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La madre di Pinketts contro gli amici del Trottoir: ma quale statua, scrivete una canzone

«Parlando di mio figlio non dirò mai le parole “riposa” o “morte”, perché lui è vivo, palpitante, reattivo», Mirabella Marabese racconta Andrea Pinketts: dalla prima poesia alla malattia, fino alla statua che gli verrà dedicata a Milano

«La statua dedicata a mio figlio? Una americanata di cattivo gusto. Sono contraria». La mamma di Andrea G. Pinketts è categorica sull’iniziativa avviata dal Trottoir, locale milanese che l’autore de Il senso della frase elesse a sua seconda casa e dove era possibile incontrarlo spessissimo mentre – con il panama in testa, il sigaro in bocca, una birra media al fianco e impugnando una Mont Blanc – scriveva i libri noir che lo hanno consacrato come uno degli autori più originali e affascinanti della letteratura italiana e non solo (era Cavaliere al merito culturale della Repubblica francese). A pochi giorni dalla premiazione del vincitore del bando, la signora Mirella Marabese ha messo da parte la consueta riservatezza per scagliarsi verso una iniziativa che la ferisce particolarmente. L’abbiamo raggiunta nell’abitazione nei pressi di Piazza Bolivar, che ha sempre condiviso con lo scrittore. È qui, che oltre a tuonare contro il monumento che verrà eretto nei pressi della Darsena, ci ha raccontato tutto l’amore di una madre per un figlio geniale. Ma mentre parlava, ci siamo accorti che forse, in quella casa, l’artista non era uno solo. «Andrea? È stato il mio romanzo più bello».

La titolare del Trottoir, Michelle Vasseur – amica storica di Pinketts – ha dichiarato che l’opera è un omaggio e un modo per far conoscere lo scrittore alle future generazioni. Cosa non apprezza del progetto?
La statua non l’ho vista, non ho firmato nulla, non mi piace l’idea, la trovo kitsch e di cattivo gusto. Nel caso venisse realizzata non vorrò mai vederla, perché è un colpo al cuore, mi ridice ancora una volta, straziandomi, che mio figlio non c’è più. E invece preferisco ricordarlo bello, aitante, elegante, rispetto a raffigurato in una statua, che mai riuscirà a realizzare la sua bellezza fisica e intellettuale.

Non era stata avvisata dell’iniziativa?
A pochi giorni dalla scomparsa di Andrea ero con un gruppo di persone a pranzo che dissero come pourparler: “Gli faremo una statua”. Non presi sul serio questa frase, perché non era il momento. Questo genere di iniziative si prendono, eventualmente, facendomi domande dirette, visto che si tratta di mio figlio. Si parlò invece in modo vacuo e non ci diedi peso. Poi ho avuto molte cose più importanti a cui pensare. Attraversavo, attraverso e attraverserò sempre un periodo molto difficile. Se mi dicessero che vogliono intitolargli una strada, riprenderei i miei scintillii di gioia. Ma una statua no.

Come mai?
Ricordo la statua intitolata a Giordano Rota, direttore del Teatro Nazionale, un amico di famiglia nonché padrino di Andrea al battesimo. Quando la vidi, oddio, fu un colpo al cuore. Era una specie di spettro, fu scioccante. Si immagini con le sembianze di mio figlio. Una piazza sì, una via sì, persino una canzone, con molta gioia. Ma non una statua in un locale pubblico, dove c’è gente che beve, che ride, canta, balla, come è ovvio che sia, certo, però non è una forma di rispetto. E Andrea merita invece tutto il rispetto.

“Una città è fatta anche delle parole scritte per raccontarla. Le frasi di Andrea Pinketts, oggi scomparso, sono ritmo e cadenza di Milano, e lo saranno sempre”, aveva dichiarato l’assessore alla Cultura del Comune, Filippo Del Corno. E anche il sindaco Sala aveva twittato: “Con la sua penna ha raccontato Milano in modo unico, come solo un vero milanese avrebbe potuto fare”. Si è più fatto sentire qualcuno dalle istituzioni?
Nessuno. O forse non ancora. Si era parlato del Famedio al Cimitero Monumentale di Milano, ma senza concretezza. Credo però che ci vogliano anni, non tanto per il valore artistico, culturale scientifico, quanto per questioni burocratiche. Mi era stato detto, con la medesima vacuità, che Andrea sarebbe andato senz’altro al Famedio attraverso il sindaco. Ma è un discorso che non è mai stato approfondito.

