Hofesh Shechter, la danza è un sogno rivelatorio | Rolling Stone Italia
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Hofesh Shechter, la danza è un sogno rivelatorio

Un incontro col coreografo e compositore mentre la sua compagnia prova lo spettacolo ‘Theatre of Dreams’. «In scena possiamo nutrire fantasie e ambizioni che non ci è dato esprimere nella vita reale». E scoprire cose su noi stessi che non sapevamo

Hofesh Shechter, la danza è un sogno rivelatorio

Hofesh Shechter

Foto: Hugo Glendinning

È tanto che voglio incontrare Hofesh Shechter, un artista che si fa desiderare, un gigante tra i coreografi contemporanei, apprezzato musicista e compositore, insomma, un secchione talentuoso. Il set è perfetto: un teatro vuoto a Torino mentre nella sala accanto la sua compagnia prova i passi di Theatre of Dreams, nuova creazione dell’ex enfant prodige della danza di questo millennio.

Shechter, nato a Gerusalemme quasi 50 anni fa, naturalizzato britannico da decenni, si siede timidamente sullo sgabello, giacca nera su sfondo nero, jeans e anfibi, una bella faccia intelligente. Sembra un po’ a disagio, ma pronto a tutto.

Il teatro può contenere i nostri sogni?
Il teatro può certamente contenere i nostri sogni. Il teatro è lì proprio per consentirci di sognare. Per me è uno spazio che rispecchia la vita, la vita reale, ma che ci permette anche di reinventarla nel modo in cui preferiamo. In scena possiamo nutrire fantasie e sogni e ambizioni che non ci è dato esprimere nella vita reale, ma che sono dentro di noi. Il palcoscenico è uno spazio nel quale poter sentire o elaborare molti aspetti della vita, quindi un luogo ideale per sognare.

Secondo Freud i sogni hanno spesso una rappresentazione teatrale, è d’accordo?
Concordo con Freud sul fatto che i sogni abbiano un impianto profondamente teatrale. I sogni sono parte del motivo per cui ho amato così tanto realizzare questo spettacolo, perché sento che nei sogni accade ciò che succede su un palcoscenico: ci indicano cosa guardare, ci mostrano ciò che desideriamo vedere. Proprio come le quinte del palcoscenico, anche i sogni nascondono cose e più si scava in profondità, più questi elementi nascosti si rivelano oscuri o forse più interessanti. Sul palcoscenico è sempre in atto un gioco tra ciò che vediamo e ciò che invece rimane celato, tra ciò che viene nascosto e le informazioni che invece vengono rivelate. E sono proprio quelle le più intriganti. Per me i sogni e il palcoscenico sono due terreni molto simili. A volte una performance è come un sogno, in particolare una performance di danza che suscita forti emozioni che forse potremmo non comprendere del tutto. Lì per lì proviamo delle sensazioni molto forti che crediamo di comprendere, senza però riuscire a capire da dove provengono. Esibirsi su un palcoscenico è un’esperienza molto potente, proprio come un sogno.

Come ha rappresentato la natura impalpabile dei sogni nella sua creazione?
Ritengo che ci sia qualcosa nei sogni che rivela la vera natura dell’essere umano. È quando sogniamo che spesso finiamo per scoprire i nostri desideri più animali, le nostre paure. Nei sogni può succedere di ritrovarci nudi in pubblico, come accade nel mio spettacolo, possiamo esplorare le nostre più recondite paure perché i sogni risvegliano la nostra parte più animale, più primordiale, come se, strato dopo strato, portassero alla luce ciò che siamo davvero: animali. Sappiamo parlare, concepiamo idee, riceviamo un’educazione, ma rimaniamo degli animali, e mi è molto piaciuto rivelare questa verità sul palco.
Possiamo sentirci saggi e intelligenti e pensare di avere il controllo di questo mondo, ma in fondo siamo noi ad essere controllati da istinti primitivi animali, perché questa è la nostra natura.

