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I segreti della comicità (senza battute) di Walter Fontana

Una chiacchierata intima con il comico che è stato di ispirazione per tutta la nuova generazione di stand-up comedian, da Luca Ravenna a Valerio Lundini: gli esordi a 'Mai dire gol', l'esperienza con Fabio Fazio, la passione per le serie tv e il bisogno di non dire la propria su tutto

Foto via Facebook (Marina Cattaneo)

Ci sono autori di culto che fanno fatica a considerarsi autori di culto. Uno di questi è Walter Fontana, umorista, scrittore, sceneggiatore, autore. Ha lavorato a 14 stagioni di Mai Dire Gol, pubblicato romanzi e racconti, scritto film e pezzi di grande televisione, quasi sempre dietro le quinte, collaborando con personaggi al cui successo ha contribuito: Claudio Bisio, Paola Cortellesi, Paolo Hendel.

Neanche la ristampa appena uscita per Bompiani di un suo libro del 1995, L’Uomo di Marketing e la Variante Limone (anche questo di culto) riesce far sì che l’autore se la tiri, almeno un po’, quando lo incontro ai tavolini di un bar a Milano che sembra il set di uno dei suoi racconti sul mondo delle agenzie creative e dei pubblicitari: «Per motivi contabili, preferirei pagare i toast con carta di credito e i cetriolini cash. Problems?». Ironia, leggerezza, sguardo da etnologo e scrittura raffinata e mai banale, Walter Fontana è stato d’ispirazione a tutta la nuova generazione di stand-up comedian, uno di loro (ma non dirò chi) mi ha detto «Walter è il nostro Woody Allen». Ma niente, continua a non tirarsela e il caffè lo offre lui.

Il libro ha quasi trent’anni di vita, ma il mondo delle agenzie creative e della pubblicità non è sembra essere molto diverso da quello che racconti tu. Cosa è cambiato?
Sono uscito dalle agenzie creative anni fa, conosco poco gli effetti di quella che oggi è la vera novità: la sparizione della divisione tra lavoro e vita privata. Nel mondo della pubblicità i social ti costringono a pensare 24 ore al giorno

Esiste ancora il mito della pausa pranzo? Un articolo di successo di Mattia Carzaniga qui su Rolling l’ha descritta come «un rito abbruttente»…
Allora era un elemento comico, lo stacco dal lavoro in cui entravano pezzi di vita di ciascuno. Tanti anni fa avevo una rubrica su Comix che si chiamava Nel terziario avanzato nessuno può sentirti urlare e c’era già il racconto della pausa pranzo, che ho ripreso nel libro. Poi è arrivata Camera Café, una sit-com francese. Bravi loro che ne hanno fatto un format. Oggi che non esistono più i sabati e le domeniche, perché si lavora sempre, ed è normale che sia scomparsa anche la pausa pranzo.

Oggi i social sono utili a trovare spunti di comicità? O è sempre meglio “la vita vera”?
I social sono un’esperienza diretta nel momento in cui il nostro cervello si è frazionato in questo diluvio di informazioni, spesso false, opinioni, foto. Oggi chiunque voglia scrivere del mondo del lavoro non può fare a meno di descrivere questa frammentazione, l’incapacità di ragionare per lunghi periodi.

C’è una generazione di stand-up comedians che più o meno consapevolmente deve molto al tuo lavoro, Penso a Valerio Lundini, a Luca Ravenna: li riconosci come tuoi discepoli?
Sono un ammiratore di Ravenna e mi è piaciuto molto lo spettacolo di Lundini. Se fosse vero quello che tu dici, mi farebbe molto piacere. Forse abbiamo in comune lo stacco rispetto al consueto, il passo indietro, la capacità di combinare elementi lontani, ma sono cose che non ho inventato io, la mia generazione imitava Woody Allen..

Anche il fatto di abbandonare la battuta fine a te stessa, di inserirla dentro un racconto, è un elemento di cui tu sei stato, tra i primi, portatore sano…
Se non costruisci il contesto, se non descrivi bene il clima umano che vuoi far vivere, la battuta è inutile. Più ti rendi conto che il discorso narrativo diventa importante, più devi lavorare a togliere le battute: fanno perdere il ritmo e sono la morte del racconto, soprattutto se ti cimenti con un racconto lungo o un romanzo.

Cosa ti piace di questa nuova onda di comicità che chiamiamo per convenzione stand up comedy?
Negli anni Settanta ho vissuto il mondo del teatro di base, la commedia dell’arte italiana fatta in maniera facile, gratis, in due o tre persone, proprio come lo era musica beat di quel periodo. Ci voleva poco per mettere su una band. Penso che oggi la stand up comedy sia il corrispettivo di quel mondo: sei da solo al microfono e parli di quello che vedi intorno, i tecnici la chiamano “comicità osservazionale”. Oltre a Ravenna, mi piace molto Saverio Raimondo, uno che ha trovato una sua strada, e Francesco De Carlo, che è riuscito a fare uno spettacolo di un’ora e mezza con un racconto unico.