Tornando alla statua al Trottoir, quel bar ospitata la “sala Pinketts” dove ha creato tanti dei suoi romanzi e in quel luogo era sempre presente.
Io sono estranea a questi discorsi. Il locale è stato intestato ad Andrea molti anni fa. Sono grata al Trottorir come il Trottoir deve essere infinitamente grato ad Andrea. Lui aveva bisogno di tutta quella gente intorno, perché dal frequentarla traeva esperienze di vita, esempi, vissuti, cultura, ignoranza, presente, futuro, tutto. Per me non è così. Anche io scrivevo, ma in perfetta solitudine. Io sono una solitaria, lui invece è plateale. Ognuno è fatto a modo suo. Ma vuoi chiedermi se Andrea sarebbe contento di questo?

Glielo chiedo: sarebbe contento?
Risponderebbe così: chiedete a mia madre.

Come mai?
Perché mi considerava un esempio di buon gusto, di stile, di eleganza. Ripeto, una via, una piazza, una canzone sì. Ma non un luogo in cui la gente va a divertirsi.

Nell’ultima intervista che mi rilasciò, la definì una figura “cechoviana”, che se fosse vissuta all’epoca sarebbe stata una russa zarista, non politicamente, ma come concezione letteraria e culturale. È sicura di non essere lei la vera artista di casa?
Modestamente credo di avere un lato artistico accentuato. Però Andrea non mi esponeva perché voleva difendermi da questo ambiente. Sapeva che amo la solitudine. Se qualcuno mi annuncia una visita inorridisco, mi viene l’orticaria. Amo stare sola, fin da quando ero giovane. È una grossa fortuna. Andavo alle sue premiazioni o qualche presentazione. Ho 88 anni, tutti se lo dimenticano ma ci sono.

Eppure anche lei scriveva e, a quanto dicono, anche molto bene.
Ho sempre amato scrivere. Però l’ambiente artistico non mi ha mai stimolato la curiosità. Le persone invece sì. Scrivevo poesie. Andrea non aveva timore della mia personalità. Oddio, Marta Marzotto mi disse che ero una madre un po’ ingombrante. Certamente non sono una mamma da mettere in un angolino, perché su tutto posso dire la mia. Lui, comunque, non era sovrastabile per cultura, carisma e fascino.

Che rapporto avevate?
Le madri tendono a ridimensionare i figli. Io invece gli dicevo “tu puoi”. Questa era la nostra frase, gliela ripetevo spesso: “Tu puoi, tu puoi, tu puoi, arrivare ovunque”. Dove io sono volata con i sogni, lui è arrivato davvero in alto. Le racconto questo episodio di quando aveva tre anni alla stazione di Verona. A un certo punto si rivolse a me: “Mamma, dammi mille lire che vado a prendere un caffè”. È sempre stato così.

Come vive la sua mancanza?
Parlando di lui non dirò mai le parole “riposa” o “morte”, perché lui è vivo, palpitante, reattivo. Ho ereditato tutti i suoi amici. Che mi hanno cercata, mi sono vicini, mi sostengono. E loro mi hanno risposto: noi abbiamo ereditato te. Proseguiamo insieme questo grande discorso affinché Andrea non venga dimenticato, relegato nel cassetto come tanti celebri scrittori. Credo però che sarà difficile che accada, per i rapporti umani che ha instaurato. Lo commuovevano particolarmente i ragazzi con disabilità. In qualsiasi posto andasse si rivolgeva prima di tutti a loro, aveva questa sensibilità.

Cosa la faceva più arrabbiare?
Quando eccedeva nelle libagioni. Ma giuro che in casa non beveva nulla. Non ha mai bevuto, vino, birra, liquore. Per questo mi faceva arrabbiare ancor di più. Ci sono vari motivi per bere, perché ti piace, perché promuove disinibizione e quindi è tipico dei timidi. Ma Andrea non aveva nessuno di questi motivi per farlo. Quindi si lasciava prendere dall’emulazione di Hemingway o Bukowski, i grandi narratori che hanno influenzato la sua infanzia. Ma nello stesso tempo non ho mai visto mio figlio in casa senza un libro in mano. Ah, poi sa quando mi faceva arrabbiare?

Mi dica.
Quando andava a scuola e mi portava la lista dei libri da acquistare. Io l’ho sempre lasciato molto autonomo. Ma in questo caso, quando poi passavo in libreria per pagare scoprivo che non aveva comperato nulla dei libri scolastici, ma solo libri che lo interessavano. Comunque, aveva una capacità di apprendimento tale che gli bastava sbirciare nei libri degli altri per apprendere. Perché bevesse tanto, però, credo fosse per spirito di imitazione. Tutti noi da bambini abbiamo dei miti. Anche Fernanda Pivano, sua grande amica, diceva che beveva per imitazione. Gli dava piacere quella immagine, tanto che lei lo definì “un duro con il cuore di meringa”.