Che cos’è per lei la creazione?
Per me la danza, la creazione della danza, è uno strumento. Ciò che davvero mi interessa sono le persone e le sensazioni che proviamo. Vivo la creazione come fosse un esperimento che porto avanti con i ballerini con l’obiettivo di scoprire e comprendere la reazione del pubblico. Mi interessa portare alla luce le emozioni umane, come la speranza, la paura, la disperazione. Tutto questo trascende la danza. La danza non è che un mezzo, uno strumento per approfondire ciò che davvero mi sta a cuore: l’esperienza e le difficoltà umane. Quando lavoro, tento di creare qualcosa che risulti interessante sia per me che per i ballerini perché ritengo che oggigiorno viviamo in un mondo così frenetico e saturo che se proprio dobbiamo disturbarci a fare qualcosa, che sia almeno qualcosa che ci sta a cuore.

La musica e la luce sono per lei strumenti creativi, e di seduzione del pubblico?
Per me luci e musica sono sullo stesso piano della danza se parliamo di potere e controllo dell’opera. Questi tre elementi lavorano in sinergia. Bisognerebbe immaginarli come fossero una zuppa, come se l’intero spettacolo fosse una zuppa. Quando andiamo a teatro, ci sediamo e assistiamo a uno spettacolo completo, fatto di movimenti, di idee. Proviamo sensazioni, ascoltiamo le musiche, godiamo dell’atmosfera creata dalle luci. Ripeto, è come in una zuppa, è tutto unito, combinato. Non vorremmo mai che il pubblico notasse che nel piatto c’è troppo sedano o che c’è un forte sentore di aglio. Tutti gli elementi devono essere sapientemente combinati per offrire un’intensa esperienza teatrale. Ai miei occhi quindi hanno tutti la stessa identica importanza.

‘Theatre of Dreams’. Foto: Todd MacDonald

Lei è considerato uno dei coreografi più contemporanei, nel panorama della danza internazionale. Possiamo considerare il suo stile futuristico?
Se il mio stile è futuristico? Questa sì che è una bella domanda! Che nessuno mi ha mai fatto, tra l’altro. Mi piace pensare che ciò che faccio attraverso la danza sia guardare ciò che accade, ma anche guardare avanti. Essere pienamente consapevole della società e dell’energia che si muove attorno a me, di ciò che significa essere umani oggigiorno e al contempo guardare al futuro, ascoltando le voci di tutti, dei più giovani ad esempio, perché viviamo in un mondo molto complesso e pieno di prospettive diverse tra loro.
Io tento di portare questo arcobaleno di prospettive in scena con il mio lavoro e forse questo lo rende futuristico, o almeno lo spero.

Lei è non solo musicista, anche compositore. Quando è iniziato il suo amore per la musica?
Ho studiato pianoforte a partire dai 6 anni. Ero piuttosto pigro nella parte della pratica, ma passavo molte ore cercando di creare le mie melodie. Ero affascinato dal fatto che, semplicemente posando le dita su note diverse, in combinazioni e modi diversi, si potessero evocare emozioni. Passavo anche ore ad ascoltare la raccolta di dischi piuttosto casuale di mio padre, che includeva di tutto, da Chopin a Pink Floyd, Bobby McFerrin, Schubert, Mozart, Bach, Rachmaninov, Police, Queen… e ciò di cui mi sono innamorato è che ogni disco era un portale verso un altro mondo, un mondo molto diverso dal mio.
Quella sensazione che la musica possa trasportarti in un altro regno è qualcosa che sento ancora, in cui credo e che continuo a cercare. A 12 anni ho smesso di suonare il pianoforte per concentrarmi sulla danza, un’arte che in quel momento preferivo perché la praticavi in gruppo, e non da solo. Dopo una carriera breve ma intensa come danzatore, mi è mancato il mondo della musica, così ho deciso di immergermi nello studio delle percussioni e di sperimentare con la registrazione della mia musica. È stato molto sperimentale… registrando sui vecchi Sony Minidisc a 4 tracce. Quando ho iniziato a creare coreografie, comporre musica è diventato un aspetto fondamentale per me. La sensazione che la musica sia il motore, che dia senso a un mondo e un’atmosfera alla danza, che la regga e la guidi.