Spesso la stand up viene criticata per avere lo sguardo troppo corto, per raccontare in maniera comica solo le proprie biografie. È un limite o no?
Parlare di sé perché poi la gente si riconosca è una via giusta. Però devi essere bravo a centrare l’obiettivo.

Come è stato lavorare tanti anni con la Gialappa’s?
Mai Dire Gol è stata un grande fortuna. Ho lavorato con Paolo Hendel per il personaggio di Pravettoni, con Claudio Bisio, Paola Cortellesi, Fabio De Luigi. Grande merito alla Gialappa’s per aver creato quel mondo: costruivano una squadra all’inizio e quella rimaneva. Anche se non c’erano i social ogni inizio stagione i commenti da fuori erano tipo “l’anno scorso era bellissimo ma quest’anno fa cagare”. Sempre così, ma la Gialappa’s continuava con la stessa squadra, nonostante le critiche o i risultati.

Era una comicità non ideologica, per di più fatta nelle tv di Berlusconi.
Quando ci siamo occupati del ponte sullo stretto di Messina con l’Ingegner Cane di Fabio De Luigi era una cosa vagamente anti governativa, ma si trattava di un caso isolato. Non ho mai frequentato la satira politica, non è il mio genere. Anche un grande come Altan non lo considero uno che fa satira politica e basta, è un grande narratore, un creatore di personaggi.

E dopo la Gialappa’s ti eri ancora diverto a lavorare in televisione?
Sì, ho fatto Quelli che il calcio e oggi lavoro con Fabio Fazio che rispetto alla Gialappa’s ha un altro modo di vedere la comicità: ha la capacità eccezionale di ripescare autori senza tempo come Nino Frassica e Maurizio Ferrini, facendoli rivivere nel mondo oggi. Sono pezzi di Italia molto amati perché la gente ci si riconosce ancora.

Il modello LOL! ti piace?
Mi ha stupito, non mi sarebbe mai venuta in mente una cosa del genere. È il gioco di “vediamo chi ride prima”: apprezzi la simpatia delle persone che partecipano più che quello che stanno facendo nella gara. Sul format in sé, boh…

Milano è al centro del racconto de L’Uomo di Marketing e la Variante Limone e di molti tuoi lavori.
Sono il bambino di periferia che è finito a lavorare nell’agenzia pubblicitaria e poi nel mondo dello spettacolo. Il racconto della fatica umana di lavorare a Milano è più evidente che altrove.

Quando hai pensato che avesse senso ripubblicare il libro, nonostante i dubbi che racconti nella nuova prefazione?
Niente invecchia peggio delle cose divertenti. Quando cerchi di cogliere l’aria dei tempo dai modi di dire, e hai orecchio per come la gente parla, poi la famosa aria del tempo cambia. Ma se intercetti delle dinamiche umane, come la sottomissione che c’è in qualunque ambiente di lavoro, allora qualcosa rimane, anche nella comicità.

Cosa ti fa ridere oggi?
The Office, quando l’ho vista mi ha davvero entusiasmato. Anche Boris. E gli speciali sulla comicità delle piattaforme. Mi sono piaciute molto anche alcune serie come Only Murders in the Building di Steve Martin, la prima stagione di After Life e Fleabag.

Oltre a Boris ci sono altri esempi riusciti di serialità comica italiana?
Le serialità è molto difficile applicata alla comicità, ti obbliga a una quantità di ore assurde in cui sei costretto a far ridere: la carriera di Charlie Chaplin sarebbe durata mezza stagione! Noi puoi obbligare qualcuno a essere divertente per dodici ore di seguito.

Che consigli daresti a un giovane stand up comedian che sta registrando un podcast nella sua cameretta?
Tutti i soggetti sono geniali finche sono scritti in tre righe, ma poi bisogna farli. Quindi direi che il consiglio è leggere molto, ascoltare e anche se stai parlando di te stesso, togliere te stesso dalla scrittura il più possibile. Fare un passo indietro, non fare commenti, non dire la tua su tutto, lasciare quello che vedi senza sottolinearlo con cose comiche per fare bella figura. Quando sei a una tavola con dei comici alla fine è una specie di rodeo perché ognuno deve essere più spiritoso dell’altro. Se riproduci quella cosa sulla pagina è micidiale, un disastro. Se se bravo, se sei ironico, la comicità viene fuori comunque.

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