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Marco Cappato, nel nome della disobbedienza civile

Il suo debutto a teatro si intitola 'Da Marco a Marco' ed molto più di uno spettacolo: è un’avventura umana e politica che attraversa trent’anni di cambiamenti, lotte e risultati raggiunti in nome dei diritti e delle libertà. Li abbiamo ripercorsi con lui

Foto: Onstage Studio

Si intitola Da Marco a Marco, molto più di uno spettacolo teatrale: è un’avventura umana e politica che attraversa trent’anni di cambiamenti, lotte e risultati raggiunti in nome dei diritti e delle libertà. Il protagonista è Marco Cappato, che sulle orme e il coraggio di Marco Pannella, tra piazze, tribunali, carceri, arresti, aule istituzionali, ha portato temi fondamentali per la società civile a essere discussi dalla politica italiana e internazionale. Attraverso la disobbedienza, l’unico strumento che sembra essere rimasto a chi si batte per le proprie idee, vengono così ricordati momenti cruciali della storia recente: dal sostegno al Pride di Mosca agli abbracci con il Dalai Lama, dalle manifestazioni per la legalizzazione delle droghe al diritto all’eutanasia, fino alle sperimentazioni di democrazia digitale. In vista dello spettacolo (prodotto da Alveare), che andrà in scena al Teatro Arcimboldi di Milano lunedì 11 novembre, lo stesso Cappato ha ripercorso con noi le tappe più importanti della sua attività e risposto anche sulla possibile reunion (come fosse una band) con il Partito Radicale.

Mi sono andato a rileggere la tua biografia e, prima di tante battaglie civili, hai avuto una solida formazione: maturità classica, laurea a pieni voti alla Bocconi e una tesi sulle “strategie di internazionalizzazione delle imprese non profit”. Oggi, in politica, servirebbe più competenza?
Penso che, in democrazia, lo studio e la competenza, da soli, non possano attribuire più potere alle persone. È un principio democratico importante. Posso anche essere un analfabeta, ma a maggior ragione battermi perché sia estesa l’istruzione per tutti. Così mio figlio non sarà analfabeta come me. Credo non serva andare verso il potere delle élite colte, ma anche in senso opposto non si deve demolire l’importanza della competenza.

Immagino, però, che nel corso delle tue battaglie tu abbia trovato gente che, pur chiamata a valutare temi delicati, non avesse le competenze per decidere. O no?
A me viene in mente Giuliano Amato quando ci bocciò il referendum sull’eutanasia legale. Lì avevamo di fronte la massima personalità progressista del diritto, era difficile trovare un nome più competente, che però si mise di traverso. Ci sono, poi, persone ignoranti che se gli dici “eutanasia” sanno di cosa stiamo parlando. Magari non hanno letto un trattato di bioetica, ma hanno vissuto la questione sulla loro pelle, hanno visto il problema affrontato dalla madre o dal padre, e quindi si sono sono fatti un’idea anche se non conoscono tutti gli articolati di legge in materia. Esistono questi due fenomeni e a volte uno rafforza l’altro.

In che senso?
Che da un lato si rafforza la demagogia della semplificazione del linguaggio, mentre dall’altra il potere dietro le quinte viene mantenuto da una ristretta cerchia di chierici che in pubblico solleticano la pancia delle persone, ma che nelle stanze dove le decisioni vengono prese le sequestrano in un livello di competenza tecnica totalmente inaccessibile. E qui l’investimento dev’essere diretto nell’informare, nel far conoscere, nel far partecipare le persone a quello che bisognerebbe cambiare per far funzionare meglio la democrazia.

Un altro dettaglio che mi ha colpito del tuo percorso è che, fin da giovanissimo, dai 19 anni in poi hai fatto una lunga trafila di attivismo tra manifestazioni di piazza e sezioni di partito. Questa partecipazione fisica alla politica non sembra più possibile.
Sì, anche se l’esperienza dei Radicali la trovo comunque molto diversa dalle altre realtà della politica italiana. In che cosa? Nell’essere stata al tempo stesso movimento su certi temi e partito su altri. Oggi il problema è l’avere dei partiti sempre più autoriferiti e lontani dalla società e dalle urgenze dei cittadini. E dall’altra parte abbiamo movimenti che portano avanti cause che rischiano di essere fini a se stesse. Insomma, chi si inserisce nel percorso della politica rischia di inserirsi in qualcosa di simile a un percorso di carriera aziendale

È piuttosto arida come prospettiva…
Infatti prendiamo gli attivisti per il clima. Tanti si sono ritrovati in un contesto di mobilitazione, ma che non li ha fatti crescere nella capacità di influenzare veramente le decisioni pubbliche.