C’è un’influenza, nel suo background culturale, della musica elettronica o della reinterpretazione britannica di quel suono?
Direi che tutto ciò che ho mai sentito ha influenzato la mia musica. Certamente il fantastico melting pot culturale dove sono cresciuto, ma le maggiori influenze sulla mia musica sono venute da artisti come Pink Floyd, Rage Against the Machine, Led Zeppelin, Peter Gabriel, produzioni di musica da film come Moulin Rouge, Sigur Rós, Radiohead, Bach, milioni di volte, e molti, molti altri. La verità è che non sono un fan di un particolare genere musicale: sono innamorato di tutti, e quando compongo musica mi piace che sia difficile classificarla in un unico genere, ma che stia in mezzo a diversi, che sembri essere tutto e nulla allo stesso tempo. Come se stessi guardando un programma di National Geographic sull’umanità e sentissi i suoni di quell’umanità nel suo insieme, da lontano.

A volte sembra che la sua musica graffi l’anima: esprime suoni e rumori dentro di noi, che si traducono anche in movimenti per i danzatori, a volte compulsivi e ossessivi, come le emozioni. È così?
Penso che il miglior punto di partenza per creare musica sia l’istinto. A volte possiamo avere molte parole e concetti come punto di partenza, ma tutte quelle cose svaniscono quando iniziamo a fare suoni. Cerco di seguire i suoni che mi muovono, che mi sembrano interessanti, che scolpiscono la mia mente e il mio spirito, che mi portano lontano. I suoni, e la qualità dei suoni, sono per me molto più importanti della composizione in sé – in particolare per la danza, non penso che richieda musica sofisticata, ma piuttosto un ritmo che porti energia distillata.

‘Theatre of Dreams’. Foto: Tom Visser

Le piace essere definito un coreografo rock?
Non mi dispiace. Quando il tuo lavoro è fuori, la gente cerca di definirlo con parole e categorie, è normale e naturale. Suppongo che mi piaccia la connessione con il mondo del rock perché è viscerale, significa che la gente viene mossa dalla pancia.

Cosa significa rock nella sua visione artistica?
C’è qualcosa nel rock che è anti-sistema, che cerca nuove strutture. È scomodo dentro se stesso, ed è proprio quello il livello di ricerca del nuovo e della scoperta.

C’è anche contaminazione con la musica folk, la musica tradizionale, nelle sue composizioni? Fanno parte del suo background biografico?
Certamente c’è una fusione di folk nella musica. Amo la musica folk: è sincera, e nella sua essenza vuole connettere le persone tra loro. Ovviamente, da giovane, ho ballato in una compagnia di danza folk giovanile, il che mi ha esposto a molta musica e danza folk tradizionale e al lato molto sociale della danza e della musica, dal folk balcanico a quello nordafricano, dall’est europeo e asiatico.

Ha detto in un’intervista che non appartiene a niente. Cosa intende? Si riferisce alle sue origini, alla sua esperienza di vita, o a entrambe?
Penso che la cosa che ha elevato gli esseri umani – il linguaggio – sia anche la stessa cosa che ci sta mettendo veramente nei guai. Valute, confini, appartenenza – abbiamo creato un mondo dove inseguiamo i nostri sogni inventati. In questo senso, forse sono fortunato a sentire di non appartenere. Sono nato a Gerusalemme e non sentivo di appartenere lì. Con radici germaniche, mi sono trasferito in Europa dove il clima è più favorevole per il mio corpo, ma anche qui, non appartengo esattamente. Forse sono stato costretto nella filosofia di Lennon, dove il mondo è la mia casa, gli esseri umani sono la mia comunità e devo fare il meglio con ciò. Quindi le parole che definiscono chi e cosa sembrano più un’interruzione – stranamente, la musica e la danza che accadono nel momento sono la mia realtà. È come cercare di vivere la vita attraverso le sensazioni, non attraverso la mente. Ogni giorno fallisco. Ma ogni giorno ci riprovo.

Se potesse esprimere attraverso la musica la violenza della guerra, quale suono cercherebbe?
Non ho mai cercato quel suono. La mia ambizione è creare suoni che uniscano le persone.

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