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Franco Branciaroli: «Il teatro di oggi? Reddito di cittadinanza per attori senza cultura»

Il re (letteralmente) del teatro italiano parla della ‘Carne tonda’, il suo primo romanzo diventato un caso letterario: «Ho l’illusione di essere Dostoevskij». E della scena «amatoriale» di oggi. Di Carmelo Bene e Michelangelo Antonioni. Di sesso e di morte. Un’intervista fiume (preparatevi). Con una stoccata a Sorrentino (e a Napoli…)

Foto: Andrea Angelucci

Gli attori si dividono in due categorie: chi sa fare il re e chi non sa fare il re. Franco Branciaroli, il re, sa farlo eccome. E, arrivato a 75 anni, ha scoperto di essere anche uno scrittore. Sembra un dettaglio da poco, in un’epoca in cui quasi tutti possono vantare di aver scritto un libro. Invece il suo romanzo La carne tonda (Aragno) ha rappresentato un vero e proprio caso letterario, uscito chissà come – ma ce lo spiegherà lui stesso – dalla penna di uno che prima di allora non aveva mai scritto nulla se non «qualche commediola», a detta sua. E così, mentre si sta preparando per tornare sul palco, dove il 1° luglio sarà protagonista del Mercante di Venezia, spettacolo d’apertura del Festival Shakespeariano di Verona, lo abbiamo raggiunto per cercare di capire com’è avvenuto il miracolo. Ci eravamo già incontrati nel gennaio scorso, quando con Umberto Orsini portò in scena al Piccolo di Milano l’opera Pour un oui ou pour un non, ma quello era un Branciaroli diverso: più schivo, ombroso, a tratti altero. Quello che invece mi trovo di fronte ora è tutto il contrario: entusiasta, solare e decisamente ciarliero. Mi attende in via Palermo, all’altezza dell’edicola (e se leggerete fino alla fine capirete che non è un dettaglio da poco) e mi invita a salire nel suo appartamento milanese, semplice ma funzionale: una bella libreria stracolma, un comodo terrazzo, pochi fronzoli e soprattutto un soggiorno luminosissimo grazie a una ampia vetrata.

Ma inaspettatamente si dirige in camera, mi allunga la sedia dello scrittoio – dove starò seduto per oltre due ore ad ascoltarlo – e per l’intervista decide di sdraiarsi a letto. Come una seduta dallo psicologo. E, visto il risultato, alla fine non ci andrà tanto distante. L’inconsueta posizione, infatti, mi permetterà di ottenere l’effetto sperato. Perché Branciaroli ripercorrerà tutta la sua vita, privata e artistica, senza freni. Dall’infanzia da “bambino di campo” tra le risaie di Milano all’adolescenza nella Torino delle proteste operaie dove lui, a differenza dei colleghi artisti, non parteciperà a nessun tipo di impegno civile: «Li trovavo inautentici e noiosi». Ricorderà Carmelo Bene («ho conosciuto quello vero»), Gassman, Tognazzi e Villaggio («troppo costosi per regalare ore di battute in tv») e passerà in rassegna il teatro odierno («al 90 per cento amatoriale») dove i giovani attori «sfruttati come cani», pagati con una sorta di «reddito di cittadinanza», ne escono ben presto «da barboni come quando sono entrati» senza neanche la consolazione di denaro e cultura, come invece capitava a quelli della sua generazione. Non se la passa meglio il cinema, verso il quale riserverà ben più di una invettiva: «Dopo Antonioni, com’è possibile sia uscito quello che ci propinano oggi?». E non sarà tenero neppure verso Paolo Sorrentino: «Dicono abbia delle scene alla Fellini. Bene, allora perché devo andare a vedere uno che sembra ma non lo è?». Ma le sue attenzioni, più che al teatro e al cinema, oggi sono tutte rivolte al romanzo che gli ha cambiato la vita: «Sento il sapore della libertà e, da quando è uscito, ho l’illusione di essere Dostoevskij».

Qual è il primo ricordo di Franco Branciaroli bambino?
Ho avuto un’infanzia molto bella. Non passata come tanti in città tra quattro mura. Il ricordo più sconvolgente è l’incendio. A casa usavamo la stufa, un giorno mia madre era fuori e io ero solo. Avrò avuto circa sei anni. Ho provato ad accenderla con la legna e mi è venuta la malaugurata idea di usare l’alcol, che però è finito sulle tende. Mi sono ritrovato in mezzo al fuoco e, non so come, ho preso una pentola e mi è andata bene. Ho lanciato l’acqua e si è spento al primo colpo.

