È il 20 settembre e la mostra di Urs Fischer inaugura tra poche ore. Nella sede storica della galleria Massimo De Carlo a Lambrate, periferia nord-est di Milano, regna un clima di intensa operosità. I telefoni squillano continuamente, i tecnici sistemano le luci nelle grandi sale, i comunicati stampa vengono impilati all’entrata. Ed è proprio lì, davanti alle ampie vetrate dell’ingresso, che sta seduto Urs Fischer, uno degli artisti più originali e prolifici dell’ultimo decennio. Il tavolino su cui appoggia i gomiti tatuati sembra piccolo in confronto a lui, che è alto e massiccio. Con un’espressione concentrata, ma serena, di piena felicità, passa il pomeriggio a rifinire con meticolosità il colore delle sue piccole sculture, come un bambino ossessionato dai suoi giocattoli.
«Fumiamo una sigaretta?», trovo il coraggio di chiedergli soltanto molte ore dopo. Sono le otto di sera e ci siamo spostati nella nuova sede della galleria Massimo De Carlo, in Piazza Belgioioso, dove si tiene la seconda parte della mostra Battito di ciglia. I visitatori si accalcano nelle sale, sotto lo sguardo stupito di due grosse coppie di occhi fatti di cera e di vetro. Dal documentario che Iwan Schumacher realizza su di lui nel 2010, si evince che Fischer è un accanito fumatore, proprio come me: siamo di quelli che stanno sempre con un pacchetto in mano, che usano le sigarette come un filtro per interagire con la realtà. Un pacchetto di sigarette è perfino il protagonista di alcune sue opere (per esempio, penzolava al centro della sala nell’indimenticabile mostra a quattro mani realizzata con l’amico Rudolf Stingel nel 2006, sempre da Massimo De Carlo). Per fumare, Fischer e io usciamo dalle sale illuminate a giorno e ci imboschiamo nella semioscurità del cortile. «Andiamo là», indica lui. Ci sediamo sui gradini davanti a un portone, poi Fischer tira fuori una sigaretta elettronica. Non riesco a nascondere la mia delusione. «Ma come, quando hai smesso?», gli chiedo addolorata. «Da un bel po’», risponde lui.
Courtesy of the artist and Massimo De Carlo gallery Milan / London/ Hong Kong.
È molto tranquillo, parla piano, quasi a voce bassa, i suoi occhi grigi incontrano i miei solo in coincidenza dei sorrisi, poi si spostano verso il centro del cortile, dove la gente si raggruppa prima di entrare a vedere la mostra. Non faccio in tempo a porgli la prima domanda che veniamo interrotti da una donna con i capelli corti che viene verso di noi sorridendo. È Sadie Coles, la proprietaria dell’omonima galleria di Londra dove Fischer, nel 2007, ha bucato il pavimento e montato tra un piano e l’altro la fusione in bronzo dell’interno di una tomba. I buchi sono un gesto ricorrente: da Gavin Brown a New York, sempre in quell’anno, Fischer scavò il pavimento della galleria, trasformandolo in un cratere di terra e detriti. Parlando di lui in un’intervista, Massimiliano Gioni, curatore della grande mostra-consacrazione del 2010 al New Museum di New York e della sua prima mostra personale in Italia, nel 2005, organizzata dalla Fondazione Trussardi, ha sottolineato l’incredibile maturità dell’artista – nel 2007 aveva 34 anni – nel saper gestire temi come morte e distruzione. Eppure, penso guardandolo mentre ride di gusto a una battuta di Coles, c’è un’altra parte del suo lavoro carica di innocenza, di leggerezza, come nelle opere in mostra a Milano, o come quando riempie le gallerie di centinaia di grosse gocce di gesso dai colori pastello.
Sadie Coles accende il navigatore sul cellulare e segue le indicazioni vocali per il ristorante, visto che Urs non ha saputo dargliele: è riuscito, senza muoversi o alzarsi da dove siamo seduti, a perdere la mappa che la ragazza della galleria gli ha consegnato davanti ai miei occhi. Partita Coles, finalmente posso attaccare con le mie domande. «Ti piace Milano?», gli chiedo e aggiungo: «È una città davvero brutta», come se gli rivelassi un segreto. Lui ride. «Non è così male, dai… Ieri ho camminato per due ore e mezza partendo dalla galleria di Lambrate… È stata una bellissima passeggiata».
Alle mie accuse di apprezzarla soltanto perché non ci vive (dal 2006 si è stabilizzato a New York dopo aver vissuto ad Amsterdam, Londra, Los Angeles e Berlino), ammette che basta poco per farlo contento: «Dopotutto sono nato a Zurigo», conclude. «Quindi odiavi la tua città?», domando speranzosa e, in cerca di solidarietà, gli confido: «Io detesto il paese in cui sono cresciuta…». «Certo che la odiavo!», confessa, lui: «Davo la colpa di tutto a Zurigo», ricorda ridacchiando. Gli chiedo se resterà per sempre a New York. Dice che da quando c’è sua figlia Lotti, che adesso ha 7 anni, è diventato più stabile. Dev’essere bellissimo avere un padre come Urs Fischer, penso. Poi penso che anche come fidanzato non dev’essere male.
