«Il fondatore del pensiero di destra in Italia è stato Dante Alighieri». Nelle scorse settimane la dichiarazione del Ministro della cultura Gennaro Sangiuliano ha suscitato polemiche.
Nel mentre un rocker come Giovanni Succi, il frontman dei Bachi da Pietra, condivideva sui suoi profili social la soddisfazione di aver presentato per la prima volta il suo spettacolo su Dante, L’arte del selfie nel Medioevo, davanti a delle scolaresche. Di qui l’idea di contattarlo per un commento alle parole di Sangiuliano. «Si tenga conto, però, che io ho scelto la strada del rock’n’roll e non il feudo del ministero della cultura», chiarisce Succi.
Affare fatto. Ma raccontaci un po’, che ci fa Succi su un palco a parlare di Dante?
Dopo la laurea in Lettere nel ’96, in storia della lingua italiana, ho scelto altre strade nella vita, ma non ho mai smesso di occuparmi delle passioni collaterali alla musica, cioè filologia e letteratura. Da anni ho anche diversi spettacoli letterari in repertorio e quello su Dante è uno di questi. Di recente, grazie alla proposta dello scrittore Nicholas Ciuferri, docente in un Istituto di Fano, ho debuttato nelle scuole, con formazione docenti e incontri coi ragazzi. Ciuferri aveva visto e apprezzato il mio spettacolo e ritenuto che potesse essere valido anche per dei pre-adolescenti. Normalmente mi rivolgo a un pubblico adulto, quindi l’ho edulcorato ad hoc in molte parti. Faticoso, ma decisamente appagante, spero di poter ripetere l’esperienza.
Perché Dante?
Dante l’ho frequentato molto, non ho ancora finito di approfondirlo e non penso si finisca mai. È una metafora quasi zen della vita, lo studio di Dante. Una specie di culto quotidiano che accomuna innumerevoli studiosi e studenti in Italia e nel mondo, che avranno riso di gusto alla baggianata di Sangiuliano. In effetti Dante ha fondato un sacco di cose! Però voglio essere positivo, sono convinto che il ministro l’abbia sparata grossa per attrarre l’attenzione mediatica su di sé o per vedere se eravamo attenti. Sarei stato curioso di sapere anche se secondo lui Dante era più della Lazio o della Roma… battute a parte, pure il titolo del mio spettacolo dantesco, L’arte del selfie nel Medioevo, è chiaramente una baggianata pensata per attirare l’attenzione. Ma io non faccio il ministro.
Perché questo titolo?
È chiaro che nel Medioevo non esisteva il selfie, ma anche il realismo e l’auto-rappresentazione nell’arte erano ancora specie di tabù. Si può indicare proprio in Dante il primo individuo che abbia osato infrangere quella e altre regole della propria epoca, puntando l’obiettivo su di sé, nella lingua del volgo, per scrivere un poema su sé stesso, in prima persona, intriso nel contempo di realismo e di misticismo, e di tutto lo scibile del suo tempo. Non abbiamo niente di paragonabile in Europa fino a quel momento; lo si dà per scontato, ma non lo è affatto. Non solo: Dante scrive la Commedia nei panni del signor nessuno, perché all’epoca non era “il Sommo”, era solo un tizio, esiliato all’estero (cioè fuori Firenze) perché condannato al rogo – eh sì, bei tempi! Non era aristocratico, ma si “selfava” da aristocratico!, e nemmeno un uomo di chiesa. Il che allora era strano: un uomo con una cultura così profonda, ma non un ecclesiastico. Dante inventa l’individuo e il mestiere di intellettuale laico. Dettagli che non sono dettagli, che sfuggono a chi non abbia approfondito la storia della letteratura e di quel periodo o a chi abbia studiato altro: se ti occupi di diritto e di economia, è ovvio che avventurandoti in altri campi rischi di dire sciocchezze da bar.
Tu perché hai scritto questo spettacolo?