Avremmo potuto perdere anzitempo un protagonista del teatro italiano.
È stata davvero la mano di Dio. Se avessi sbagliato il colpo, sarebbe stato un disastro. Non sarei morto, perché avevo la prontezza di scappare, in fondo ero un “ragazzo di campo”, non di strada, ma sarebbe stato un danno enorme perdere la casa, che era una abitazione modesta pagata da mio padre in un condominio in affitto. Ma ho un altro ricordo drammatico…

Quale?
Sempre da piccolino sono finito sotto un’auto, una Topolino. Ho riportato un trauma cranico e ho patito un ricovero all’ospedale Carlo Besta di Milano lungo tre mesi. Il bello è che da allora non ho mai avuto un mal di testa in vita mia, non so neanche cosa possa essere un’emicrania.

Perché, pur essendo di Milano, ti sei definito un “ragazzo di campo”?
Perché è stata un’infanzia piacevolissima, dal giocare al dottore con le bambine ai bagni nei canali. Stavamo in via Novara, vicino a San Siro, che allora era in mezzo alle risaie. Intorno solo campi e cascine. Non sentivi la distanza con la città, perché era a pochi chilometri. Poi, quando avevo 15 anni, ci siamo trasferiti a Torino e l’adolescenza l’ho passata là.

E sei tornato a Milano solo grazie al teatro.
Sì, per frequentare la Scuola del Piccolo. Ho sempre affittato una casa, solo a 50 anni sono venuto ad abitare qui. Stranamente ho vissuto metà vita a Torino e metà vita a Milano. Abbastanza particolare come percorso. Di solito gli artisti hanno di mezzo anche Roma, io no.

Che città era Torino in quegli anni?
La città più importante d’Italia, soprattutto quando ci ho vissuto a cavallo del ’68. C’era la Fiat che affrontava il pieno delle lotte operaie. Ma a me non me ne fregava un cazzo.

Franco Branciaroli nel ‘Mercante di Venezia’ di William Shakespeare. Foto press

Perché questo disinteresse per l’impegno politico?
Non mi sono mai impegnato, pur seguendo e conoscendo tutto. Ricordo che ogni fine giornata i “rivoluzionari” tornavano a casa e li ascoltavo al bar. Ma non mi hanno mai attirato. Sentivo per istinto, già da come parlavano, che la questione non mi apparteneva. Mi facevano ridere, ma soprattutto percepivo una inautenticità spaventosa. Senza avere le capacità di analisi di adesso, sapevo che erano tutti dei piccolo borghesi, me lo diceva l’istinto. E non aderivo perché mi annoiavano.

Mentre si svolgevano le lotte operaie o le manifestazioni tu cosa facevi?
Appena li sentivo dire «prendiamo la parola perché i compagni dovranno adeguarsi alle direttive», io andavo al bar: «Scusi, mi dà un Campari, grazie». Poi scappavo nelle Langhe a mangiare e bere vino. La sera, quando tornavo, al GranBar di Torino li vedevo agghindati con eskimo, tascapane per le pietre e “scarpe da catastrofe”, mentre nella via di fianco avevano parcheggiato i loro macchinoni. Riassumevano la giornata e programmavano la successiva. Una farsa incredibile!

Invece molti altri artisti, anche del teatro, a quel tempo erano molto impegnati politicamente.
Tutti. Nacquero le cooperative teatrali, c’era una fortissima sindacalizzazione nelle compagnie, gli attori facevano gli scioperi. Non come oggi che sono sfruttati come cani senza nessuna tutela. Allora si tenevano assemblee, era tutto politicizzato. E per certi aspetti c’erano dei lati positivi.

Mentre oggi la situazione qual è?
Allora mai nessun teatro si sarebbe sognato di non pagare i riposi. Oggi invece non li pagano. Nessuno avrebbe fatto le prove a forfait, c’era il minimo sindacale. Eri trattato come un lavoratore, non come un disgraziato. Qualcosa di buono c’era, soprattutto rispetto alla situazione attuale.

Non ti sei mai impegnato neanche all’opposto, contro una certa egemonia della sinistra.
Non mi veniva proprio. Mi dicevano: «Ti aspettiamo all’assemblea?». Ma figurati, rispondevo, se vengo a sentire delle persone che parlano per ore di fila. Mi infondevano una noia pazzesca.

Carmelo Bene, con cui hai condiviso il palco, si è invece battuto contro quel corporativismo e l’assistenzialismo dello Stato verso il teatro.
Sì, ma c’era anche un po’ di ipocrisia in quell’atteggiamento. Tutti gli attori italiani sono finanziati dallo Stato, e anche lui lo era. Lo scrisse Aldo Busi e fecero una litigata pazzesca. Non esiste la compagnia privata, perché in realtà alla fine prendi i rientri ministeriali. Lui aveva quell’atteggiamento di stare contro, ma dall’altra parte, cioè da destra, un certo linguaggio da cooperativa di teatro impegnato per provare a giocare la carta dell’arte libera.

