«Gli amici pensano che io faccia una vita piena di viaggi e feste, la verità è che da quando mi sveglio a quando vado a dormire, lavoro», ci dice Jessica Walsh, e non è difficile crederle. La designer newyorkese a poco più di trent’anni è uno dei personaggi più in vista nell’industria e ha lavorato, assieme al socio Stefan Sagmeister, per Levi’s, Jay-Z, Adobe, il Museum of Modern Art, giusto per fare qualche nome. Nonostante la carriera fulminante (fatta di scelte non sempre facili, ma che alla fine hanno sempre ripagato), supervisiona ancora, in prima persona, tutti gli aspetti produttivi dei progetti: «Se non ascolti il cliente, se non sai costruire un preventivo è impossibile eseguire una creatività efficace». La incontriamo, tra un impegno e l’altro, a Milano in occasione della Design Week: è molto misurata e gioviale. Il comportamento tradisce un’antica timidezza sopravvissuta agli incontri pubblici, che la portano spesso in giro per il mondo, mescolata a una determinazione incrollabile che si manifesta quasi come un’aura visibile intorno al viso.
Quando si è piccoli esistono solamente “le cose”. Ricordi il primo oggetto in cui hai riconosciuto l’ingegno umano, che hai guardato come progetto di design?
Il primo nome che mi viene in mente è Hello Kitty. Mentre crescevo, era veramente popolarissima, come un’icona laica. Con Hello Kitty, mi sono resa conto del fatto di come un marchio può acquisire un valore affettivo per le persone. In un certo senso, credo ancora che sia il miglior logo mai disegnato (ride).
Quando hai capito di voler fare la designer nella vita?
Mi sono sempre interessata, fin da bambina, alle arti applicate e i computer erano una grande passione. A 11 o 12 anni ho imparato, da autodidatta, i linguaggi di programmazione html e CSS insieme a molti software, più o meno avanzati, per la creazione di siti web. Formulavo continuamente nuove idee su ipotetiche attività artistiche o commerciali che avrei potuto mettere in pratica. Un po’ di amici erano incuriositi dai miei interessi e mi hanno preso come punto di riferimento per piccole consulenze. Da lì, è venuta naturale l’idea di rendere disponibile la mia conoscenza in una specie di manuale online in cui ho inserito consigli per i ragazzi che desideravano cimentarsi nella programmazione. In breve, il sito è diventato piuttosto popolare: migliaia di visualizzazioni ogni giorno. Era il periodo in cui Google aveva lanciato la possibilità di inserire annunci pubblicitari e mi sono detta “perché no, proviamoci”: improvvisamente ho iniziato a guadagnare centinaia di dollari ogni mese. Che cosa fantastica – ho pensato – ricevere denaro per fare cose divertenti. Perché avrei dovuto tentare qualsiasi altra carriera? Mi sono poi formata alla Rhode Island School of Design: un’accademia con una grande tradizione, vicina alle arti visive e all’artigianato. Lì ho scoperto cose diversissime e nuove: la scultura e il disegno, che mi hanno spinto fuori dalla mia “comfort zone”. Credo che la collisione tra il digitale e il “reale” abbia dato vita al mio stile.
Non hai mai avuto la tentazione di diventare artista, invece che designer?
A dire la verità, no. Mi è sempre piaciuta l’idea di realizzare progetti con obiettivi concreti e definiti. C’è, naturalmente, una parte di me che emerge anche nei lavori commerciali per le aziende, ma è importante che la mia creatività sia messa al servizio delle necessità di terzi: m’interessa la fase di studio, la strategia, la conversazione con il cliente, la ricerca concertata della soluzione a un problema di comunicazione o d’immagine.
Ci racconti di come hai rifiutato l’offerta di un posto da centomila dollari l’anno alla Apple per andare a fare uno stage?
È una storia che ha sorpreso molto i miei genitori (ride). Erano davvero delusi. Al termine di uno stage alla Apple è arrivata una proposta di assunzione: contemporaneamente, avevo ricevuto un’offerta di stage da Paula Scher dello studio Pentagram. Sapevo, in cuor mio, che amo le sfide: lavori e prospettive diverse con clienti diversi. Il lavoro d’agenzia mi è più consono e da Apple mi sarei annoiata: l’azienda ha un’immagine fortissima e non avrei avuto margini per modificarla. Credo che la bellezza e la gioia del mio mestiere risiedano nell’invenzione di linguaggi visivi nuovi.
Poi cos’è successo?
Dopo Pentagram, sono stata assunta come direttore artistico in una rivista, Print, dove ho cominciato a sperimentare con i set fotografici surreali, al confine con l’illustrazione: era il 2008, l’inizio della crisi, e per realizzare le copertine del magazine dovevo inventarmi situazioni fantasiose o curiose con budget molto ristretti. Non volevo occuparmi solo di editoria però, ma guardandomi in giro, nessuno studio a New York mi ispirava abbastanza: avevano tutti uno stile irregimentato e aziendalistico. Uno dei pochi professionisti che mi piacevano era Stefan Sagmeister: ha un piglio molto giocoso e al tempo stesso concettuale. Abbiamo lavorato insieme per un paio di anni e quando ero pronta per fondare uno studio mio, mi ha convinto a rimanere chiedendomi di diventare sua socia.