Come ha vissuto il periodo della malattia? Lui è sempre apparso ottimista, persino in ospedale ha tenuto flash mob letterario.
Mio figlio non mi ha mai visto versare una lacrima o avere una contrazione per il dolore. Ho sempre retto la tragicommedia perché non volevo assolutamente che lui potesse immaginare di morire. Il suo grande terrore, ammise agli amici, era che io morissi prima di lui. Diceva: quando morirà mia madre finirò di esistere. Ciò spiega la comunicazione spirituale, intellettuale e persino sentimentale che c’era tra me e mio figlio. Eravamo un’anima sola. È rimasto orfano a 6 anni del padre e siamo sempre vissuti insieme. Sono rimasta vedova a 36 anni e da quel momento ho riposto in lui tutte le mie speranze, la mia vitalità, il mio modo di vivere e creare e lui ha captato tutto avendo una enorme sensibilità. Sa cosa mi disse un’altra volta da piccolo?

Sono curioso.
Le mamme si adorano. E io ti adoro.

Le faceva mai regali?
Per la festa della mamma. Mi portava un grande vaso di gardenie, tutti gli anni. L’anno scorso purtroppo è appassita perché non potevo accudirla. Adesso l’ho ricomprata e continua a fiorire. Quando lo penso vado a baciare un fiore e gli dico “ciao Andrea” e mi sento in comunicazione con lui. Ma lo spirito è indomito, l’energia non muore mai.

Il fatto che avesse avuto molte donne l’ha mai ferita?
No, perché non ne ha mai amata nessuna. Come nella poesia di Pasolini, “Supplica a mia madre”. Freud scrisse: per il figlio il primo amore è la mamma e viceversa il padre per una figlia. Ancora di più per i figli unici, com’era lui. Infatti, il più grande dolore della mia vita, dopo la scomparsa di Andrea, è stato quando è mancato mio padre. Nello stesso modo, Andrea era me stessa. Cercava quello che io ero, quello che sono. Non era morbosità, ma l’aspirazione a un ideale di donna che si trova dal primo vagito di bambino, quando si aggrappa al seno gonfio di latte. È un’immagine poetica bellissima, intima. Tra me e Andrea c’era una telepatia fortissima, pensavamo le stesse cose. Io con le sue compagne, infatti, mi annoiavo a morte. Le trovavo incolte. A tavola parlavo da sola. Mi facevo le domande e mi davo le risposte. Una noia che non le dico.

In questo periodo non ha pensato di scrivere un libro su suo figlio?
Me l’hanno proposto, anche perché so scrivere. Per prima cosa ho 88 anni e mi chiedo se farò in tempo. E poi mi dico: cui prodest? Per appagare il mio ego? Ma il mio ego è stato completamente appagato da quello che ha scritto Andrea. Perché uno scrive anche per far vedere agli altri quello che è capace di fare. Però è Andrea il mio romanzo più bello, purtroppo con una tragica fine.

Cosa apprezzava del suo stile di scrittura?
Nei suoi scritti c’è tutto: cultura, ironia, sentimento, rabbia, cinismo, un desiderio ludico appagato e non. A chiunque apra un libro senza sapere l’autore, gli basterebbe leggere la prima riga per capire che è il suo. La vuole vedere la prima poesia che scrisse per il giornalino scolastico in cui si firmò Andrè Pinklaire?

Assolutamente sì.
Anzi, gliela leggo. Si intitola Annegavi in un ruscello.

Annegavi in un ruscello,
sono accorso immantinente
e sfilandoti l’anello
detto d’ho: fra noi più niente.

Mi guardavi un po’ allibita
affondando senz’aiuto
con le affusolate dita
che accennavano a un saluto

Mi son chiesto: – val la pena
di bagnare il mio vestito,
se la sera prima appena
mi volevi per marito?

Ripensavo poi al momento,
alle bolle di sapone,
le parole che col vento
si son perse col tuo nome

e osservavo interessato
tutte quelle bollicine
che dall’acqua verso il prato
celebravan la tua fine.

E va bene, l’hai voluto,
ti ridò la tua cravatta,
il bambino mai cresciuto
che inventavi, vecchia matta.

Annegavi in un ruscello,
e la fine di un amore
e quel freddo venticello
m’han lasciato un raffreddore.

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