Fendente è uno di quei fumetti che, fin dalla prima lettura, appare già un piccolo classico, e questo per due motivi principali. Il primo è di carattere narrativo, per una storia che parte subito con un omicidio, un ambiente scolastico che funge da luogo di relazioni e contrasti, una cittadina sconvolta dagli eventi, i media concentranti sulla ricerca del colpevole. Il secondo è di carattere stilistico, con dei mezzi toni di grigio gestiti in maniera assolutamente matura, un utilizzo della matita meticoloso ed elegante, ma soprattutto un rigore che fa da contrasto con l’efferatezza delle tavole più violente. A una prima lettura, dunque, non si direbbe che L’Entaille (questo il titolo originale) sia l’opera di debutto per Antoine Maillard, laureato in arti decorative di Strasburgo e attualmente al lavoro su storie più o meno lunghe dal taglio grafico sperimentale. Eppure questo graphic novel con ambientazione statunitense è un noir dalle tinte horror capace di convincere la giuria del Festival di Angoulême a consacrarlo il miglior fumetto crime del 2022, una storia dal forte imprinting cinematografico. E proprio dalla settima arte prende senza dubbio spunto la narrazione di Fendente, che appunto trae linfa vitale dalla serialità televisiva e da alcune opere sia mainstream che underground. Prima su tutte c‘è in dubbiamente Twin Peaks di David Lynch, con la quale condivide l’attrazione per le vicende di matrice studentesca, il male celato nel quotidiano della vita di provincia, le dinamiche sempre più intrecciate di una piccola comunità cittadina, l’orrore che si allarga a macchia d’olio senza lasciare innocenti. Ma il filo delle citazioni arriva fino al Giappone di Satoshi Kon – con la sua indagine speculare su un delinquente che colpisce le vittime con una mazza da baseball – spingendosi oltre i confini dell’identità di genere e riservando una riflessione al rapporto fra desiderio e convenzioni sociali, all’amore e alla morte. Accanto dunque alla regolarità dei quartieri cittadini, all’ordine delle tavole fondamentalmente classiche, si cela un male di vivere diffuso, un’insormontabile incapacità comunicativa, che deflagra in un finale amaramente sofferto. A pochi giorni dall’uscita in libreria dell’edizione italiana per Coconino Press, abbiamo parlato di Fendente con Antoine Maillard, scoprendo come il disincanto di quest’opera prima arrivi proprio dalla metabolizzazione di un periodo di vita passato, ricco di narrazioni visive fatte ad occhi aperti.
Leggendo Fendente, fin dalla copertina mi sembra che ci sia molto cinema nei tuoi occhi, forse anche più dei fumetti. Cosa guardi prevalentemente e cosa ti ha ispirato? Oltre a David Lynch, che tu citi direttamente, hai mai visto i film di Gregg Araki, che mi sembrano molto in linea con il tuo immaginario?
Mi fa piacere che tu veda delle vibrazioni di Araki nel libro. In realtà è una grande influenza per me. Ho visto la maggior parte dei suoi film, ma amo particolarmente i due adattamenti di romanzi che ha fatto: Mysterious Skins e White Birds. Per i miei gusti, è una sorta di perfezione cinematografica. In questi film ha raggiunto un equilibrio impossibile: un mix di mistero e temi drammatici trattati in modo molto pop e malinconico, con un tocco di grottesco. Quei film rappresentano una perfetta via di mezzo, possono essere visti su MTV a tarda notte o in un festival cinematografico di alto livello come Cannes. Vorrei che facesse più lungometraggi come questi due, secondo me lui è davvero sottovalutato.
Parlando di Lynch, Fendente sembra avere un elemento di congiunzione con Twin Peaks: in una cittadina come quella in cui si svolge la storia, nessuno è innocente. Sei d’accordo?