Per presentare un Dante inedito al grande pubblico, quello delle Rime Petrose, e avere un alibi per smontare i luoghi comuni sul personaggio. Un Dante che ci viene tramandato travestito da puffo, un po’ sfigato, col pigiama rosso, la cuffia in testa… Una macchietta, e anche l’iconografia ha un suo perché, interessante da spiegare. Io lo faccio con uno spettacolo informale, a tratti anche comico, che diverte il pubblico. Perché ogni materia è come la pastasciutta: non è buona o cattiva, dipende da come la cucini, e io sono anni che cucino questa materia meglio che posso, ovunque mi si offra l’occasione.
Per arrivare sul palco a spiegare cosa?
Come mai diciamo “sommo”, come mai “padre della lingua”. Perché le migliori menti di ogni generazione videro in lui il più grande poeta di sempre. Sottolineando poi che Dante non è vissuto all’epoca dei cicisbei, ma tra la fine del ‘200 e gli inizi del ‘300, un’epoca che non possiamo neanche immaginare, in termini di crudezza, nemmeno da un punto di vista giuridico, per rimanere nell’ambito delle competenze del ministro. Un’epoca in cui si si potevano torturare gli avversari in piazza e se prendevi la torre di un altro con la forza diventava tua di diritto. O se ti ammazzavano un parente avevi il diritto-dovere di vendicarlo.
Lo spiega anche Alessandro Barbero in una delle sue conferenze su Dante disponibili su YouTube, in riferimento a un passaggio della Commedia.
Sì, la vendetta era una prassi. Come lo era l’esercizio delle armi per chi intendesse fare parte dell’aristocrazia. Dante effettivamente ci teneva ad apparire come il suo amico Cavalcanti, che era un aristocratico vero, ed era molto pratico nell’uso delle armi, non era un Leopardi come il Dante del film di Pupi Avati. Lo scrisse lui stesso in una lettera dove, all’età di 24 anni, si definisce «non fanciullo nell’armi». Tant’è che nella battaglia di Campaldino va a combattere in prima linea, tra i cavalieri di sfondamento, non nelle retrovie con un taccuino in mano. Poi ammette di avere avuto paura, e anche qui vedi la sua grandezza. Uno che scriverà un poema su se stesso con il coraggio di auto-rappresentarsi fallibile e umano: Dante nella Commedia è goffo, inciampa, chiede, ha bisogno di un maestro, di una guida. Ogni tanto sviene, cade nel sonno. Chi gli diagnostica la narcolessia ignora il tema letterario medievale della visio in somnis, ignora che nel Medioevo il sogno è attestazione di verità e che gli espedienti narrativi esistono. Ma ci sono tanti altri temi che fraintendiamo, su tutti il tema dell’amore.
Vai.
Nel Medioevo l’amore non era l’amore sentimentale o romantico o l’amore come lo intendiamo dopo più di 70 edizioni del Festival di Sanremo e vagonate di cioccolatini con dentro messaggi buoni per tutti. L’amore per Dante è un concetto filosofico e andrebbe spiegato in questi termini. Dopodiché ne parla anche in termini fisiologici-medici, toccando un tema all’avanguardia per i giovani dell’epoca, ossia le conseguenze fisiologiche dell’amore, visto che allora non ce le si spiegava. Non è questa la sede per approfondire, ma, per esempio, di solito fa strano al pubblico odierno che Dante sposi Gemma Donati mentre è innamorato di Beatrice, ma, di nuovo, in quell’epoca il matrimonio è un atto puramente notarile dettato da un dovere religioso, la procreazione, e completamente slegato dal sentimento. Siamo noi che mettiamo insieme matrimonio e sentimento, associazione corretta per il nostro tempo, ma non per il suo. Insomma, il punto è che quando si parla di un’opera bisogna entrare…
Bisogna entrare nell’animo dell’autore di un’opera?