Com’era Carmelo Bene fuori dalla scena?
C’erano due Carmelo. Nella vita privata era un gentiluomo del Sud, mentre in pubblico era un personaggio che assumeva quel modo di fare guascone. Abbiamo fatto insieme uno spettacolo memorabile, il Faust Marlowe Burlesque, solo noi due in scena con la regia di Aldo Trionfo. In simbiosi per due stagioni e forse lo conosco meglio di tutti, a parte la moglie. Da allora non ha più fatto spettacoli con la regia di altri. Aveva dieci anni più di me, quindi era un fratello maggiore. Siccome amo molto gli aneddoti, con lui era un vero spasso. Per Carmelo era importante avere qualcuno che resistesse ad ascoltarlo tutta la notte, e per notte intendo fino all’alba.

Di cosa parlavate?
Mi ha fatto conoscere tutto un mondo che non avrei mai conosciuto, dalla Compagnia D’Origlia-Palmi a Ennio Flaiano, come se li avessi vissuti direttamente. Finita la prima stagione andai in vacanza a casa sua a Santa Cesarea Terme insieme ai genitori e alla sorella. Aveva ancora rapporti con la famiglia, e forse quello era il Carmelo Bene più vero.

Qual era il suo più grande talento a teatro?
Anche se oggi sembrano discorsi marziani, perché il teatro non c’è più, tutto il mondo dell’attore di teatro sta in bocca. Quando sei in sala credi di guardare la faccia, ma non è vero, guardi la bocca. Il teatro è la bocca. Si tratta di voce e lavorìo sulla sintassi. Ci sono attori che hanno una voce molto caratterizzata, come quelle di Carmelo Bene e di Vittorio Gassman, oppure voci come quelle di Salvo Randone, che lavorano sulla sintassi e sullo stiramento delle vocali. Poi c’è il rapporto che hai con l’autoironia. Gassman ce l’aveva molto più di Bene, infatti te lo puoi immaginare Carmelo interpretare Il sorpasso? Non credo. Quindi la sua caratteristica principale era la vocalità.

E un difetto?
Era tutto un difetto! Guai se non hai un difetto, diceva lui stesso. Quel suo modo di recitare, un po’ nasale, spazza via l’interpretazione. Qualunque personaggio era caratterizzato dalla sua vocalità. Era tale la caratterizzazione che escludeva l’introspezione interpretativa all’americana, infatti il loro valore è l’irriconoscibilità da un ruolo all’altro. Al cinema sarebbe un altro discorso, ma a teatro non aveva difetti, ma semmai esagerazioni che diventano arte.

Come vivevi le sue polemiche con altri colleghi del teatro. Per esempio con Giorgio Albertazzi: arrivò persino a dire di aver chiamato il suo cane lupo “Albertazzi”.
Ci giocava, e Albertazzi non rispose neanche male, dicendo che rispettava talmente tanto i cani da non poterli chiamare Carmelo. Ma lui non era uno dalla battuta pronta, si preparava. Tanto che la botta micidiale gliela diede Roberto D’Agostino al Maurizio Costanzo Show: «Se lei non esiste, allora perché si tinge i capelli?». Per rispondere ci voleva un genio della battuta come Oscar Wilde o Woody Allen, mentre lui rimase paralizzato alcuni secondi e poi si arrangiò con la storia di Maldoror… Ma non ebbe la contro-frustata. Lui era un polemico, non un battutaro.

Eppure, sui social Carmelo Bene è ancora molto condiviso.
Perché rispetto agli altri attori si è prestato molto di più alle polemiche televisive. Gassman o Tognazzi non sono mai andati al Costanzo Show per varie puntate a confrontarsi con chiunque. Aveva paradossalmente più impegno sociale lui di tanti altri. E quello conta sui social. Loro non ci andavano perché valevano di più economicamente. Gassman o Tognazzi per partecipare a quelle trasmissioni volevano essere pagati. Sono cose che la gente non conosce, ma in realtà era così.

Una strategia di marketing ante litteram.
È la legge dello star system. Se vali milioni di euro non vai a tante puntate, perché non c’è budget che ti possa pagare. Quelle rare volte che Paolo Villaggio andava a queste trasmissioni era uno spettacolo, come quando diceva a Bruno Vespa «vede geometra…». Quando era in auge non avrebbe mai partecipato per regalare un’ora e mezza di battute. Per lui era come girare un film.