Qual è la cosa più folle che hai fatto per lavoro?
Mi sono capitate moltissime cose folli! Alcuni progetti indipendenti che facciamo con Stefan mi hanno messo spesso in situazioni piuttosto strane: ho avuto il corpo ricoperto di scarafaggi, confezioni di colla o topi. Qualsiasi tipo di schifezza bizzarra che riesci a immaginare, l’ho fatta (ride). Una volta sono uscita tutte le sere con uno dei miei migliori amici per scrivere il resoconto dei nostri appuntamenti su un blog. Forse questa è stata la cosa più folle, in effetti.
Ho letto che questo progetto si trasformerà in un film, vero?
Sì, dopo poco più di una settimana dal lancio del blog siamo stati avvicinati da produttori di Hollywood.
Come funzionava l’esperimento?
Siamo usciti per 40 giorni di fila e alla fine di ogni serata dovevamo rispondere alla stessa serie di domande: nessuno dei due poteva leggere le risposte dell’altro. Il tutto poi finiva online, le mie impressioni affiancate alle sue. Siamo molto diversi e credo che il modo in cui due individui possano avere percezioni così diverse della medesima situazione sia stata la molla che ha catturato l’attenzione. Era come una finestra aperta dentro le nostre teste.
Leggevo stamane un report su quanto, anche nel mondo della creatività intesa in senso lato, la presenza femminile sia tuttora un po’ latitante.
Soprattutto nei posti di comando. Credo, però, che tutto stia cambiando molto in fretta: le generazioni di designer che mi hanno preceduto sembravano un club per soli uomini – a parte un paio di notevoli eccezioni – mentre oggi, se penso alla mia generazione e a quella emergente, direi che rappresenta in modo paritario i generi, se parliamo in termini qualitativi e di chi rispetto creativamente: purtroppo, nei ruoli di responsabilità e di visibilità pubblica ci sono ancora troppe poche donne. Questo è dovuto al sessismo residuo nella nostra società, al fatto che le donne tradizionalmente si occupano dei figli spesso proprio nel momento in cui la loro carriera decolla e al fatto che mancano modelli femminili cui ispirarsi. Ho fondato Ladies, Wine & Design, una serie d’incontri – nata a New York, ma attecchita in molte altre città – in cui creative possono condividere competenze e confrontarsi per imparare nuove cose e coltivare solidarietà tra loro. Mi auguro che, nel suo piccolo, sia un contributo per cambiare le cose.
Quali sono le tre persone che ti hanno influenzato di più?
Mia mamma è sempre stata un punto di riferimento: crescere con una madre che ha avviato un’attività commerciale mi ha ispirato enormemente. Una lavoratrice che mi ha instillato l’idea che devi ottenere le cose da sola. La seconda è Paula Scher, una delle più grandi designer viventi. La terza è mia sorella. Da piccola, ero timidissima e introversa: mia sorella era l’estroversa di casa e mi ha aiutato a essere più coraggiosa, mi ha insegnato a trattare con gli altri. In genere, non m’interessano le star: sono più concentrata su chi ho avuto vicino.
Che qualità bisogna avere per essere assunti nella tua azienda?
Passione e persistenza. Il talento è molto sopravvalutato, forse è un’idea completamente inventata: non c’è nessuno che esce fuori dal grembo materno con un talento particolare. Devi imparare attraverso l’esperienza: provando e sbagliando. Forse qualcuno ha la mente più aperta e la creatività gli riesce più semplice, ma il grosso si ottiene con l’impegno.
Sei una designer infaticabile, ma anche una celebrità su Instagram.
Tutti i creativi vogliono mostrare i risultati del proprio lavoro: qualcuno ha una relazione più nervosa, qualcuno più serena con il pubblico, ma il punto è far conoscere le proprie idee al mondo. Per me Instagram è uno strumento fenomenale per entrare in contatto con la gente. Non è come andare a un evento, che per me può essere stancante: puoi rimanertene in casa e scattare una foto. Sono ancora stranita quando qualcuno mi ferma per strada, ovviamente so che il mio profilo ha molti visitatori, ma quando poi mi rendo conto che sono persone reali provo ancora un certo imbarazzo.
Qual è l’obiettivo più ambizioso cui può aspirare un designer?
A ottobre inaugureremo presso il museo MAK di Vienna una mostra intitolata Beauty. Il tentativo è quello di ricostruire la storia della bellezza e di come le persone reagiscono alla bellezza, psicologicamente ed emotivamente. Una parte di questa storia tratta del movimento funzionalista che, nelle derive più estreme, ha considerato l’idea di bellezza come una specie di eresia malvagia fino al punto di produrre oggetti in modo così austero che impediva loro anche di essere funzionali, tradendo l’assunto di partenza. Se non persegui la bellezza, non puoi essere funzionale, sei rigido. La bellezza può avere un ruolo sociale: ci sono diversi studi che collegano un’attenta progettazione urbana con l’abbassamento dei livelli di criminalità e incremento del benessere tra i cittadini.