Nel testo e nel contesto reale dell’autore, direi quasi nella sua antropologia culturale. Dante, come si diceva, è vissuto dal 1265 al 1321, punto. Non ha visto il dopo, quello lo abbiamo visto noi e lo proiettiamo su di lui. Del resto, anche la storia di Paolo e Francesca non è la storia di un amore romantico, tutt’altro: Dante mostra come la letteratura dell’amor cortese, ossia la letteratura amorosa in volgare che rinasce nelle corti feudali appena 150 anni prima che lui scrivesse, abbia condotto a morte questi due amanti. Quindi quella che noi leggiamo come una storia d’amore, manco ce l’avesse impacchettata Shakespeare, è in realtà una sorta di autocritica letteraria di chi in gioventù ha fatto parte dei Fedeli d’Amore, avanguardia nell’ambito della letteratura cortese. Dante in letteratura è lo sperimentatore per eccellenza, un innovatore infaticabile. Un “progressista”? A volte la sparo grossa anch’io dicendo che ha perfino inventato il cinema e Pulp Fiction, se è vero che nella Commedia incontri ogni genere, ogni linguaggio, ogni sorta di personaggio, alto e basso convivono, come nel post-moderno.
Senza contare l’uso di più registri linguistici.
Certo, Dante adatta sempre lo stile alla materia e fa parlare ciascun personaggio di voce propria, manco li avesse registrati in diretta. Non mi pare che i nostri politici odierni, nemmeno quelli più orgogliosamente conservatori, si pongano più il problema del rispetto del linguaggio in base alle circostanze: in Parlamento volano cazzi e vaffanculo come se piovesse. Poi, però, si scandalizzano se li metti in una canzone o in un’opera d’arte, proprio come ha fatto Dante…
Ma secondo te, presupponendo che quella del ministro non sia stata, al contrario di quel che tu sostieni, una boutade, che cosa nell’opera di Dante può aver spinto Sangiuliano a dire ciò che ha detto?
Sarebbero illuminanti le voci di veri italianisti quali Salvini, Berlusconi, Gasparri o La Russa, profondi conoscitori della storia e della letteratura della nazione che amano. Ma ci vuole indulgenza: a tutti piacerebbe avere in squadra uno come Dante e questo fa sì che un po’ tutti lo tirino per la giacca, da una parte e dall’altra; peccato che stiamo parlando di un personaggio di 700 anni fa e che lì resta. Ciò detto, forse Sangiuliano ha apprezzato l’aggettivo “Divina” appioppato alla Commedia da Boccaccio o il piglio moraleggiante proprio dello stereotipo del Sommo. Voglio sperare che nel programma di governo non ci sia l’impero feudale universale che aveva in mente Dante per risolvere i problemi del mondo! Anche l’idea che Dante abbia deciso di scrivere un poema per giudicare a proprio piacimento i vivi e i morti è fuorviante. Semmai ha scritto immaginando un percorso di redenzione di un individuo nel contesto che più avrebbe attratto l’attenzione dei suoi contemporanei, e cioè la religione: cosa c’è dall’altra parte? E se pensi che quando comincia il viaggio dice a Virgilio di non essere in grado, di non essere un San Paolo e neppure un Enea, ossia né un santo, né un eroe – nemmeno un navigatore, potremmo aggiungere (ride, nda) –, allora hai la misura di quanto fosse avanti in letteratura. In vita gli andò male, ma questa è stata la sua grandezza letteraria, in aperta opposizione all’autorità culturale e politica del suo tempo.
Quella di mettere in scena il rapporto dell’essere umano con i grandi temi della morte, dell’aldilà…
Esattamente. Per questo il poema inizia con lui che dice “nel mezzo del cammin di nostra vita”: non solo la “mia”, ma la “nostra”; sta già includendo tutti, vale per chiunque.
E poi: «mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita».
Il che significa che si era perso, e lo ammette; le Rime Petrose che racconto e canto nel mio spettacolo parlano proprio di quel periodo di perdizione. E i suoi contemporanei, che non avevano Netflix, di fronte a quell’incipit volevano sapere come andasse a finire quel colossal inaudito di 100 episodi in tre stagioni in lingua parlata! Tra l’altro, parliamo di un’epoca in cui qualsiasi cosa scritta era considerata vera: dopo la Commedia, Dante era visto non solo come un sapiente, ma come un veggente, al punto che quando alla fine della sua esistenza si trova a Ravenna e cammina per la città, in panni neri, cioè poveri, con barba e capelli lunghi – così lo descrive Boccaccio, non col pigiama rosso da erudito-mago – le donne hanno paura di lui, convinte che sia tornato dall’inferno. Ma non vorrei andare fuori tema. Il punto è che nel contesto della letteratura occidentale in lingua volgare la Commedia è la prima grande metafora dell’esistenza umana e di chiunque, perché chiunque prima o poi, vivendo, si sente perso. E se da 700 anni le persone che parlano tutte le lingue del mondo a un certo punto trovano interessante imparare la lingua italiana, non è certo perché usiamo il bidè o facciamo la pizza, ma perché abbiamo avuto Dante, tra le altre cose: questo sarebbe bello ogni tanto ricordarcelo. Voglio dire, tutto questo orgoglio nazionale a cosa si riduce, se non conosci ciò di cui andare orgoglioso?