E Franco Branciaroli dove si collocava nello star system?
Da nessuna parte. Non ho mai avuto questa grinta. È un dono di natura. Devi avere una voglia di farcela che a me manca. Mi bastava quello che avevo. Molti brigavano per partecipare, io invece quando mi invitavano mi impacciavo. Non so neanche perché ho fatto il teatro.

C’è stato un momento in cui hai capito di essere diventato un grande attore?
È come quando vai al bar tra amici, parla uno e tutti lo ascoltano. Perché? Lì comincia il mistero del linguaggio. A fare l’attore si comincia di solito perché sei bello, oppure perché l’ha fatto Marlon Brando e lo vuoi emulare, o perché non hai voglia di lavorare. Ma un giorno ti accorgi, e non c’è bisogno che te lo dicano, che stai bene in scena. Non tutti ci stanno bene, alcuni attori famosi hanno forti nevrosi. Lo capisci quando ti diverti, senti che stai giocando. Ma soprattutto che agganci.

Cioè che arrivi al pubblico?
Il pubblico in sé non conta nulla, sennò dovremmo spiegarci perché applaudono me e anche un altro che non sa recitare. C’è come uno spettatore ideale, quello è il pubblico, ma che ti costruisci tu, con i tuoi gusti, in realtà sei tu, e ti accorgi che lo agganci. È un dono. Certo, devi avere dei mezzi a tua disposizione, come insegnava Luca Ronconi. I mezzi sono i denti, il palato e la vocalità. Per il resto, la tua domanda non ha una risposta, se non un boh.

I fan contano qualcosa nel capire di avercela fatta?
Macché, non faccio parte di questo sistema che è emerso in tutta la sua potenza. L’attore come lo intendevo io era un privilegio. Ti pagavano bene, ti divertivi e non facevi niente. E se non avevi la fregola di diventare Dio ti toglievi anche questa rottura di coglioni. Ho vissuto fino a 75 anni e ce l’ho fatta. Ma oggi una carriera come la mia è inconcepibile. Le paghe non sono più quelle di prima. E poi manca la cultura, visto che eri costretto a imparare bene o male a memoria Medea. Dai e dai, dopo ottanta qualcosa impari. Ma oggi non ci sono più né soldi né cultura.

C’è qualcosa che ti interessa nel teatro attuale?
Ma cosa fanno di interessante? Hanno tutti titoli in inglese, ma realizzati da italiani. Un classico è introvabile, e se lo trovi è fatto malissimo. Un attore oggi impara a memoria delle puttanate, che cultura può avere? Praticamente esce da questo mestiere da barbone come quando è entrato.

In una precedente intervista mi hai detto che il teatro oggi non è professionale.
È assolutamente amatoriale, lo ribadisco. È come se lo Stato avesse trasformato una questione di alta specializzazione in un parcheggio giovanile. Danno un po’ di soldi a questi disgraziati di giovani, come se i teatri fossero dei centri sociali. Allestiscono degli spettacoletti, obblighiamo i teatri stabili a farne trenta di merda, invece di due belli, e ci lavorano sette attori al posto di quaranta. Hanno nazionalizzato il reddito di cittadinanza. Il Ministero dello spettacolo lo aveva già scoperto prima del Movimento 5 Stelle. E mica triplicano i finanziamenti. Sembra che lavorino tanti giovani, questi si illudono e poi smettono quasi tutti. Li parcheggiano per un po’ con l’argent de poche, una sorta di paghetta, e quando diventano grandi se lo pigliano in culo senza soldi, pensione e cultura. Noi eravamo dei privilegiati: giovani, pagatissimi e di grande cultura.

Facendo due conti, quanto si guadagnava prima?
Un attore di vent’anni negli anni ’70 andava a dormire negli alberghi quattro stelle e due volte al giorno mangiava al ristorante, tutto spesato. La paga minima era vagamente di 300 euro al giorno. Oggi ti va bene se prendi 70-80 euro al giorno, che ti mangi con il cambio in euro. Senza parlare degli attori protagonisti, che prendevano molti soldi. I teatri facevano uno-due spettacoli, con Shakespeare o Goldoni. Oggi è tutto un proliferare di monologhi o dialoghi pessimi. Una volta una compagnia minima era composta da quindici elementi. Ora sarebbe un avvenimento. E se anche ne vedi quindici tutti insieme sono degli allievi, prima erano attori veri. Per cui eravamo una élite.

Hai detto: «Gli attori si dividono in due categorie: chi sa fare i re e chi non sa fare i re».
Vuol dire che alcuni attori, che prima venivano classificati come “borghesi”, non li vedevi mai cimentarsi con Shakespeare. Avevano una impossibilità vocale ad affrontare un testo che inizia così: “Ora, l’inverno del nostro scontento…”. Romolo Valli, per esempio, non si è mai permesso di avvicinarsi a un Re Lear, pur avendo notorietà ed età per farlo. Invece i suoi personaggi erano quelli con la mano in tasca. Shakespeare e le tragedie greche per lui erano un tabù. Al massimo poteva arrivare a Molière, cioè alle opere dove i personaggi parlano come nella vita di tutti i giorni. Appena il linguaggio esce da quello, lì ci vuole chi sa fare il re.

