Quel che rende un artista un vero intellettuale non è l’erudizione più eloquente, ma la capacità di tessere delle reti connettive fra differenti discipline, unire materiale e immateriale, provare a descrivere il mondo. In questo caso, a colori. Manuele Fior è un puro intellettuale, dotato di una sensibilità estrema nel collegare la nostra realtà con la dimensione dell’immaginazione, annettendo storie distanti per millenni e vicine per emozioni. Col suo nuovo romanzo a fumetti Hypericon (da pochi giorni pubblicato per Coconino Press) raggiunge una delle sue vette nella sintesi narrativa, una storia con istanti dilatati, geometrie vitali e scrittura brillante, ma anche con personaggi intimamente caratterizzati. Hypericon racconta di Teresa, scelta come assistente scientifica per l’allestimento della grande mostra a Berlino del tesoro di Tutankhamen. Approdata nella capitale tedesca incontrerà Ruben, giovane artista italiano, che vive la città con l’indipendenza dei suoi vent’anni e sull’onda del cambiamento sociale. Il fumettista riesce magistralmente a intersecare la narrazione dei due ragazzi con i giorni della scoperta della tomba del faraone egiziano, e lo fa usando un fiore. Sullo sfondo, l’arrivo del nuovo millennio e una Berlino meravigliosamente metropolitana, liberata dall’oppressione del dopoguerra e pronta a rinnovarsi all’insegna del multiculturalismo. Questo momento di ricongiungimento non corrisponde solo alla caduta del muro ma anche all’imminente inizio di un mercato unico europeo e di una libertà di circolazione fra nazioni estremamente più immediata. È qui che il pennello di Fior diventa memorabile, sia nelle tavole più intime, coi protagonisti che vivono una dimensione domestica e sociale di grande intensità, sia nella riproduzione artistica di una città in potente trasformazione. Una terra di conquista per i giovani, pronta ad accogliere ragazzi da tutta Europa con l’intento di vivere pienamente. Accanto a questo entusiasmo c’è la paura per i cambiamenti in atto, la tensione a tratti palpabile per un futuro imprevedibile, un vertiginoso senso di insostenibile leggerezza kunderiana. C’è l’affetto e c’è il sesso, mostrato senza filtri eppure delicato e affettuoso, a cui forse solo l’amore giovanile può condurre. Fior è sontuosamente padrone della narrazione e della tecnica, regalandoci due personaggi indimenticabili (come sempre nelle sue opere) raccontati attraverso il pensiero e le parole di Teresa. I suoi entusiasmi, i timori, l’insonnia e lo smarrimento arrivano al lettore con vivida concretezza, ma è grazie al segno pittorico che conquistano questa forte dimensione affabulatoria. «Secondo me disegnare qualcosa di una città è sempre un po’ un atto d’amore», ci ha spiegato Manuele Fior al telefono, «perché ha meritato la tua attenzione. E farlo con una tecnica laboriosa come la guache per me è un atto d’amore ancora più intenso». Hypericon è un incrocio di nuovo e vecchio nella produzione dell’artista cesenate, ma è soprattutto una storia fantastica raccontata col linguaggio della quotidianità.
Ho trovato una certa vicinanza fra il tuo nuovo libro Hypericon e Cinquemila chilometri al secondo, volevi tornare a certe suggestioni anche nostalgiche?
La vicinanza c’è, ma come al solito non è cercata, me la sono un po’ trovata fra i piedi man mano che disegnavo. Gli ultimi miei libri spingevano su una componente un po’ più fantastica, mentre nel nuovo riprendo degli elementi fortemente autobiografici, cioè la Berlino di fine anni ‘90, quella che ho vissuto quando avevo 23 anni. Anche qui le vicende sono del tutto inventate, però questo era un contesto che conoscevo molto bene. Berlino, rispetto alle altre metropoli europee, è la città che è cambiata di più nel tempo.
Nonostante questo, c’è una dimensione fortemente fantastica, se non fantascientifica, richiamata dalla storia della scoperta della tomba di Tutankhamon, estremamente fedele al racconto originale di Carter…
Esattamente, però ha una dimensione talmente insondabile e pesca in un passato talmente lontano – forse indecifrabile – che comunque fa scivolare il racconto a una distanza quasi trascendentale. Gli uomini che hanno fatto quelle cose sono lontanissimi da noi e allo stesso tempo sono vicini in dei gesti banali, tipo quello di aggiungere una piccola corolla di fiori al defunto sposo della regina.
Da dove sei partito per arrivare queste due storie e al loro intrecciarsi?
Allora, tutta la storia è partita da un sogno, come spesso succede… era un periodo in cui ho effettivamente sofferto di insonnia cronica, per cui dormivo molto poco. Ricordo che una notte, proprio mentre cercavo di curarmi con l’hypericon, ho sognato esattamente una sequenza del fumetto. Una lite su un autobus fra due ragazzi che ancora non si conoscono, e addirittura una voce off che dice: “Sapevo dall’inizio che, qualsiasi meta avessimo avuto, non l’avremmo mai raggiunta in linea retta”. Sai quei sogni che il giorno dopo ti lasciano assolutamente imbambolato? Proprio in questo periodo si era appena conclusa a Parigi una mostra itinerante del tesoro di Tutankhamon e mi ha ricollegato a un periodo in cui ho lavorato come archeologo e a storie che mi affascinavano da molto tempo. Queste due si sono incrociate, come comincia a essere abbastanza tipico per me.