Assolutamente sì. Ho iniziato a immaginare Fendente quando stavo terminando la mia tesi di master alla Scuola d’Arte di Angouleme. Stavo scrivendo delle connessioni tra le opere di Daniel Clowes e David Lynch. Twin Peaks è stata una rivelazione in quel periodo. Ammiravo la direzione che aveva preso la serie: tutti i misteri non sono lo scopo o il finale della sua narrazione, li ha usati come veicolo per catturare il pubblico e raccontargli qualcos’altro: le emozioni dei personaggi, l’umore di una piccola città, la bellezza e la mostruosità di noi stessi. Non c’è manicheismo e, a differenza della maggior parte delle serie televisive o dei film di genere, qui una semplice morte ha un impatto reale sulle persone, come accade nella vita reale: non è un elemento artificiale per alimentare la trama. Sono molto d’accordo con questa visione della narrazione.
Il lavoro che hai svolto sembra decisamente meticoloso e approfondito, soprattutto per la cura che hai riservato a ogni pagina, a ogni vignetta. Quanto tempo hai impiegato per realizzare il libro e quali accorgimenti tecnici hai utilizzato per ottenere questo risultato?
È difficile da dire. Ho realizzato il libro tenendolo da parte rispetto ad altre cose, come i miei studi e i miei lavori di illustrazione, direi in 5/7 anni, in modo molto irregolare. Ho usato solo matite e portamine, erano gli strumenti con cui mi sentivo più a mio agio in quel momento. Pagina dopo pagina, da questa tecnica è emerso uno stile. Ho cercato di ricreare una sorta di fotografia da film noir, e la matita è ideale per realizzare la luminosità in questo modo.
Leggendo il libro, non ho potuto fare a meno di pensare a un’altra opera molto interessante del recente passato, Paranoia Agent di Satoshi Kon. Anche questa è una serie importante per te? Ti ha influenzata in qualche modo?
Conoscevo i film di Kon, ma ho scoperto la serie dopo aver pubblicato le prime pagine di Fendente come piccola fanzine durante i miei studi. I miei primi lettori mi hanno parlato di Paranoia Agent. La trama sembrava davvero molto simile, con questo surreale picchiatore con la mazza da baseball. La guardai con un po’ di stress, temevo di essere involontariamente sul punto di fare una pessima imitazione del capolavoro di Kon. Credo che probabilmente mi abbia influenzato per il resto del libro. Mi ha mostrato un esempio di come strutturare questo tipo di storia surreale/solipsistica e, allo stesso tempo, mi ha costretto a migliorare il mio stile per differenziarmi da quello che la serie era già riuscita a fare.
Nel tuo libro il Male, per molti versi, sembra inarrestabile, ha tratti sovrumani che lo rendono “inespugnabile”: è forse un’antropomorfizzazione di ciò che è insito nella società di oggi?
Si. Il male può essere molte cose, a seconda delle convinzioni. Per essere più precisi, io lo vedo più come un’antropomorfizzazione della violenza dell’età adulta e, per estensione, della morte. Alla fine dell’adolescenza, la violenza e la morte cambiano “aspetto”, non sono più finzioni o favole. Da ragazzi non si è veramente responsabili delle cose brutte che si fanno, ma la situazione cambia quando si è vicini a diventare adulti. Le cose diventano morali, serie, e le scelte che fai iniziano a definirti davvero. Il Male è la fine dell’innocenza, invade lentamente il modo di vedere la realtà durante la fine dell’adolescenza. Credo che sia una dinamica nascosta che si ritrova nei (buoni) film slasher, come Halloween di John Carpenter: Michael Myers è l’uomo nero, non è solo un adulto, è il male, un mostro della tua infanzia che viene a dirti che la festa è finita, che è ora di essere adulti e di entrare nel gioco di sopravvivenza della società.
Il tuo libro cerca anche di analizzare la profonda difficoltà della comunicazione intergenerazionale? Sia tra giovani coetanei che tra figli e genitori? Pensi che questi anni l’abbiano resa ancora più difficile?