E hai aggiunto: «Il re è il teatro».
Il teatro alto è il re, sicuramente, perché è l’unica persona la cui parola diventa subito azione. Non è mediata. Si dice, giustamente, che il grande teatro è finito con la democrazia. Non la regge, perché non può avere personaggi la cui parola diventa immediatamente azione. Se il re ti condanna a morte tu muori, non è che si scherza. La democrazia deve avere un tribunale, l’accusa, la difesa… allora per quello c’è il teatro borghese, che nella storia non è certo paragonabile a quello precedente.

Franco Branciaroli nel ruolo di Enrico IV. Foto: Favretto Reporter

Oltre al teatro, guardi film o serie tv?
Non guardo nulla. Se non quando mi segnalano un bel film. Ma sono pochissimi.

Non trovi niente in grado di appassionarti?
Il cinema italiano è ridicolo, fa sempre parte dell’amatoriale. Lo disse anche Roman Polański: «È un cinema festivo». Ha ragione. Niente a che vedere con il cinema coreano o quello americano e inglese. Sarebbe ora di finirla di fare tutti i film su Napoli…

Ti riferisci a Paolo Sorrentino?
Ma sì, dai, ci siamo rotti! È come se l’Italia fosse solo questa banda di napoletani.

Fai attenzione, perché a Napoli sono particolarmente permalosi.
Ma non me ne fotte un cazzo! Dovete sapere una cosa. La mia generazione, nata nel ’47 con ancora l’odore della pirite nell’aria, ha avuto per cultura popolare quella americana. Conoscono molto meglio la loro rispetto a quella italiana. Non so chi sia Gaetano Salvemini, ma so tutto di Benjamin Franklin. E la mia cultura si è formata al cinema. Dai sei anni sono andato tutti i giorni al cinema, vedevo tre film al giorno. Senza scegliere quale, perché non ne sbagliavi uno. I film italiani, rispetto a quelli americani, erano già allora più difficili da capire per la gente.

Come mai?
Quando vedevo i film dei neorealisti non capivo niente, mentre i film americani li capivo al volo. Loro sì che hanno sempre fatto cinema popolare. Del cinema so tutto e nessun film di adesso mi può tramortire. Anche uno bravissimo di oggi non mi sturba. Nonostante questo, il cinema italiano di oggi è irriconoscibile. Cinematograficamente parlando abbiamo avuto qualcosa di simile agli elisabettiani, non solo Federico Fellini e Michelangelo Antonioni, ma anche quelli “andanti” come Germi. Dove sono finiti? Com’è possibile sia uscito quello che ci propinano oggi?

Non posso credere che non ci siano nessuno che almeno lontanamente apprezzi.
Non è possibile, perché io sono stato martirizzato dal famoso specifico filmico. Come diceva Antonioni, con cui peraltro ho fatto un film, «la questione della macchina da presa è una questione morale». Per cui, appena vedo come inquadrano li sgamo. È difficile che uno che inquadra male abbia una bella storia, e anche se ce l’ha la racconta male. Questa gente non sa fare il cinema.

Non mi dirai che Paolo Sorrentino inquadra male?
È roba banale, di repertorio. Dicono: «Ha delle scene alla Fellini». Va bene, allora perché devo andare a vedere uno che sembra Fellini ma non lo è?

Tu hai girato anche cinque film con Tinto Brass.
Lui è l’ultimo regista di quella categoria. Se vedi La chiave, guarda le immagini. Sta filmando dei culi, eh, non il mantello di Ludwig… ma guarda come li filma. Io c’ero! Usava tre macchine per filmare dei culi usando metri e metri di pellicola paragonabili a quelli che usava Luchino Visconti. Cosa te ne frega, mi dirai tu. E no! Perché, se fossero stati girati male, non avrebbero incassato. Ma figurati, mi potresti rispondere, è la figa che conta. No, la figa c’è in un sacco di film. Invece in quelli lo spettatore sente che c’è una narrativa filmica, non letteraria. Poche parole e tante immagini ben realizzate. I film di oggi sono pieni di parole e con sei-sette immagini.

