«Sono sostanzialmente un pigro». Lo ripete più volte, Jonathan Franzen, durante l’incontro pubblico organizzato dal Literarisches Colloquium Berlin, prestigiosa accademia letteraria affacciata sul lago Wannsee, alle porte di Berlino. È il 5 giugno e il 59enne dell’Illinois si presenta in jeans e camicia, informale. Così come informalmente si racconta ai presenti: «Sono pigro, sul serio, ma anche molto ossessivo», precisa nel corso della conversazione con il giornalista Wieland Freund. «Quando inizio a fare qualcosa che mi appassiona non riesco a smettere». È con quest’attitudine, probabilmente, che è riuscito a conquistare, nel 2002, il National Book Award con il suo terzo romanzo Le correzioni, cui sono seguiti Libertà (2010) e Purity (2015). Ed è forse quella stessa ossessività che qualche tempo fa lo ha portato a dedicarsi al birdwatching e a interessarsi ai volatili in quanto esseri che possono aiutarci a ritrovare un legame con la natura. Il che lo ha trasformato in un ambientalista: «Avete presente quanti uccelli muoiono sbattendo contro i vetri dei nostri palazzi?».
Oggi di stanza non più a New York, ma nella californiana Santa Cruz, dove vive con la collega e compagna (termine che lo irrita e al quale preferisce «l’equivalente di una consorte») Kathryn Chetkovich, Franzen è in tour con La fine della fine della Terra, raccolta di saggi targata Einaudi che, tra le altre cose, lo vede affrontare la questione ecologista con quello spirito critico, oggi poco diffuso, consistente nel coltivare il dubbio e distanziarsi da qualsivoglia semplificazione. «Il problema è che quando si parla di cambiamenti climatici e del futuro del pianeta nessuno vuole dire la verità», afferma lo scrittore americano. «Nessuno ammette che l’aumento della temperatura oltre i 2 gradi centigradi è ormai inevitabile e, di più, provocherà sconvolgimenti che faranno aumentare le migrazioni, visto che interi territori diventeranno inabitabili. Negli Stati Uniti i Repubblicani sostengono che i cambiamenti climatici non esistono, ed è una menzogna. Dal canto loro, i Democratici dichiarano che se ci sforziamo un pochino possiamo risolvere il problema, ma anche questa è una bugia. Solo che se dici che il problema esiste, ma non si può risolvere, non piaci a nessuno». E continua: «Per fortuna non sono un politico e non devo mentire per avere consenso. Ci rendiamo conto che, per eliminare le emissioni inquinanti, solo negli Stati Uniti si dovrebbero spendere dai tre ai cinque trilioni di dollari in modo da ridisegnare completamente l’economia e il sistema dei trasporti secondo un’ottica di sostenibilità? Dovremmo credere che corporazioni e governi spenderebbero davvero quei soldi e saggiamente? Dovremmo credere che tutti gli americani che girano in Suv si decidano a rinunciare ai loro macchinoni? Non c’è possibilità che ciò avvenga e va detto, perché è questa la verità».
Lo dice con tono sicuro, lo stesso con cui attacca l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) definendolo «un’istituzione di cui non mi fido». E non preoccupandosi di mostrare un filo di spietatezza nel descrivere il suo sguardo sul mondo, ma al contempo cercando di far passare il messaggio che essere realisti non equivale a essere pessimisti senza se e senza ma. Bisogna cambiare atteggiamento, sembra essere la risposta di Franzen: «Essere onesti e iniziare dal piccolo, non dal grande, per esempio facendo qualcosa per salvare le specie animali in via di estinzione: basterebbe questo, anziché continuare a immaginare orizzonti utopici». Secondo lo scrittore che nel 2010 finì sulla copertina del «Time» come «great american novelist» (prima di lui, Stephen King nel 2000) non è giusto deprimersi troppo: «L’amore nasce anche in un mondo che muore», scrive in La fine della fine della Terra. «Non si può nemmeno essere sempre arrabbiati», spiega al pubblico attento del Literarisches Colloquium Berlin, prima di consigliare una lettura: «Vi raccomando Reason in a Dark Time: Why the Struggle Against Climate Change Failed—and What It Means for Our Future di Dale Jamieson. È un libro (del 2014; ndr) pessimista, ma divertente, perché di fatto è questo che ci siamo costruiti per il nostro futuro: una dark comedy».
L’umorismo nero come unico linguaggio possibile per narrare il presente e ciò che ci aspetta: è questo che suggerisce Franzen? Sì, ma auspica anche che si raggiunga almeno una dose di consapevolezza su «un’ideologia consumista che ci spinge a credere che possiamo ottenere qualsiasi cosa desideriamo, basta pagare», e che si ammetta non solo che ci sono questioni insolvibili – vedi sopra –, ma anche che «esistono problemi che, semplicemente, è sbagliato voler risolvere, come la morte». E qui l’autore di Libertà prende di mira «la Silicon Valley e i suoi miliardari che vogliono usare la scienza per vivere il più possibile». «Quanto sono stupidi?», chiede Franzen sarcastico. «È già stupido ricorrere alla tecnologia per costruire delle auto senza pilota: sai che conquista!». E dopo aver espresso perplessità nei confronti di quelle religioni che promettono l’eternità («non mi sembra una grande idea nemmeno questa»), conclude: «Neppure io sono contento di morire, per niente. Quel che cerco di fare è approcciarmi all’idea della fine non appiattendomi su me stesso, sulla mia individualità, ma trattando quell’idea come una realtà universale che ci riguarda e accomuna tutti. Si tratta di empatia ed è ciò che fa la letteratura da sempre: non risolve il problema della morte, ma lo rende più accettabile. Vorrei tanto che quei miliardari della Silicon Valley lo comprendessero».