuno. E la mia storia penso possa essere da stimolo per qualunque giovane che vuole intraprendere un percorso artistico di solito considerato molto difficile. Ognuno ha le sue tappe. Io ero molto timida, non venivo da una famiglia che frequentava il teatro. Ci sono arrivata dopo aver studiato danza perché mi piaceva il rapporto con il pubblico. Adesso, pensando a quegli anni, ricordo quanto ero giovane quando sono entrata alla Paolo Grassi. Avevo solo 19 anni, mi mancavano sia gli strumenti emotivi che di esperienza, così come una visione da spettatrice. Invece è importante formarsi un proprio gusto e confrontarsi con i futuri colleghi per capire questa forma d’arte così sfaccettata.
I premi sono stati poi una rivincita?
No, anche perché la prima bocciatura è stata un po’ politica. Diversi insegnamenti erano saltati e noi eravamo in una fase da “duri e puri”. Dopo la seconda mi hanno richiamata consigliandomi di iscrivermi al corso di regia, perché secondo loro sarei stata più portata. Ma nel frattempo avevo iniziato a lavorare e volevo fortemente fare l’attrice. Per cui mi hanno lasciata andare nel mondo.
Hai dichiarato che per te “fare teatro è un atto d’amore”. Cosa significa?
È un atto d’amore perché, come nell’amore, è una costruzione continua. Lo cantava anche Ivano Fossati in La costruzione di un amore. Bisogna continuamente mettersi di fronte all’altro, chiedersi che cosa gli stiamo dando. Con lo spettatore cerco di farlo sempre. Dalla scelta dei testi a quella dei registri e dei compagni di lavoro. Non bisogna dimenticare che anche dietro un monologo c’è una squadra. E poi non bisogna avere certezze granitiche, stupirsi, mettersi in gioco, lavorare sulla propria fragilità, i propri limiti, ciò che non funziona, e cercare di illuminare i propri lati bui. Si dice “stare al presente”, cioè essere aperti alle suggestioni.
Nel 2011 hai meritato il Premio Ubu come attrice protagonista per Hilda e Incendi ex aequo con Mariangela Melato e hai dichiarato: «Per giorni non sono riuscita a dire a nessuno che avevo vinto. Mi sembrava troppo».
È vero, non riuscivo a dirlo. In quel momento mi sembrava esagerato, poi con la Melato… È stato enorme perché fino a quel momento avevo fatto tantissimo teatro con il Teatro i, il mio gruppo aperto a Milano, ma era un percorso in divenire. Quindi ha rappresentato un doppio premio, come a dire: anche la vostra strada, impervia e unica, ha un senso. Non è facile raggiungere certi risultati senza alle spalle grandi produzioni. E quando accade di premiare un gruppo di nicchia vuol dire che il suo lavoro sta dicendo qualcosa, per cui mi ha dato ancora più carica.
Poi negli anni hai ricevuto altri premi, fino a quello recente Le Maschere del Teatro Italiano di quest’anno come miglior attrice protagonista nello spettacolo Le sedie di Eugène Ionesco. Ma non ti è mancato neppure il cinema. Rispetto al teatro come ti ha arricchito?
Possono essere le due facce della stessa medaglia. A me piacerebbe farne di più di cinema, perché questi due vasi comunicanti mi arricchiscono. Al cinema puoi lavorare sulle piccole sfumature dell’anima, mentre a teatro è tutto più macroscopico, non c’è il primo piano. Quindi con la macchina da presa si lavora maggiormente sulla sottigliezza delle emozioni. E poi ho avuto la possibilità di lavorare con grandi registi come Marco Bellocchio (Bella addormentata e Sangue del mio sangue, ndr), che se me lo avessero detto prima non ci avrei mai creduto. È un maestro e mi fa molto ridere con la sua particolare ironia. Così come è stato un onore lavorare con Virzì (Il capitale umano, ndr) o Diritti (Un giorno devi andare, ndr). Sono stati tutti molto importanti per la mia crescita.
Se Federica Fracassi fosse un genere musicale, quale sarebbe?
Il mio modello di attrice è sempre stato quello aderente alla rockstar in musica. In questo senso mi affascina l’unicità, il fatto che lo spettatore associ solo a te una voce e il saper interpretare qualunque cosa con uno stile riconoscibile.
Come hai vissuto i teatri chiusi per lungo tempo a causa della pandemia?
Non mi sono abbattuta. Senza capire bene dove stessi andando, ho continuato a fare le mie camminate intorno al palazzo, a leggere e a progettare. Con un’ansia che non veniva tanto dalla pandemia, quanto sempre rispetto al teatro. Fuori da questo contesto, più che per il virus, ho preoccupazione verso “la malattia” del nostro pianeta, perché in generale credo che abbia preso una brutta china. Su questo quasi mi arrendo, ma questa apparente arrendevolezza provo a metterla in luce con il teatro. Ho continuato a lavorare e sono fortunata, perché ho incontrato compagni di viaggio straordinari e sono impegnata in quattro-cinque produzioni, non mi era mai successo prima.