Dopo quei film, non ti sono arrivate altre offerte?
Sì, ma non le ricordo neanche e non le accettai perché non sono bravo con il cinema. Il perché me lo spiegò sempre Antonioni: «Il cinema italiano, in fondo, è teatro filmato». Infatti, tutte le commedie all’italiana vengono dall’avanspettacolo. E aggiunse: «Gli italiani non sono capaci di fare gli attori di cinema. Quando si dice che agli americani puoi vendere la fontana di Trevi è vero, ma quell’ingenuità davanti alla macchina da presa li rende dei principi. Perché non hanno l’autocoscienza». In pratica, voleva dire che noi latini abbiamo la coscienza sporca. Di fronte alla macchina ci auto-giudichiamo e quindi siamo morti. I popoli anglosassoni invece sono come dei bambini. Poi anche il cinema è tecnica. Alain Delon, che era un cane tremendo, dopo 45 film qualcosa ha imparato.

Se ti arrivasse adesso un’offerta dal cinema?
Probabilmente la accetterei. Ma non sono a Roma, sono a Milano. Se avessi voluto fare il cinema, mi sarei trasferito tempo fa. Mentre a teatro non ho paura di nulla, perché sento, come ti dicevo, che là sopra sto bene, di fronte alla macchina da presa non sto bene. Mi irrigidisco, mi auto-guardo, e quando mi rivedo nei film che ho fatto è evidente che non sono io. Mi viene persino la cervicale, mi si irrigidisce il collo, non so dove mettere le mani. Non è il mio mondo. Ma sai qual è il punto?

Dimmi.
Che non mi offre niente nessuno perché ormai sono troppo vecchio. Solo che già allora avevo capito che era pericoloso mollare il teatro dove mi sentivo sicuro, per una strada dove ero insicuro. E poi fare il cinema è faticosissimo. Ti devi alzare alle sei del mattino e stare tutto il giorno sul set. Le offerte, poi, mica piovono dal cielo, devi stare dentro al giro. Non lo dico per snobberia. Quando ho fatto il film con Antonioni era più interessante stare con lui a mangiare che davanti alla macchina da presa. Mi raccontava delle storie stupende.

Nel Mistero di Oberwald recitavi al fianco di Monica Vitti.
Una tigre con i suoi artigli.

Non era ingenua?
Quando arrivi fin lassù non sei ingenuo, non ci sono dubbi.

Chi sono state le persone più importanti per la tua carriera?
Diverse persone straordinarie con dei difetti terribili, come hanno anche i santi. Sicuramente Ronconi, Antonioni, Testori e Tinto Brass. Loro erano maestri. Antonioni faceva spesso questa battuta: «Oggi nessuno è più maestro in niente». Ed eravamo negli anni ’80. È questo il dramma della nostra epoca. Oggi c’è in giro gente che non sai cosa sa fare. A quel tempo, se fosse uscito un film come quelli attuali, sarebbe stato sbertucciato e il regista si sarebbe scordato il secondo. Adesso arriva al sesto. Come i libri. Ed è il motivo per cui viene accettata la mediocrità.

Stiamo arrivando al punto di svolta della tua vita, il libro La carne tonda che hai pubblicato di recente. Ma prima di parlarne, come ti spieghi il decadimento della cultura?
Dal punto di vista dei libri, solo negli anni ’70 la maggior parte di quelli che escono ora non li avrebbero neanche stampati, mentre adesso vanno in ristampa. Questa è l’epoca dove “nessuno è più maestro in niente”. Probabilmente è anche una questione di bilanci.

Cosa intendi?
Che una volta i bilanci economici erano molto più piccoli, chi consumava arte erano in pochi. Ci si poteva permettere di farla alta, a differenza di adesso che tutti la consumano e quindi devi abbassarla. È una regola americana arrivata dopo la Pop Art. Abbassi il livello, tutti capiscono facilmente e quindi vendi di più. Come sempre la democrazia spinta, inevitabilmente, annacqua tutto. Non è così grave, perché comunque nessuno ti impedisce di leggere James Joyce. Io ho scritto un libro e per me è stato meraviglioso. Ho provato per la prima volta una libertà mostruosa!

A cosa è dovuta questa libertà?
Se devo scrivere un libro prendo una risma di fogli e quattro biro e con 20 euro ho lo spettacolo. Se invece voglio fare un Macbeth devo trovare il direttore che accetta quanto costa, gli attori che lavorino a un determinato prezzo e via così. È tutta una mediazione. Il libro invece no.

Quando hai deciso di provare questa sfida?
È stato grazie al virus. Ha fatto anche del bene! In realtà durante la pandemia ho patito molto, perché a casa avevo una moglie con la sclerosi multipla e sua madre di 80 anni, oltre a me che ne ho più di 70: se entrava il primo Covid, faceva una strage. Ho trovato una badante pazza che, poveraccia, ha accettato di non uscire mai e ha vissuto con noi, mentre un’altra ci portava i viveri fuori dalla porta. Una vita da signori, certo, potevo anche andare a fare qualche passeggiata lungo il Ticino, dove abito, ma una tristezza… mi sono venute le palpitazioni.

