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Liv Ferracchiati: «Chi dice di essere no gender, in realtà è pro gender»

Autore, drammaturgo, regista, scrittore. Il mondo di uno dei drammaturghi più cool del momento e i temi a lui cari raccontati a Rolling Stone

Foto: Mario Zanaria


Per chi non fosse avvezzo al teatro, forse il suo nome non dirà molto, ma chi ama la letteratura conoscerà sicuramente Liv Ferracchiati: autore, drammaturgo, scrittore. Riesce a entrare in temi attuali rendendoli universali, probabilmente grazie alla capacità di metterci del suo, come accade nel libro Sarà solo la fine del mondo (edito da Marsilio), in cui parla della vita di Guglielmo Leon, ragazzino che, fin dalla pancia, parla al lettore come un ragazzo, per poi scoprire che, nella realtà, il corpo nel quale è nato è femminile. Non è un’autobiografia, ma un modo per trattare temi cari a Ferracchiati, che ha messo la sua vita a servizio dell’arte. E, attraverso un personaggio di fantasia, struttura un racconto dove esistono un po’ delle sue esperienze, seppur romanzate. I suoi lavori on stage, nel frattempo, hanno avuto sempre più eco e riconoscimenti: dopo aver fondato la Compagnia The Baby Walk, scrive e dirige Todi Is a Small Town in the Center of Italy, Peter Pan guarda sotto le gonne e Stabat Mater (Premio Hystrio Nuove Scritture di Scena 2017), selezionati per una retrospettiva monografica alla Biennale di Venezia nel 2017. L’ultimo capitolo della Trilogia sull’Identità, Un eschimese in Amazzonia, si è portato a casa il Premio Scenario. Un mondo, quello di Liv, che va scoperto passo per passo, come cerchiamo di fare con questa intervista.

Cosa rappresenta, per te, la parola come attore e teatrante?
Non sono un attore, ma per onestà devo dire che sono performer: sto in scena in testi che scrivo io. Significa portare una certa qualità di scrittura che diventa tridimensionale, ed è agita dal corpo in maniera estremamente precisa.

Come mai?
Perché, per quanto possa dirigere gli attori – che poi non li dirigo, per me è più un dialogo attraverso il quale si arriva a realizzare la scena –, la parola “regia” ha a che fare con qualcosa di monarchico: qualcuno che dirige gli altri e dice ciò che devono fare è un concetto che non mi piace per niente. Nelle locandine faccio mettere “di”, invece di “regia”. Il mio è uno sguardo autoriale, ma si compone insieme agli altri attori, alle loro proposte, la loro improvvisazione e i confronti che avvengono a tavolino con la loro creatività. A quel punto prendo, modifico e cerco di incanalare tutto nella mia scrittura.

Quindi, tornando alla parola, cos’è?
Intanto è tridimensionale, in quanto in teatro non si può portare una cosa troppo letteraria: deve essere un po’ sporca e carnale, che passa attraverso i corpi. Spesso la parola non basta a teatro, come nella vita. Noi diciamo una cosa, ma ci sono altri tremila sottotesti. Per me la parola deve essere azione, è una parola performativa verso chi è in platea.

A parte la parola, anche l’identità è molto importante, nei tuoi lavori.
Parto sempre da una domanda che può dare le vertigini.

E cioè?
“Chi sono?” E chi sono io anche per capire le persone che ho intorno e come funzionano le relazioni. Scrivo principalmente testi teatrali e, per fare questo, devo osservare molto quali sono le caratteristiche delle persone vere che ho intorno, le dinamiche e le peculiarità che traspongo in testo teatrale. Mi interessa scomporre le convinzioni che assumiamo, i tasselli identitari che formano la persona che siamo. Capire come ci andiamo a comporre e, quindi, smontare questi tasselli identitari. Perché l’identità è un limite, ma ce ne dobbiamo servire. A me non viene in mente un piano B rispetto a questo per comunicarci agli altri: dobbiamo capire come può diventare uno strumento a nostro favore per narrarci.

Il tuo libro è dedicato, oltre che ai tuoi genitori, anche agli uomini e alle donne del futuro. Chi sono?
Persone che, in parte, sono già nel presente, ma avranno talmente consapevolezza delle cose di cui parlo che non saranno nemmeno più un tema caldo come oggi.

Spiegati meglio.
Quando si parla di identità sembra qualcosa di molto specialistico, come se interessasse ad alcuni e non ad altri, mentre invece l’identità la compongono tutti. Non capisco come mai ad alcuni non interessi come comunicano se stessi agli altri. Ognuno ha composto un’identità, così come tutte le persone che appartengono alle minoranze e che, per rendersi parte integrante di un gruppo sociale, in qualche maniera la tiene un po’ in disparte.