Ti sei sentita trascurata dalle istituzioni, come hanno denunciato altri tuoi colleghi?
La crisi del teatro era pre-pandemica. E ora per i più piccoli, come noi con il Teatro i, sarà sempre più difficile tenere aperte le sale, mentre tanti attori non sono tornati a lavorare. Ma il problema maggiore è che le istituzioni non hanno mai conosciuto veramente il teatro, purtroppo. Non che non lo riconoscono, proprio non conoscono i suoi meccanismi. Adesso, per esempio, vige un sistema quantitativo, quasi algoritmico, che non favorisce i piccoli gruppi, le compagnie, così come i giovani che vogliono formarsi in un percorso indipendente. Fare una carriera come la mia oggi è difficilissimo. Il paragone è tra i grandi supermercati e le piccole botteghe artigiane. Non è che siamo stati trascurati, ma che il sistema non funzionava già prima.
A un giovane che ti dicesse “ma tanto il teatro è noioso”, cosa consiglieresti?
Gli farei una lista di spettacoli che ritengo assolutamente vitali e di cui potrebbe innamorarsi. Quando accade che i giovani si avvicinano al teatro ne sono entusiasti. Dopo La monaca di Monza di Giovanni Testori, quelli che si fermavano erano soprattutto ragazzi e ragazze. Il più è arrivare a farli sedere. Per cui a quel giovane direi: facciamo una scommessa, io ti do cinque consigli e poi mi dici cosa ne pensi, ok? Magari gliene piacerà solo uno, però qualcosa che lo colpirebbe c’è sicuramente. E quando ti innamori del teatro non lo dimentichi più. Poi è vero che ci sono in giro anche un sacco di cose noiosissime e fatte male e se fosse per me non dovrebbero proprio esistere.
Allora veniamo al tuo spettacolo La febbre, che ci sentiamo di consigliare ai giovani e non solo. Un’opera molto forte di denuncia verso il capitalismo e le iniquità che crea nel mondo.
È molto attuale, perché porta a interrogarsi su come i propri privilegi siano frutto della povertà di altri. La protagonista è una donna newyorkese e progressista, non un personaggio negativo, ma inizia a capire che una vita di quel livello dipende da tante altre persone che non hanno da mangiare. Una condizione che viviamo tutti con una sperequazione delle risorse enorme, la crescita del potere della finanza, della tecnologia in mano a pochi e i poveri che sono sempre più poveri. E noi ci lamentiamo, ma in realtà non li vediamo. Infatti, la vera domanda spiazzante è questa: tu hai degli amici poveri? È difficile, perché frequentiamo normalmente soltanto i nostri “simili”.
Per lanciare questi messaggi, inoltre, compi anche uno sforzo performativo: in scena sei nuda, in una vasca colma d’acqua, in un bagno in pendenza. Tutto porta all’instabilità.
Sì, con la regista Veronica Cruciani e la scenografa Paola Villani abbiamo puntato sullo squilibrio, su questo scivolare continuo, con le parole che si fanno via via più sdrucciolevoli. Poi lei ha la febbre, sta male e si trova in un Paese povero e tutto ciò la porta a farsi certe domande e a mettersi in discussione. Lo spettacolo ha due modalità. La prima frontale, in cui vado verso il pubblico quasi come nella stand-up comedy. Nella seconda entro in una dimensione allucinatoria in cui nella vasca cerco di lavarmi via le menzogne mettendomi a nudo, ma più di tanto non sarà possibile.
Hai qualche rimpianto legato alla tua carriera?
Uno di quando ero giovanissima. Un seminario saltato con Thierry Salmon, uno dei miei registi preferiti. Non riuscii a partecipare e poco dopo lui ebbe un incidente che lo portò via. Mi ha segnato tanto questo mancato incontro, oltre a sentire la mancanza del suo sguardo sul teatro. Più recentemente Emma Dante mi aveva chiesto di essere protagonista di un suo spettacolo e, avendo già altri impegni, non ho potuto accettare. Ma prima o poi mi farebbe piacere lavorare con lei.
E guardando al futuro, un sogno nel cassetto?
Il cinema, perché mi piacerebbe avere dei ruoli più ampi per mettermi alla prova e crescere anche in quel campo. Nel teatro, invece, ho avuto la fortuna di lavorare con registri bravissimi, per cui vorrei continuare con loro e magari con altri giovani che stimo, come Leonardo Lidi, Fabio Condemi e Silvia Costa. Chissà, magari con qualcuno di loro avrò la fortuna di lavorare.
Il passaggio dal teatro al cinema non arriva mai troppo tardi, Toni Servillo lo insegna…
Proprio così, come ci ha insegnato a non basarsi su troppe sicurezze, lanciandosi in rischi con persone anche più giovani o con professionisti con i quali non hai mai lavorato. C’è sempre una piccola paura a cambiare, non tutte le ciambelle riescono col buco, e il tema della scelta per me è sempre stato molto ossessionante, però non bisogna dimenticare che rischiando si viene ripagati.