Addirittura! E ti sei curato scrivendo?
Prima sono andato dal dottore, sentivo come un chiodo nel petto, anche di notte. Voleva darmi delle pastiglie per dormire, però mi ha consigliato di resistere. Allora ho resistito, non ti dico che incubi terribili… un giorno ero a letto e mi son detto: non posso stare 13-14 ore al giorno a guardare il soffitto. Sai che ti dico? Mi scrivo un romanzo! (scoppia in una fragorosa risata, nda) Quando ho finito mi son chiesto: e adesso cosa ci faccio? E lì ho fatto il primo errore…

Cioè?
Ho chiamato un amico scrittore e gli ho chiesto di leggerlo. Lui ha accettato e mi ha assicurato che lo avrebbe mandato a un grosso editore. Passa un mese, niente. Passano due mesi, niente. L’ho chiamato e si è inventato delle scuse: «Ti avrei chiamato… l’ho mandato all’editore ma ancora niente.». Ma tu cosa ne pensi? Gli ho chiesto. E lui: «Mah, non sono d’accordo con alcune cose, però usi bene la lingua». Per fortuna ho conosciuto uno che era in contatto con quell’editore.

E quindi?
Lui contatta l’editore e gli dice che non lo ha mai ricevuto.

Per cui lo scrittore ti aveva fregato.
Chiamo subito quello stronzo e via altre scuse.

La storia di come sei arrivato alla pubblicazione è avvincente tanto quanto il romanzo.
Dopo qualche giorno mi chiama un altro amico di Torino, dopo due chiacchiere mi fa: «Ma io conosco Aragno, che pubblica libri curatissimi. Gliene parlo». Mi han chiesto il pdf, non sapevo neanche cosa fosse. Riesco a mandarlo e dopo qualche giorno mi chiama direttamente Aragno: «Senta, le mie figlie dicono che il suo libro va bruciato. Invece io lo pubblico». Azzooo…

È diventato un caso letterario.
Tutto grazie a un episodio preciso. Un’altra amica mi dice di conoscere Paolo Di Stefano, il critico del Corriere della Sera, e che avrebbe provato a mandarglielo. Eh però, le dico, al più grande critico letterario non sarà troppo? Vabbè, vediamo. Una domenica mattina che ero sdraiato su questo stesso letto squilla il telefono: «Ciao, corri in edicola, perché è uscita una recensione pazzesca». Mi sono alzato di scatto, sono volato dall’edicolante qui all’angolo e quando l’ho letta a momenti svengo. Credevo fosse uno scherzo, vuoi che Di Stefano mi stia prendendo per il culo?

E invece la recensione era molto lusinghiera. Chissà che invidia gli altri scrittori.
Sì, però c’è un problema per loro che si chiama Paolo Di Stefano. È come dire Harold Bloom. Non credo che lui si rovini la reputazione per fare un piacere a me. Infatti ne è seguito un silenzio assordante. Dopo un po’ mi arriva un messaggio sul cellulare di un certo Massimiliano Parente. Mi sono informato su chi fosse e mi hanno detto: «Guarda che quello è uno stronzo pazzesco». Mi segnalava la sua recensione sul Giornale, ma anche quella era molto elogiativa.

Così, dopo essere un grande attore, ti sei scoperto anche grande scrittore.
Ecco, ora posso rispondere alla tua domanda “quando hai capito di essere diventato un grande attore?”. Io non avevo mai scritto niente, a parte qualche commediola teatrale. Quindi, com’è stato possibile che mi è uscita una lingua del genere? Perché nessuno ha parlato della trama. Quindi è lo stile che li ha colpiti. Ma come fa ad averlo uno che non ha mai scritto? Mi ci sono scervellato.

Non lasciarmi sulle spine.
Ti dicevo: quando parla uno lo ascolti e gli altri no. Evidentemente, le migliaia e migliaia di repliche con quei testi capolavoro dell’umanità… io non mi ricordo niente, ma il cervello sì. È questione di inconscio. Per cui, quando ho iniziato, è eruttato il vulcano. Se vedi i quaderni dove ho scritto non sono neanche corretti. Non ho mai buttato un foglio nel cestino, anche per pigrizia.