Non lo so. Non posso dire cosa sta succedendo ora, è un periodo troppo ravvicinato per avere un’opinione. Nella storia cerco di mostrare come tutti i personaggi facciano fatica a comunicare tra loro. Volevo descrivere questo tipo di amicizia fragile che si crea con le persone con cui vai al liceo: non hai necessariamente aspirazioni o valori comuni con loro, vuoi solo inserirti, per esempio come un freak o come un ragazzo popolare. Non è necessario che tu conosca a fondo anche le persone del tuo gruppo. E probabilmente non rimarrete amici per sempre, anche se è quello che pensate al momento. È lo stesso per i genitori, gli adolescenti iniziano a capire le future difficoltà dell’età adulta in parte attraverso di loro. Si crea un muro di risentimento tra le due parti. Ma non posso dire che sia comune a tutti e ovunque, si ispira soprattutto alla mia esperienza personale e a tutte le fiction orientate agli anni ‘90/generazione X che ho consumato quando avevo questa età. Il libro è una sorta di testimonianza dei miei sentimenti di quel periodo.
Il thriller/horror è il genere in cui ti ritrovi maggiormente o il tuo lavoro intende esplorare presto altri stili?
Questo genere è stato profondamente legato alla mia adolescenza, quindi si adatta a questo progetto, ma mi piacerebbe esplorare altre cose. Probabilmente farò altre storie legate al thriller o all’horror, se ne avrò di buone, ma voglio essere prudente. Inoltre, ultimamente c’è tutto questo revival dei generi anni ‘80/90 e il tardivo riconoscimento dell’horror nel cinema e nei fumetti: Junji Ito ha vinto un Eisner Award negli Stati Uniti, It e Stranger Things fanno attualmente parte dei franchise di genere fantastico più redditizi del decennio. Mi sembra tutto eccellente, ma non voglio sfruttare l’onda, ho già rifiutato progetti di storie horror adolescenziali perché troppo vicini a Fendente.
Cosa ha significato per te la vittoria come miglior fumetto crime al festival di Angoulême? È semplicemente un premio o rappresenta il raggiungimento di un traguardo particolarmente importante?
È stato inaspettato, ne sono orgoglioso perché è anche una vittoria per i creatori di fumetti indipendenti e i piccoli editori come il mio (Cornelius) in Francia. Penso valga lo stesso anche per i miei colleghi e amici Léa Murawiec, Pierre Maurel e Simon Roussin, anch’essi premiati ad Angoulême quest’anno. Veniamo tutti da un background di creatori di fanzine e c’è anche un aneddoto al riguardo: qualche anno fa un grande editore mi disse che Fendente sarebbe stato un progetto di libro troppo “underground” per piacere ai lettori, che non avrebbe mai funzionato, quindi questo premio è anche una sorta di rivincita.
Trovo che il tuo lavoro con il colore sia decisamente potente e convincente, ha mai pensato di realizzare Fendente in quadricromia?
No, ho scelto fin dall’inizio di realizzarlo in scala di grigi. Secondo me, l’uso del colore deve sempre essere rilevante per un fumetto in termini di narrazione o di atmosfera, non solo decorativo o per ragioni commerciali. Per Fendente il colore era irrilevante dal mio punto di vista. Fa eccezione la copertina, per la quale ho dovuto rispettare il design del mio editore, quindi abbiamo lavorato insieme sui colori e sulla composizione. La mia ispirazione principale sono state le locandine dei vecchi film gialli. Credo che uno dei modi più interessanti di usare i colori nel genere horror/thriller sia legato a quei film, ecco perché Pola è in giallo sulla copertina, altrimenti uso raramente questo colore.
A cosa stai lavorando ora? Quando e cosa pubblicherai nel prossimo futuro? Stai lavorando a colori o in scala di grigi?
Fendente uscirà in autunno per Fantagraphics negli Stati Uniti. In questo momento sto lavorando soprattutto all’illustrazione editoriale, che è la mia attività principale da qualche anno. Ho anche lavorato a una piccola fanzine di illustrazione per un collettivo che ho fondato con alcuni amici. Non voglio affrettare i tempi e ho bisogno di continuare a fare cose divertenti in parallelo a progetti più ambiziosi. Ho iniziato a scrivere un nuovo fumetto, ma è troppo presto per parlarne, probabilmente questa volta sarà a colori. Ultimamente faccio fatica a trovare il tempo per scrivere, ma credo che si sia capito che lavoro lentamente…