Effettivamente hai ragione: tutti ci costruiamo un’identità.
Già, e mi ha sempre incuriosito il perché sia ritenuto ad appannaggio di alcuni e non di altri. Gli uomini e le donne del futuro saranno consapevoli di queste faccende. E saranno totalmente autori di sé nel costruire la propria identità. Ad esempio, a me fa molto ridere trovare nelle librerie i testi di Paul B. Preciado nella sezione lgbtq+. Va benissimo, sono più che a favore dell’associazionismo, però è come mettere il filosofo Talete nella sezione “idrologia”, visto che diceva che il principio di tutto è l’acqua. Fa ridere, ma mi dà la percezione che certi temi sono universali e interessano tutti. Tutta la faccenda dei confini, paradossalmente, per cui ci si scontra in tanti sensi, non avverrebbe se si avesse la consapevolezza di come ci costruiamo.

E quali sono i tasselli che compongono te come artista e uomo?
Siamo il risultato di tanti fattori, ma sento forte in me la provenienza da un piccolo paese di provincia e il fatto di essere un teatrante. La mia provenienza famigliare è molto normale, nella periferia di Todi. Una famiglia che non mi ha mai fatto mancare niente, mi ha sempre sostenuto, ma non fa parte dell’ambiente che frequento adesso. Ho dovuto scoprire tutto da solo, capire determinati meccanismi e farmi strada. Ho sempre capito che le cose si ottengono con studio, fatica, ed è un marchio per non arrendersi alle difficoltà, ma trovare un modo creativo per aggirarle.

E la parte teatrante come influisce?
È la parte creativa e nomade. I teatranti, per natura, non riescono a stare fermi in un posto.

Sebbene i tuoi lavori teatrali siano sull’identità, nel libro Sarà solo la fine del mondo l’identità non è il fulcro, ma uno dei tanti elementi che compongono la persona.
Esatto. Io tengo laboratori di drammaturgia con ventenni e, quando vogliono trattare una coppia in crisi e magari tra queste c’è un personaggio omosessuale o transgender, per loro il fulcro è trattare la crisi, non l’omosessualità o il transgenderismo del personaggio. È un passo avanti enorme. Tra l’altro, mi dicevano che una docente di drammaturgia più “classico” ha chiesto a uno studente se volesse trattare l’omosessualità.

E…?
Lo studente era indignato perché voleva analizzare le dinamiche di una coppia. Per le nuove generazioni alcuni temi sono superati. Sono questi gli uomini e le donne del futuro di cui parlavo.

Tornando a Guglielmo Leon, il protagonista del tuo libro, e la sua identità…
Ha anche questo aspetto nella sua vita. Ma è un personaggio che vive delle avventure e ha pure questa caratteristica che catalizza alcune esperienze. Guglielmo Leon è raccontato come una persona che può farcela, non come alcune narrazioni indirizzate verso sconfitte e dolori. Lui le ha, ma ce la fa, ed è un modo per cambiare il punto di vista su certe tematiche.

Tornando a te. Nonostante il talento, non hai paura che l’attenzione verso il tuo lavoro sia dovuta anche a un qualche tipo di morbosità su certi argomenti e verso quello che rappresenti?
Verso questi argomenti per alcuni c’è. Non per tutti, fortunatamente. Non su di me, ma sul tema resta qualche morbosità, a volte faccio fatica a far capire che Sarà solo la fine del mondo è un romanzo di formazione, una storia universale, di crescita. Mi capita di pensare di essere come George Eliot, pseudonimo di Mary Ann Evans, che ha dovuto prendere un nome maschile per non essere considerata di serie B. Ce ne sono state tantissime che non hanno fatto sapere di essere donne per evitare di rientrare nella letteratura di genere. Lo stesso vale per me, considerato come uno che tratta tematiche specialistiche. È una prospettiva sbagliata.

A questo proposito, in questi ultimi tempi ci si riempie spesso a sproposito la bocca con parole come fluidità, non binary, e così via. Spesso, però, non si ha contezza o conoscenza di quello di cui si parla.
È molto dannoso e, da una parte, un po’ la tesi e l’antitesi si scontrano. Probabilmente arriveremo a una sintesi su questi temi, magari fra una cinquantina d’anni, se ci saremo ancora, visto quello che ci gira intorno. Ci vuole ancora un po’ di tempo perché la massa assorba certi concetti e ne diventi consapevole. Ed è anche “nelle cose” che vengano trattate in modo impreciso. L’importante è che entrino nelle case. Bisogna dire, però, che ci sono pure persone che maneggiano bene l’argomento, mentre altri lo fanno in maniera pruriginosa, senza approfondire. E poi sono tematiche che riguardano tutti.

