Ho fatto un sogno che, come canta Bruce Springsteen, se non si realizza diventerà una bugia. O forse qualcosa di peggio. Non riuscivo a rendermi conto esattamente delle dimensioni, della portata, delle potenzialità del movimento anti-Trump negli Stati Uniti: è solo la fiammata dei Democratici delusi dall’aver perso un’elezione presidenziale che nessuno pensava potessero perdere? È solo la rabbia e la frustrazione dell’America liberal che non ha capito che il mondo stava cambiando (è già cambiato) e che Trump è capace di comunicare meglio con questo mondo? Ma, soprattutto, questo movimento sarà in grado di arginare gli eccessi di Donald Trump?
Così ho fatto un sogno: che si potesse ripetere quello che è successo esattamente 50 anni fa. San Francisco, estate 1967, quella che passerà alla Storia (sì, proprio alla Storia) come la Summer of Love. Un sacco di buona musica. Un esempio per tutti, il Festival Pop di Monterey con una line up che oggi riempirebbe la Pianura Padana: da Jimi Hendrix a Simon & Garfunkel, da Otis Redding ai Byrds, i Grateful Dead, Janis Joplin, i Jefferson Airplane, Eric Burdon, gli Who… Quell’estate esplode il movimento hippie: Haight-Ashbury, il quartiere alternativo di San Francisco, diventa addirittura la meta di tour organizzati con torpedoni. Prendono forma e crescono il movimento per i diritti civili e quello contro la guerra in Vietnam, che nel giro di pochi anni diventeranno una forza enorme che cambierà la politica americana. E non solo. Senza l’estate del 1967 non ci sarebbe stato il Maggio francese e il Sessantotto.
So bene che la Storia non si ripete; a volte, però, torna con una maschera diversa. È questo il caso? Può ripetersi oggi la magia di quello che è successo 50 anni fa? Se c’è una persona al mondo che può provare a dare una risposta, questa persona è Jann S. Wenner. Nell’estate del 1967 era un giovane di 21 anni, studente all’università di Berkeley, politicamente impegnato con il Free Speech Movement. Quell’estate, in quel clima lì (poteva succedere soltanto in quel clima lì) prese forma il suo progetto di un giornale sull’importanza del rock e la saggezza dei giovani.
Era Rolling Stone. Il primo numero sarebbe uscito il 9 novembre. Da allora Wenner è sempre stato direttore del suo giornale, ha seguito (portando a casa una serie di scoop che hanno fatto il giro del mondo) i movimenti alternativi e la grande politica americana. Dopo 50 anni è ancora in prima linea: è sua una delle rarissime interviste concesse da Barack Obama dopo l’elezione di Trump. Ci siamo sentiti al telefono. Lui non ha dubbi: «Il movimento contro Trump è fortissimo. È più forte, più esteso, coinvolge molti più americani di quello degli anni Sessanta».
Non ti pare di esagerare?
No. Cominciamo dai numeri: la marcia dell’ottobre 1969 contro la guerra in Vietnam è stata la più grande manifestazione politica dell’intera Storia americana. Poi, il 21 gennaio di quest’anno (il giorno dopo l’insediamento del nuovo Presidente alla Casa Bianca), c’è stata la Marcia delle donne su Washington. E in strada c’era più gente che nell’ottobre 1969.
Stiamo assistendo alla nascita di un attivismo come non si vedeva dai tempi della guerra in Vietnam
Jann S. Wenner
I numeri dei manifestanti significano poco…
Certo. Ma vedo ovunque i segni di un movimento che è solo agli inizi. Consideriamo, per esempio, il fatto che una grande percentuale delle persone che hanno partecipato alla Marcia delle donne era la prima volta che scendeva in piazza. Guardiamo alle migliaia di manifestanti che spontaneamente hanno invaso gli aeroporti per protestare contro il divieto di ingresso negli Usa dai Paesi islamici. Contro Trump hanno preso posizione e manifestano le donne, la comunità LGBT, gli attivisti per i diritti civili e quelli della Rete, gli ambientalisti, gli Indiani d’America, gli scienziati… Sono fiducioso: stiamo assistendo alla nascita di un attivismo, di un impegno politico da parte degli americani come non si vedeva dai tempi della guerra in Vietnam. È una storia ancora poco approfondita dai media: è difficile mettere insieme tutti i tasselli. E, soprattutto, questo attivismo deve poi tradursi in azioni concrete.
Però non puoi negare che Trump abbia vinto le elezioni…
Certo che le ha vinte, anche se non va dimenticato che, in cifra assoluta, Hillary Clinton ha preso più voti di lui. Ma la coalizione che ha eletto Trump è estremamente eterogenea e soprattutto non lo ha votato per le politiche che ora sta portando avanti, per esempio quelle contro la difesa dell’ambiente. E infatti il suo indice di popolarità è già oggi il più basso nella Storia dei Presidenti americani: tutti gli istituti di statistica lo danno sotto al 50%, alcuni addirittura al 35%. Questo significa che, oggi, due terzi degli americani sono contro di lui.