Dunque la storia è nata dal sogno, ecco il collegamento diretto col fiore hypericon…
Avevo provato tante cose per curare l’insonnia e questa è stata una tra le tante. Comunque non è un rimedio omeopatico, è una pianta molto potente, tanto che viene anche sconsigliata da alcuni medici perché può interagire con altri farmaci. Ma quello che mi interessava era creare una specie di sottotrama che ci unisce tutti, un minimo comune multiplo che abbiamo tutti noi uomini anche se appartenenti ad epoche lontanissime.
Come mai hai deciso di ambientare il libro fra la fine degli anni ‘90 l’inizio del 2000, poco prima dell’attentato alle Torri Gemelle?
Volevo fare una riflessione sugli anni ‘90, perché è un periodo che ci sembra illusoriamente vicino, ma in realtà è veramente lontanissimo. Innanzitutto dal punto di vista tecnologico. Quando io sono andato a Berlino nel ‘98 non avevo un telefonino, non aveva un’email, Internet esisteva ma era in uno stato ancora embrionale. Berlino era un po’ il simbolo di una rinascita dagli orrori della guerra, ma diventava anche il punto cardine di questo Europa assolutamente permeabile, in cui tu potevi fare diversi tragitti di viaggio senza prepararli. L’Europa si stava finalmente unificando e quando guardo i ragazzi di oggi provo un forte senso di amarezza a causa di un mondo in cui spostarsi fra nazioni è così complicato. Forse si trattava di un’illusione di quegli anni, ma il suo infrangersi è davvero sconfortante.
E l’inserimento dell’attentato dell’11 settembre?
Benché assolutamente tremendo, non credo che sia stato l’evento più tragico di quegli anni, ma dal punto di vista dell’immaginario si è trattato sicuramente di una prima grande frattura, come una sveglia che urli: “Guarda che il mondo è proprio cambiato e tu non te ne sei ancora accorto”.
Come mai scegli di finire il romanzo proprio in quei momenti?
Perché in un certo senso lì finisce in un’epoca quasi di spensieratezza. Dal punto di vista un po’ più metafisico quello è un evento strano, quasi come se i demoni interiori che agitavano quegli anni si fossero espansi sulla terra. Sono travasati all’esterno e diventati una cosa collettiva, proprio come le leggende legate alla tomba di Tutankhamon, quando l’apertura della porta ha liberato i demoni nel mondo.
La sessualità è quasi sempre presente nei tuoi libri e in questo nuovo romanzo ha una parte importante, che ruolo ha nelle tue narrazioni?
Probabilmente non riuscirei a farne a meno e in questo caso è un fattore legato alla giovinezza. Quando ci si conosce da giovani, la sessualità è assolutamente bruciante e volevo rappresentarla in maniera molta onesta. L’attenzione sta nel non far sbilanciare i racconti in un genere pornografico. Per me è importante che la sessualità, che è estremamente umana, rientri nella vita come altre cose e che non diventi un escamotage di genere. Voglio mostrarla come il resto, senza pudori, anche nella sua bellezza.
Come è avvenuto il tuo lavoro in studio, per te che sei costantemente al tavolo da disegno?
Questo lavoro è avvenuto in maniera diversa rispetto a tutti gli altri libri che ho fatto, nel senso che è il primo che ho scritto avendo effettuato inizialmente uno storyboard e poi il disegno. Tutti gli altri libri sono stati direttamente disegnati, senza avere una reale traccia. Ma si è trattato quasi di un obbligo, perché l’idea è nata durante il primo lockdown. Allora ero a Parigi e il mio studio era troppo distante, però non riuscivo a lavorare bene a casa. Per cui ho approfittato per farne una parte “un po’ più leggera”, che è quella di scrittura e di bozza di un di uno storyboard, così da non trasformare la cucina in un atelier di pittura. È stata un’esperienza molto bella e interessante e mi ha anche permesso di fare questo libro in pochissimo tempo, praticamente un anno in tutto. Non mi era mai successo di lavorare così velocemente.
In questo fine d’anno ci sono tante cose che escono e a cui hai lavorato negli ultimi tempi, a cominciare da una nuova edizione di Cinquemila chilometri al secondo con una nuova prefazione. Poi ci sarà un una versione illustrata del Canto di Natale di Dickens. Cosa accade dopo?
Al momento sto cercando di mettere a punto una nuova tecnica di disegno, però per me vuol dire anche una nuova storia. Mi piacerebbe tornare un po’ all’abc del fumetto, cioè alla linea nera, che ho lasciato ormai diversi anni fa con L’intervista. Mi piacerebbe riappropriarmi di questa cosa, che è proprio come il DNA del fumetto. Il fumetto nasce così, col nero a cui dopo si aggiunge il colore, ho come un’attrazione per la china nera. Poi magari verrà anche colorata, però mi interessa soprattutto ritornare a questa maniera più astratta di disegnare. Ecco, noi vediamo a colori, per cui l’uso del bianco e nero può sembrare più semplice, ma in realtà la cosa più difficile da fare è dividere il mondo in bianco in nero.