È stato definito un libro anche un po’ pornografico.
Per questo il nemico numero uno di quel libro sono le donne. Un’amica scrittrice dopo l’uscita è venuta a vedere un mio spettacolo e alla fine mi ha chiesto una dedica proprio sul romanzo. Però non mi ha detto nulla. Gliela faccio, ma resto col dubbio che non l’abbia letto. Quattro giorni dopo mi telefona e mi ringrazia ancora per la dedica, ma sul libro nulla… in pratica mi ha fatto capire in modo elegante che non le è piaciuto. Non è l’unica, ti faccio vedere una cosa…

Si alza di scatto: «Aspetta lì dove sei». Torna dopo qualche minuto con in mano un altro libro di qualche anno fa di una nota scrittrice ed editorialista: «Leggi la sua dedica». Che recita così: “A Franco Branciaroli, come ti avevo promesso quella sera davanti al Quirino”.

Non trovo collegamenti…
Me lo ha scritto anni fa, quando dopo un mio spettacolo mi fece intendere che avrebbe gradito una ciulatina, tanto per non girarci intorno. Mi ricordo di lei, scrive recensioni su un importante quotidiano, la chiamo e provo a mandarle il mio libro. Passano i giorni, niente. I mesi, e ancora niente. Tutte le donne che leggono questo libro non riescono ad apprezzarlo. Una amica mi ha detto: «Non è possibile, non capisci che è un modo di amare che alle donne di oggi fa ribrezzo?».

Nonostante questo, è stato selezionato al Campiello.
Non avrei mai potuto vincere, il presidente della giuria è Walter Veltroni e nel libro definisco “la latrina” invece che “la dottrina” comunista. E poi c’erano quattro donne in giuria. Però se lo sono dovuto leggere, anche se l’avranno chiuso dopo quattro pagine.

Ne parli con un entusiasmo che non hai nemmeno per il teatro.
Non c’è confronto. Qui senti il sapore della libertà. In teatro non la provi, perché reciti le parole di un altro o diretto da un regista. Questa è roba mia. A parte queste vanterie, che non ho vergogna a manifestare, è stata una esperienza straordinaria!

Ora la domanda è: continuerai a scrivere?
Potrei farne uno semplice, che parla di tutto quello che ho visto e vissuto a teatro. Ma sai che casino scoppierebbe? Invece mi piacerebbe scrivere una storia inventata che ho in mente, diventerebbe un romanzo modernissimo, tipo J.G. Ballard. Ti spiego la trama, ma non scriverla…

Mi racconta la trama, naturalmente recitando ogni parte stando sul letto che, per l’occasione, è diventato un piccolo palcoscenico, e posso dire che si tratta di una storia fantasmagorica, in grado di unire la realtà con il Metaverso. Ma non sarebbe giusto aggiungere altro.

Mi sembra di capire che, anche nella scrittura, scegliendo la strada più complessa non vuoi scendere a compromessi.
Ci mancherebbe che l’unica libertà che ho trovato adesso mi metto a venderla. Il teatro no, ma questo resterà. Tanti spettacoli non ci sono più. Dov’è finita la mia grandiosa Lolita? Il libro invece ci sarà sempre e per chissà quanti anni. Non lo scrivo per venderlo, lo faccio per me.

Lo scorso 27 maggio hai compiuto 75 anni, strano scoprirsi scrittori a questa età.
E ho scoperto una gioia che il teatro non mi poteva dare, perché è troppo metafisico, non puoi godere di te che sei bravo, diventa presunzione. Con la pagina scritta invece puoi giudicarti.

Ma come vivi il tempo che passa?
Sento l’angoscia della morte, non lo nascondo. Da giovane non l’avverti perché non ci pensi, non puoi pensarci perché non c’è. Ma quando arrivi a 75 anni la vedi. Se mi va di culo non posso pretendere più di cinque anni. Tra due natali siamo già a metà e diventa terribile. È quello che genera la depressione della vecchiaia. Tutti i vecchi sono depressi, perché questo rende vana ogni cosa, ciò che ti appresti a fare crolla. Ma il libro durerà, ho compreso la famosa gloria di Foscolo.

La più importante delle “illusioni” è la gloria, l’unico strumento di immortalità.
A scuola te la spiegano male, ma ora ho capito perché certi scrittori hanno continuato fino all’ultima ora. Se non avessi quel libro starei sul letto ad aspettare la morte. Mi dà una forza enorme. Certo, devi avere un riconoscimento, per questo ringrazierò sempre Paolo Di Stefano per la prima recensione. Da allora ho l’illusione di essere Dostoevskij ed è bellissimo.

Immagino che, come Foscolo, tu non abbia però il conforto della fede.
Quella mi manca. Mi piace il mondo cristiano, è stata una conquista enorme, anche perché quello greco era tremendo.

Per cui, come si fa ad accettare la nostra fine?
Ricordando che in fondo siamo sempre destinati alla solitudine, non c’è niente da fare. Dobbiamo essere nietzschiani anziché schopenhaueriani, e cioè accettare il dolore.

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