Il problema di fondo è una polarizzazione del dibattito pubblico che vede le parti in contrasto semplificare la lettura della realtà per far aderire quella lettura alla propria posizione. Ma così si nega la complessità e talvolta, come in questo caso, si cade in errori interpretativi gravi.
Certo, anche se questo è sempre successo, e Dante, come dicevo, è sempre stato tirato per la giacca da una parte o dall’altra. Il dibattito in corso non è che l’eterno ritorno di quello degli anni ’70, quando si discuteva se Tex Willer fosse di destra o di sinistra. Perché a noi non interessa capire il mondo, ma solo se sei guelfo bianco o guelfo nero.
Conviene ai politici tutti, questo, non importa lo schieramento: l’approccio manicheo è più facile da gestire per fare campagna elettorale, cercare il consenso, abbindolare le masse.
Sono d’accordo che convenga ai politici, però diciamolo che in realtà la zavorra di questo Paese siamo noi tutti, e siamo molti di più. Noi e loro, noi e i politici, noi e i governanti, noi e le classi dirigenti che rappresentano chi? Noi. Messi tutti insieme, il risultato è questo. Vi piace? Se vi piace, avanti così, ma se non vi piace fate qualcosa per cambiare. E non per cambiare il mondo o il Paese, ma per cambiare il perimetro che vi circonda, i pochi metri quadrati in cui vi muovete. Guarda che cosa ti sei costruito intorno: se sei in mezzo alla merda, vuol dire che quella merda l’hai fatta anche tu, non sono solo gli altri ad avertela buttata addosso.
Non è facile trovare persone pronte ad assumersi la propria parte di responsabilità.
È che siamo abituati a scaricare ogni responsabilità su terzi, anche per motivi culturali. Guarda il cattolicesimo: se c’è il male è colpa del diavolo, mica colpa mia.
Idem quando si dà la colpa al dio denaro.
Che però tutti vorremmo in tasca: chiamala ipocrisia. Mai disprezzare il denaro onesto, come spesso la sinistra tende a fare. Anche Dante fu ipocrita nell’aristocratico disprezzo del denaro, dal momento che fu felice di vivere di rendita, ne prese a prestito e quando perse tutto lamentò povertà e indigenza. Cosa gli mancava di più? Armi e cavalli. Eppure era un simpatizzante francescano e degli ordini minori, che in politica si era schierato con la parte avversa alla grande aristocrazia magnatizia cittadina e al Papa, che poi sono quelli che lo condannarono al rogo. Quindi, destra o sinistra, signor ministro?
E se Sangiuliano avesse fatto quella dichiarazione su Dante per innescare un dibattito sulla tanto evocata, dalla destra, egemonia culturale di sinistra? Quell’egemonia secondo te c’è o c’è mai stata?
Sì, credo di sì, c’è stato sicuramente un prolungato atteggiamento elitario, cieco e ipocrita, assunto da certa sinistra italiana, nello sbandierare una superiorità morale che nei fatti non esiste. Un atteggiamento che ha portato a connotare il termine “intellettuali” come dispregiativo. Vorrei far notare: sarebbero i mestieri dell’intelletto. Se l’intelletto vi fa schifo a priori, siamo alla frutta. E infatti lo siamo. Ma se si è arrivati a tanto è perché anche l’intellettuale ha seminato male: bisogna seminare bene, se si vuole che il raccolto sia buono. Non importa quale sia il mestiere, semina bene e fai del tuo meglio: Dante l’ha fatto, io ci provo ogni giorno.