Le campagne pubblicitarie Lavazza ci hanno abituato da tempo ad ampiezze dell’arco narrativo degne del Marvel Cinematic Universe (vedi la serie di spot tv Paradiso Lavazza) e a messaggi che restano profondamente impressi nella mente del pubblico (vedi “Più lo mandi giù e più ti tira su”). Dopo trent’anni la saga dei Calendari è giunta a un capitolo più che mai degno di Hollywood e più che mai rilevante per contenuto, perché realizzato da Emmanuel Lubezki, in arte Chivo, direttore della fotografia per tre volte Premio Oscar (Gravity, Birdman e The Revenant) e perché consacrato al proposito di cambiare il mondo attraverso piccoli cambiamenti quotidiani, sotto la direzione creativa dell’agenzia Armando Testa.
Lunedì giornalisti da ogni parte d’Europa erano a Firenze per assistere alla presentazione del Calendario Lavazza 2022, che comprende dodici immagini di sei artisti-attivisti, di seguito artivisti: dalla rapper afgana Sonita Alizada alla street dancer afroamericana Shamell Bell. Il parterre stampa era variegato almeno quanto quello dei soggetti ritratti. L’inviata della televisione di stato austriaca ORF, ad esempio, era volata da Vienna vestita letteralmente di un sacco di juta marchiato Café do Brasil.
Nel corso dello svelamento delle immagini Palazzo Vecchio si faceva improvvisamente un po’ più nuovo, soprattutto mentre i pennacchi delle sue volte si animavano con una proiezione di Ben Harper alle prese con un remake del suo pezzo With my own two hands reintitolato I can change the world, che è anche il claim del calendario (ma è appunto un piccolo cambiamento: era già l’attacco del brano). Harper, impegnato contro le disuguaglianze sociali e nella sensibilizzazione verso gli effetti della crisi climatica, figura nei mesi di gennaio e febbraio.
Livia Giuggioli Firth ospitava la première del calendario all’interno dei Renaissance Awards, organizzati dalla sua Eco-Age. Il giovanissimo land artist francese Saype (novembre e dicembre) rispondeva alle domande dell’attivista e imprenditrice (di seguito attimprenditrice) con l’aria di averne appena fatta una grossa, come Valentino Rossi prima maniera.
In tutte le fotografie del progetto tornano le due caratteristiche fondamentali dell’arte cinematografica di Chivo: la luce naturale e il piano sequenza. La luce naturale, a volte sfuggente sul ghiaccio, a volte più ottimisticamente posata sull’erba, mette in risalto il realismo delle istanze presentate e l’immediatezza dell’invito all’azione che ne scaturisce. Il piano sequenza che si genera da queste immagini statiche è, per forza di cose, diretto dai nostri pensieri, le nostre speranze e anche una certa strizza, soprattutto se si considera che uno dei ghiacciai che Chivo avrebbe voluto fotografare si è sciolto la notte prima degli scatti, mai avvenuti.
Lavazza e Armando Testa sono insieme da settant’anni ma sembrano ancora freschi di matrimonio, come dei ragazzi nonni da guardare come punti di riferimento nel mondo della comunicazione italiana, oggi sempre più frantumato e privo di figure guida. «Come diceva Picasso: ci vogliono molti anni per diventare giovani», ci ricorda Francesca Lavazza, consigliera d’amministrazione dell’azienda di famiglia di cui rappresenta la quarta generazione insieme al fratello Giuseppe. Francesca emana tutto il carisma e la determinazione di chi ha la responsabilità di personificare un gruppo industriale multinazionale da quattromila dipendenti e di trovare comunque il tempo di rispondere a domande come:
La bellezza non è più negli occhi di chi guarda ma nelle mani di chi agisce?
Oggi siamo qui a raccontare un progetto corale.
Qual è la più bella reazione che si aspetta dal pubblico di questo calendario?
Poco fa vedere Emmanuel Lubezki commuoversi mentre parlava del suo lavoro mi ha fatto capire la portata di questo progetto, la sua reale capacità di coinvolgere. Siamo bombardati da immagini e messaggi, e poco, veramente poco ci tocca nel profondo. Noi vorremmo sfiorare delle corde più intime e personali. Se altri giovani trovassero il coraggio di aprire un’associazione o una start-up vorrebbe dire che questa piattaforma, nata piccola, si propagherebbe già. Questo sarebbe il risultato più importante.
(Dall’edizione 1996 con Maria Grazia Cucinotta bomba sexy fotografata da Ferdinando Scianna per le vie di Martina Franca a Sonita Alizada, nata sotto il regime talebano, fotografata da Chivo mentre posa orgogliosa in una simbolica piantagione di microfoni, è passato un quarto di secolo e si sente tutto. C’è stata una rivoluzione copernicana nei temi: al centro non c’è più la metaforizzazione del fascino femminile sotto forma di alcaloide altrettanto naturale rispetto alla caffeina – in grado di riattivare vie sonnacchiose con un solo sorso di capelli corvini – ma il dialogo fitto tra la coscienza di chi produce queste immagini e di chi le osserva).
C’è un’edizione del passato che ricorda con particolare affetto?