L’America sta scendendo in piazza per difendere i valori da cui è nata
Jann S. Wenner
Non mi fiderei tanto degli istituti di statistica, visto come hanno sbagliato clamorosamente le previsioni elettorali. Ma, ammesso che adesso ci stiano azzeccando, che cosa ti fa credere che questa protesta non si spenga dopo il grande entusiasmo iniziale?
C’è tutta un’America progressista, giovani ed ex giovani cresciuti con i valori degli anni Sessanta, che è profondamente incazzata. Negli anni della presidenza Obama abbiamo fatto passi avanti nella difesa dell’ambiente, nell’assistenza sanitaria, nella difesa dei diritti delle persone (a prescindere dal colore della pelle, dall’orientamento sessuale, dal fatto che siano immigrati o nati in America…). Nella volontà di non infilarci in improbabili guerre. Ora tutto questo viene messo in pericolo dalle politiche di Trump, che vanno contro l’essenza stessa del sogno che avevano i Padri fondatori dell’America. Un sogno che con il tempo si è sviluppato, ha portato a un’attenzione sempre maggiore per i diritti umani, a un aumento della democrazia. L’America non si sta opponendo a Donald Trump in quanto persona, non è una questione personale: l’America sta scendendo in piazza per difendere i valori da cui è nata e che l’hanno fatta grande.
Sei ottimista?
Sono ottimista nel lungo periodo. Qualcuno ha detto che il vero simbolo degli Stati Uniti non è l’aquila, ma il pendolo. E quando il pendolo va troppo in là in una direzione, inevitabilmente torna indietro. Prima o poi.
Tra tutti i musicisti che hanno preso posizione contro Trump, chi rappresenta, secondo te, il simbolo di questa protesta?
Bruce Springsteen, o i Pearl Jam. O Amanda Palmer. O, ancora, Lady Gaga, che la notte del 9 novembre, subito dopo i risultati elettorali, si è fatta fotografare sotto la Trump Tower con il cartello “Love trumps hate” (L’amore sconfigge l’odio, ndr). E tutto il mondo dell’hip hop… Guarda, a parte un pugno di artisti, dei quali nessuno comunque ascolta i testi delle canzoni, nessuno si è schierato con Trump. Non credo si possa scegliere un simbolo: tutto il mondo della musica è unito contro di lui.
E sulla scena politica generale, vedi un leader per questo movimento?
Il leader deve ancora emergere. Tieni conto che (correttamente) Obama non si esprime sul suo successore. Hillary Clinton non ha più parlato dopo le elezioni… Non so se ci sarà mai un leader capace di rappresentare tutte le diverse anime di questo movimento che è spontaneo, che è dappertutto. È davvero profondo ed è fatto di rabbia e di passione. È un’onda che può diventare una grandissima onda.
Un po’ come è successo 50 anni fa: 1967, San Francisco, il Pop Festival di Monterey, the Summer of Love, la rivolta di Berkeley, gli hippie… E da lì una gran- de onda, che negli Stati Uniti diventò il movimento per i diritti civili e contro la guerra in Vietnam, e in Europa il Sessantotto. Secondo te sta accadendo qualcosa di analogo?
Potrebbe. Oggi sappiamo come è andato a finire quel movimento di 50 anni fa, sappiamo che onda lunga e potente ha creato. Di quello di oggi possiamo solo vedere le potenzialità, al momento. Anche perché, guarda, si tratta di movimenti profondamente diversi. Quello di 50 anni fa è cominciato contro la guerra in Vietnam, era un fenomeno giovanile, una rivolta generazionale dei figli contro i genitori. E poi era limitatissimo se confrontato con quello di oggi. Diciamoci la verità, all’inizio riguardava soltanto un paio di grandi città, New York e San Francisco, e riguardava soltanto i ragazzi, che non volevano partire per la guerra.
Gli hippie, insomma…
WENNER No, guarda, gli hippie erano una cosa a sé. Per gran parte di loro tutto si esauriva nel farsi le canne guardando il tramonto, peace and love, quella roba lì. Non sono mai entrati davvero a far parte del movimento. Tant’è che quella Summer of Love del 1967 è stata il punto più alto, ma anche la fine, del loro sogno.
Se dovessi scegliere la colonna sonora di quell’estate: Janis Joplin, Grateful Dead, Jimi Hendrix? O i Pink Floyd, che quell’an- no incidono il loro primo disco? Oppure Bowie o i Doors, anche loro al debutto?
Nessuno di questi.
La colonna sonora della Summer of Love è stata Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles
Jann S. Wenner
Riprovo: A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum…
No. La colonna sonora della Summer of Love è stata Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles. Non ho dubbi.
Tu allora eri a San Francisco, facevi parte del Free Speech Movement…
E per questo posso dirti che non era una cosa grossa come quella di oggi: tutto è partito da una piccola minoranza, di sinistra, di una piccola comunità come l’università della California a Berkeley.
Immagino che quell’estate tu abbia fatto il pieno di concerti…
Ero al Festival di Monterey, ero lì quando Jimi Hendrix diede fuoco alla sua chitarra sul palco. Ma in quel Festival la politica non c’entrava: ricordo tanta buona musica e tante buone vibrazioni…
E, mi immagino, tanto sesso, tanta droga e tanto rock&roll: avevi 21 anni, era la Summer of Love…
Diciamo che mi sono divertito un casino. (Ride)