Come facevano i Radicali, nonostante abbiano spesso usato il loro corpo nelle proteste. Il tuo primo arresto, per una manifestazione a Bruxelles nel ‘96, come lo ricordi?
Come qualcosa che, fino a quel momento, non mi capitava certo tutti i giorni. Ma per i Radicali la fisicità, il corpo, era parte integrante delle idee che uno aveva e che in quel modo esprimeva. Che se uno ci pensa è formidabile e bellissimo da vivere. Cioè, non avere delle opinioni in astratto su tutto, ma cercare di realizzarle mettendoci la faccia, che è un po’ il senso anche dello spettacolo che porto a teatro. Voglio raccontare quello che ho fatto attraverso le varie iniziative per trasmettere l’idea che ciascuno di noi, nel proprio piccolo o grande, può fare lo stesso per le idee in cui crede. Non necessariamente sulle mie.

Qual è stato il momento in cui ti sei sentito più in pericolo? Forse dopo l’arresto al Pride di Mosca?
Uno è stato sicuramente quello. Un altro per la manifestazione sulla cannabis, quando mi hanno arrestato a Manchester e condannato a una settimana in carcere. Ha avuto un impatto enorme su di me. Però non ho percepito che la polizia non ci stesse proteggendo. A Mosca, invece, quando ci siamo resi conto che la polizia non ci stava proteggendo, con dei manifestanti che ci tiravano contro di tutto, mi sono sentito ancora peggio.

E come mai, secondo te, chi oggi ci mette il corpo nelle proteste viene spesso criticato o mal sopportato? Mi riferisco, tra gli altri, agli attivisti di Ultima Generazione.
Credo dipenda dal valutare gli effetti e le conseguenze su chi la pratica. Nel momento in cui non c’è una legge e mi autodenuncio, sono totalmente io a pagarne le conseguenze. Quello che può generare una resistenza o un fastidio è nel momento in cui qualcuno rimane intrappolato nel traffico per un blocco stradale. In questo caso è chiaro che le conseguenze in parte non le sta pagando soltanto il manifestante. La difficoltà degli attivisti per il clima, poi, è rispetto al muro di gomma opposto dalla politica. Su come le istanze non siano state recepite. E quindi da parte dell’opinione pubblica si fatica a vedere l’utilità di queste azioni. Ma se i dati ufficiali ci parlano di un cambiamento climatico fuori controllo, perché la politica non riesce a fare nulla, e con costi enormi anche in vite umane, allora fatico a vedere sproporzionata quel tipo di azione di disobbedienza civile.

Senza contare le conseguenze legali, che spesso sono un fardello non indifferente.
Credo che la prudenza sia una componente necessaria per l’attivismo. Le nostre azioni non sono mai state temerarie. Per cui, diciamo, affrontate con prudenza sono un rischio gestibile.

E le ripercussioni, anche indirette, verso la tua famiglia ti hanno mai pesato?
Sì, certo. Si tratta di un elemento di cui ho sempre tenuto conto. Ho pensato spesso a mia figlia e se, per qualsiasi motivo, lei potesse subire un impatto sul tempo e sul modo di stare insieme. Così cerco di fare in modo che ciò accada il meno possibile o non accada proprio. Quando non è possibile, ho fiducia che le ragioni per cui questo è accaduto, magari non immediatamente, però un giorno potranno essere comprese anche da lei. Persino che, su argomenti che lei potrebbe non condividere, capisca che suo padre ha agito in base alle proprie convinzioni. Lo trovo positivo, anche per fare tutt’altro rispetto a me.

Ti faccio tre nomi che hanno rappresentato tre battaglie che hanno segnato il tuo attivismo. Luca Coscioni?
Era completamente paralizzato e parlava solo con il movimento degli occhi. La persona fisicamente più debole, più fragile che possiamo immaginare, ma che in realtà ha smosso le montagne, con centinaia di premi Nobel che lo hanno sostenuto in una battaglia che è del futuro: la libertà di ricerca scientifica. Come sulle cellule staminali embrionali, che è ancora proibita in Italia. Invece a questa sono legate enormi speranze per la cura di malattie terribili. Un vero pioniere su un tema fondamentale per la nostra società.

Pier Giorgio Welby?
Ha rappresentato il primo caso di richiesta pubblica di aiuto a morire senza soffrire e ha cambiato il dibattito nel nostro Paese. Inoltre è stato determinante anche per la mia vita, perché io non avevo mai pensato di occuparmi di eutanasia. È stato lui che mi ha chiesto di portargli una sostanza utile per l’eutanasia clandestinamente dal Belgio. Dopodiché, invece, si è convinto a compiere una battaglia pubblica conquistando quel diritto a essere staccato dalle macchine sotto sedazione. E da lì è cambiata anche la mia vita, perché sono diventato un punto di riferimento e ho continuato ad occuparmene attivamente.