Sicuramente la prima in assoluto, trent’anni fa, firmata da Helmut Newton: un progetto iconico, totalmente anticonvenzionale. All’epoca, soprattutto in Italia, si parlava di caffè solo come di un prodotto per famiglie. Newton mise l’accento sulla sensualità, sul calore, sull’edonismo che poteva esserci dietro. Attraverso questo oggetto-regalo un grande maestro della fotografia interpretava il suo rapporto personale con il caffè. Un’altra edizione che vorrei ricordare è quella di David LaChapelle nel 2002. Passando dal bianco e nero al colore il calendario divenne uno strumento per raccontare l’identità e i valori del marchio a livello internazionale con un registro glamour, pop.
Come siete arrivati a un concept impegnato come quello di Chivo?
Circa dieci anni fa in azienda abbiamo cominciato a discutere in maniera approfondita di etica e di sostenibilità ed è nata la Fondazione Lavazza. Il calendario ha seguito questo nuovo corso, ha lasciato un mondo immaginario e onirico e si è concentrato, ad esempio, sulla realtà di chi lavora la terra, nella trilogia degli Earth Defenders, o sulla chiamata alle armi di 2030 What Are You Doing?.
Emmanuel Lubezki è ovviamente coltissimo per essere uno che ha scelto un nome d’arte traducibile con “capra”.
Maestro, questa mattina, svegliandosi, ha notato dei cambiamenti nel mondo?
Questa mattina sono stato svegliato (ride) e avevo anche parecchio jet lag. Ed ero un po’ nervoso perché avrei dovuto parlare in pubblico, che è una cosa che odio.
Ma il suo intervento è stato bellissimo e toccante. Come pensa che il pubblico risponderà al progetto?
Vorrei che una comunità di persone si appassioni a ciò che questi artivisti stanno facendo e si unisse a loro per promuovere il cambiamento. Soprattutto se questa comunità fosse fatta di giovani pieni di voglia di aiutare il pianeta a guarire, visto che il tempo a nostra disposizione sta per finire. Ma è fondamentale anche quello che, in questa stessa direzione, possono fare le grandi imprese. Perciò rispetto così tanto Francesca e Lavazza. E sarebbe essenziale se anche altre imprese cominciassero a pensare a come evolvere e diventare più sostenibili.
Una presentazione di calendario non era mai stata così tanto simile a un vernissage, il prima da fotografo puro dopo una carriera da direttore della fotografia per capolavori del cinema. E si è tenuta a Firenze, la culla del Rinascimento. Le sue foto sono in effetti rinascimentali, con i personaggi fermamente al centro della composizione, in forte interconnessione con l’ambiente, che non fa solo da sfondo. Lavorerà ancora come fotografo in senso stretto, in futuro?
È vero, queste foto sono estremamente classiche nell’impianto compositivo. Sono certo che da qualche parte nel mio DNA ci deve essere traccia dei grandi maestri del Rinascimento, anche se di certo non sono uno di loro. Per scattare le foto del calendario è stato essenziale stabilire una forte relazione con gli esseri umani da ritrarre e il contesto in cui erano collocati. Non ho ancora pensato a ripetere un’esperienza del genere, ma sono stato fotografo ben prima di diventare direttore della fotografia. Scatto foto ogni giorno. Non le pubblico perché ho poco tempo dal lavoro quotidiano e, in fondo, non sono sicuro che il pubblico sarebbe interessato a vederle tutte…
Una domanda seria: come prepara il caffè?
Esco di casa, cammino per un paio di miglia e mi fermo in un coffee shop per un espresso, quasi sempre da solo. È una delle mie cose preferite al mondo.
Shilpa Yarlagadda (settembre e ottobre) è una designer di gioielli cresciuta nella Silicon Valley che, con la sua “Startup Girl Foundation”, dona metà dei suoi profitti alle aziende che supportano l’emancipazione delle donne.
Cosa porterà con sé di questa giornata?
Prima di tutto l’amicizia con Chivo, Francesca, Livia e gli altri. Poi l’emozione che ho provato davanti al pubblico nel sentirmi pervasa dall’energia del gruppo, soprattutto considerato che veniamo tutti da un periodo caratterizzato dalla pandemia. Il problema di procedere per piccoli cambiamenti quotidiani è che spesso trascuriamo i reali progressi che facciamo. Quando li fissi per un attimo, come abbiamo potuto fare oggi, magari con persone che non vedi ogni giorno, ma con cui hai una grande affinità, i progressi diventano tangibili. Posso dire di essere veramente fortunata a essere qui.
È la sua prima volta in Italia?
Ero stata proprio a Firenze per un solo giorno durante un viaggio con la scuola. Tornare nei palazzi e nelle piazze della città in cui è nato il Rinascimento per lavorare a un nuovo rinascimento, usando l’arte come mezzo in grado di ispirare il cambiamento, è stato un deja-vu semplicemente troppo bello per essere vero.
E lei come prepara il caffè?
Non ne bevo spesso come tanti miei amici e colleghi, perché sono abbastanza energetica di mio (ride). Se lo bevo in America aggiungo del latte d’avena. Siamo fatti un po’ così, da quelle parti: alcune volte teniamo più al condimento che alle basi, come coi topping sulla pizza…
Meglio non farlo sapere a Francesca?
Qui lo bevo senza latte d’avena!