Finalmente riesco a fargli qualche domanda sul suo lavoro. Le sculture esposte in via Ventura sono incredibili: buffe, ma anche un po’ dark. Semplicissime eppure, in qualche modo, complesse: generano una costellazione di elementi e simboli in grado di attivare narrazioni illimitate. Mi ricordano dei giocattoli sparsi sul pavimento nella camera di un bambino. Ma sono anche grottesche, in qualche modo rudimentali, e perturbanti nel loro surrealismo, come se fossero magici talismani in grado di attivare energie sconosciute.
Noisette, 2009 / Frozen Pioneer Slut, 2009
«Mi piace che stiano sul pavimento», spiega lui, «tu sei in piedi, tra le nuvole, e loro sono giù… Ti fanno sentire un gigante. Di solito l’arte ti fa sentire l’opposto, no? E poi c’è il potere della miniatura, che è sempre più forte delle cose grandi: è più vicina al nostro cervello, possiamo usarla come modello».
A Urs Fischer piace giocare con le dimensioni: al New Museum i lavori più belli erano enormi riproduzioni in alluminio di piccoli pezzi di creta maneggiati un po’ a caso e riprodotti in scala gigante grazie a un sofisticato metodo di scansione 3D. I procedimenti per realizzare le sue opere, con il loro aspetto così punk e istintivo, sono spesso molto complessi e super costosi. Nel 2009, Fischer è stato definito da un giornalista del New Yorker “l’imperfezionista”. Poi, in un’intervista del 2012, a Francesco Bonami (critico d’arte e direttore artistico della Fondazione Sandretto Re Rabaudengo, ndr), lui stesso ha detto: “Tutto dev’essere perfettamente imperfetto”. Quegli enormi blocchi informi, in cui spuntano tracce delle sue dita, sono insieme un autoritratto e una riflessione sul ruolo dell’arte e dell’artista, ma parlano anche di vanitas e della nostra percezione del tempo e dello spazio.
Gli chiedo di parlarmi delle opere che ha pensato per le due sale di piazza Belgioioso. «Mah, non so bene cosa dire su di loro. La cosa che mi piace è che occupano tutta la scena anche se non sono molto grandi, perché guardano fuori… Non so, sono l’opposto dei dipinti di Agnes Martin… La conosci?». Gli rispondo che mi piace molto, ho anche la riproduzione di una sua opera appesa in camera, davanti al letto: con le sue strisce di colori tenui, mi placa e mi rilassa. «Avrei voluto essere una persona che fa quel tipo di lavoro», dice pieno di ammirazione. «È così delicato. Il mio è il contrario», ride. «Questi occhi… Il loro sguardo riempie lo spazio, prende il tuo spazio. Invece quello di Martin è uno spazio in cui entri, in cui ti perdi». «Qui sono loro che entrano in te», dico, e mi viene in mente quella citazione di Nietzsche sull’abisso che, se lo guardi a lungo, poi vorrà guardare dentro di te, ma per fortuna non la dico.
«ci sono altri artisti che ammiri?», gli chiedo invece. «Sono tanti», risponde lui, «e cambiano continuamente. Alcuni li dimentico, altri li scopro solo adesso. Uno che mi è sempre piaciuto è Christo», dice, cogliendomi di sorpresa. Christo, l’autore dei famosissimi Floating Piers sul lago d’Iseo, così pop da essere stati addirittura trasformati dal popolo dei social in meme virali. Fischer nota la smorfia sulla mia faccia. «Non sei andata a vederli?», mi chiede, sinceramente deluso. «Dovevo lavorare», rispondo io, con il tono di chi non vuole continuare il discorso (non ho il coraggio di ammettere che non ci sono andata perché ci andavano tutti). «Christo mi è sempre piaciuto», afferma. «Adoro le isole circondate dal tessuto rosa, è un’opera bellissima e generosa. Forse tu hai pensato solo all’esperienza di camminarci, di starci dentro insieme a tante altre persone. Ma devi pensare alla qualità delle sue opere come immagini, anche solo da guardare. Da lontano, dalle montagne circostanti, dall’alto. Quelli di Christo sono gesti semplicissimi. E va bene che includano tante persone, che tutti possano relazionarsi con l’opera. Sai, è il contrario di: “Ho fatto questa scultura, è molto intima, parla del rapporto che ho con il mio migliore amico”. C’è come una linea, la linea della storia dell’arte e tu cerchi di posizionare e posizionarti, di trovare un modo per capire. E poi ci sono un po’ di persone che oltrepassano questa linea… Non sono davvero soltanto parte della “cosa dell’arte”, perché sono troppo commerciali o troppo pubbliche. Ma è ottimo che queste cose funzionino, così si possono fare più grandi. Ho un libro su Christo in cui ci sono i primi schizzi, le prime idee: era prima che facesse tutte le sue installazioni, prima che qualsiasi progetto fosse realizzato nella realtà. Guardando i suoi disegni capisci la grandezza del suo lavoro. Prima di lui nessuno aveva pensato di fare cose del genere: le ha pensate e le ha fatte esistere lui, e in fondo non importa se le abbiamo viste dal vivo oppure no: adesso sono immagini che abbiamo nella nostra memoria. È quello che interessa anche a me, dopotutto. Creare immagini che continuino a vivere anche dopo essere state viste, dentro alla nostra mente».