Dj Fabo?
Come Welby, anche lui è stato importantissimo per la serenità, addirittura il buonumore, e la capacità di esercitare fino agli ultimi attimi della sua vita una certa dose di ironia. Dimostrando che le loro scelte non erano frutto della disperazione o della depressione, ma di un grande amore per la vita. In questo modo mi hanno insegnato molto rispetto al rapporto con la morte. In astratto lo sappiamo tutti che morire fa parte della vita, però viverlo in questo modo, addirittura con serenità, è qualcosa di molto diverso. Quando ho spiegato a Fabo che avrei potuto aiutarlo clandestinamente, dandogli informazioni e accompagnandolo, oppure agire pubblicamente e che sarebbe stato utile a tanti altri, mi ha impressionato la sua reazione. Prima parlavamo di competenza, ma Fabo non sapeva assolutamente nulla sull’eutanasia, però ha sentito, non il valore politico, ma il valore per gli altri, quindi politico, per tutti.

Non dimentichiamo il caso di Eluana Englaro. Ma come siamo messi con l’eutanasia legale in questo momento in Italia?
Grazie alla disobbedienza civile abbiamo fatto dei passi avanti molto importanti, dal caso Welby a oggi. Intanto è stato ottenuto il diritto, che era già scritto nella Costituzione ma che nella pratica non si riusciva a ottenere, al distacco dalle terapie, anche salvavita. Oltre a quello sul testamento biologico e all’aiuto al suicidio in determinati casi: in persone lucide e consapevoli, affette da patologie irreversibili, con sofferenze insopportabili e tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale. Tutto grazie alla disobbedienza civile e le decisioni della Corte costituzionale. Il problema, su queste cose già legali, è che non sono conosciute. Quindi dobbiamo far valere i diritti che già ci sono.

Cosa manca?
La possibilità di praticare l’eutanasia in senso stretto, cioè per mano del medico su richiesta del paziente. E la possibilità di farlo anche per chi non è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. L’esempio più frequente è nei malati terminali di cancro, che non sono attaccati a una macchina o dipendenti da una terapia, ma che possono avere una condizione di malattia terminale e di sofferenza insopportabile. Questa è la parte che ancora manca in Italia ed è la ragione per la quale stiamo continuando a batterci.

Invece sulla legalizzazione delle droghe leggere? Il governo non sembra così d’accordo.
Stanno continuando con questo balletto indegno sul Cbd e sulla cannabis light, però anche i governi precedenti hanno sempre confermato l’impianto proibizionista sulle droghe. È un fallimento assoluto. Io racconto nello spettacolo come nel 1998 partecipai, per il Partito Radicale, all’Assemblea Generale dell’Onu sulle droghe. E lo slogan era: “1998-2008. A drug-free world: we can do it”. Cioè l’Onu raccontava, quindi a 190 governi del pianeta, che avrebbe liberato il mondo dalle droghe. E questa è una follia, un’illusione che poi produce più narcotraffico, più droghe, più morti, più illegalità. Purtroppo in questa follia si continua a insistere, a testa bassa, in quasi tutto il mondo con delle conseguenze disastrose.

Prima spiegavi quanto è importante l’informazione, però in Italia i canali di informazione, a partire dal servizio pubblico della Rai, non sono così aperti a informare su certi temi.
Sicuramente la libertà dell’informazione non se la passa bene nel nostro Paese. Anzi, per la verità non se l’è mai passata bene. Cosa si potrebbe fare? Secondo me sarebbe fondamentale investire sul potenziamento del servizio pubblico dell’informazione, che non sia soltanto radio e televisivo, ma che passi dalla rete. Bisogna aiutare le persone ad accedere a informazioni validate e controllate. Nell’era dell’intelligenza artificiale, ormai, si perde il confine tra il vero e falso e qualsiasi manipolazione ha una credibilità difficile da smontare. Ecco perché, parlando di informazione, bisogna guardare direttamente al tema dell’intelligenza artificiale e investire sulla creazione di sistemi pubblici alimentati con banche dati validate e con informazioni certificate. Che sarebbero una fonte molto importante dalla quale i media stessi potrebbero trarre informazioni e conoscenza.

Visto che il tuo spettacolo si intitola Da Marco a Marco, ti faccio un’ultima domanda che di solito si rivolge a un membro importante di una band che ha lasciato il gruppo. Ci sarà mai la possibilità di una reunion tra Marco Cappato e il Partito Radicale?
Devo ammettere che, in generale, non mi mancano i gruppi tra l’Associazione Luca Coscioni e Eumans, dove cresciamo continuamente nella capacità di produrre iniziative anche a livello europeo. Diciamo che uno degli insegnamenti più importanti che mi ha trasmesso il metodo radicale di Marco Pannella è che le organizzazioni non sono mai dei fini, ma sono degli strumenti. Per cui la reunion non è un obiettivo in sé. Se però ci fossero delle battaglie sulle quali ci si può ritrovare tutti uniti, allora anche la reunion ben venga.

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