Ecco, ti chiedo di spiegarmi meglio questo punto.
Come si costruisce un’identità di genere è interessante per tutti, perché tutti lo fanno. Un uomo che si mette giacca e cravatta non lo fa perché, per sua natura, si vestirebbe così, ma perché aderisce a un canone. Idem una donna. È il gusto della società in cui stai, della cultura in cui sei cresciuto. Non è un tuo gusto. E quindi questa cosa va saputa: è una cosa che è stata indicata e a cui si può aderire o no.

Cosa mi dici allora di quelli che fanno battaglie per il “no gender” nelle scuole? Non hanno ben capito?
Già come viene definito, “gender” è una parola a casaccio, sembra un’entità, mentre “gender” vuol dire “genere” in inglese. E dire che si è contro il genere non vuol dire nulla. Tanto più che chi dice di essere contro il genere è proprio quello che vuole rimanergli attaccato per la costruzione identitaria che ha messo in piedi. Quindi è pro gender, perché non vorrebbe fluidità e contaminazione tra i generi.

Quindi i politici che dicono di essere no gender sono pro gender.
Secondo me sì, però non li nominerei neanche perché daremmo loro uno spazio che non meritano, per le loro idee talmente misere.

La figura dell’altro, nel libro come, ad esempio, verso il pubblico, cosa rappresenta?
Nel libro Guglielmo Leon si relaziona con personaggi che lo aiutano a costruire quello che è, e lui aiuta loro a costruire quello che saranno. Dalla relazione, anche attraverso lo sguardo dell’altro, componiamo la nostra identità. Lui ha la facoltà di entrare così in profondità nel rapportarsi all’altro che niente rimane in superficie. Guglielmo Leon è in grado di trasmettersi così radicalmente e in modo talmente vero che è come se succedesse qualcosa. E, quando succede qualcosa, si cambia, la percezione si sposta. È un incontrarsi, come se fosse una performance, si supera questo incontro trasformati. Gli altri sono una possibilità di evoluzione, di cambiamento.

Lo stesso discorso riguardo al pubblico, al lettore?
Nel libro la voce narrante si relaziona sempre al lettore per tre quarti di libro. Questo arriva dal teatro e dalla mia volontà di indagare l’incontro reale, carnale, di percezione con lo spettatore e tenerlo lì presente. A volte in teatro c’è una visione passiva, mentre in quello che faccio io gli attori stanno dentro e fuori, in relazione con la platea. Non è meta-teatralità, ma tenere in considerazione che c’è un altro attore che spesso il teatro dimentica, ma che va coinvolto: il pubblico, la cui energia può modificare ogni sera lo spettacolo. Nel libro cerco di fare una cosa di simile col lettore. Il tentativo è di coinvolgerlo, tenerlo con me e passare del tempo insieme. L’altro è qualcuno con cui fare accadere qualcosa, anche di impalpabile, ma che ti sposta nella percezione, per lo meno.

Il corpo, invece, è un limite o un veicolo di libertà?
Per me è un segno, uno strumento d’espressione con i suoi limiti e la possibilità di essere libero, qualcosa che comunica.

Anche il nome assume una valenza determinante.
Sì. Proprio perché assumiamo convenzioni e forme per comunicarci agli altri, nulla ci definisce a pieno, mentre con il nome ci possiamo riassumere tutto. Se tu mi conosci sai come sono e, in qualche maniera, hai la possibilità di una pennellata che racchiude tutto il mio essere. Non è fondamentale raccontare ogni tassello, ma essere noi nella sua complessità, come fa Guglielmo Leon attraverso il nome che si sceglie. Noi non sappiamo come si chiama per gran parte del libro, e poi ce lo dice: Guglielmo è la sua parte apollonia e Leon quella dionisiaca. Da un lato c’è lui che cerca di trovare una forma, un equilibrio, dall’altra un finire selvaggio che lo porta a vivere una vita intensa, ma anche pericolosa.

A cosa stai lavorando?
Ho debuttato con uno spettacolo di fantascienza sull’identità e sulle convenzioni che assumiamo più o meno consapevolmente. E sto lavorando a Hedda Gabler, un testo di Ibsen che dovrebbe andare in scena il prossimo anno.

Identità a parte, chi sei oggi?
Impossibile dirlo. Definirsi è un limite, mettersi dei paletti e credere di doverli avere. Bisogna essere il più possibile in ascolto del momento e di quello che accade.

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