Qualche tempo fa circolava sui social una foto, in bianco e nero, dov’erano ritratti alcuni dei comici più significativi della scorsa generazione: Aldo Giovanni e Giacomo, Antonio Albanese, Antonio Cornacchione e… “l’ultimo a destra”. Era Maurizio Milani, che con quel manipolo di cabarettisti è stato uno dei fondatori dello storico Zelig, il locale milanese che ha sfornato i migliori talenti dell’umorismo a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 ma che, a differenza degli altri, ha raccolto – almeno a livello di notorietà – molto meno di quello che in tanti si sarebbero aspettati. Surreale, caustico, disincantato, il collega Daniele Luttazzi, di certo non tenero nei giudizi, lo ha incensato: «Fra noi comici ci sono come delle gerarchie, e lui in questo momento è Dio». C’è anche chi, andando oltre al suo ambito, lo ha nobilitato mettendolo al pari dei grandi scrittori, come la critica Mariarosa Mancuso (traduttrice di Edgar Allan Poe) che ha individuato nel suo stile “i due requisiti che servono: un mondo e una lingua”. Ma d’altronde lo stesso Carlo Barcellesi, questo il vero nome, dagli esordi è abituato a dividere i giudizi, come spiegò in una puntata che gli dedicò Giuliano Ferrara su La7: «Quando faccio le serate, metà pubblico ride e metà rimane perplesso». Ora che in tv si vede ancora meno, anche se prosegue il “culto” di chi lo ama e lo segue tra libri e articoli sul Foglio, abbiamo deciso di andarlo a incontrare proprio nel suo mondo, quello in cui si è formata la sua lingua: Codogno.
L’appuntamento è alle 11 del mattino, arriviamo in perfetto orario e lui è già seduto ad aspettarci su una sedia nel cortile interno di una palazzina in pieno centro. È la stessa abitazione dove hanno vissuto i suoi genitori, ora scomparsi, e subito comincia lo show: «Ti faccio vedere in che condizioni mi trovo». Apre una porta di un casolare di fronte quasi fatiscente e, girando per le stanze, cerca di farci credere di essere stato sfrattato, di aver contratto la scabbia utilizzando una coperta che si trova a terra («ma non mi son trovato male, avendo già passato i pidocchi inguinali») e che sta pensando di allestire una sala prove, ma «prima delle velleità forse è meglio che trovi un luogo per dormire». Inutile sottolineare che la gag risulterà irresistibile. La chiacchierata prosegue verso un bar (al quale non arriveremo mai) per le strade della cittadina ormai tristemente nota per il primo caso di Covid nel 2020, dove tutti quelli che passano lo salutano con un sorriso, neanche fosse il sindaco.
Nel mentre ci spiegherà la sua tecnica, paragonabile a quella di un jazzista («è fondamentale l’improvvisazione, se pianifichi troppo non funziona»), ma che nasconde qualche rischio: «Con Bebo Storti ci hanno fischiato, lui è un pazzo e non preparava nulla». Il rapporto ormai incrinato con Gino e Michele, verso i quali si toglierà più di qualche sassolino: «Sono spregiudicati. Da Flavio Briatore te lo aspetti, non da chi finge di essere un “compagno”». Così come su Fabio Fazio, con cui ha lavorato in sei edizioni di Che tempo che fa: «Per la collaborazione con il giornale di Berlusconi mi sono accorto che mi facevano mobbing». E ancora, segnalerà chi prende spunto dal suo lavoro senza citarlo: «Basta non dirmi che sono io a copiare Valerio Airò». E lancerà un appello ai suoi vecchi amici ritratti in quella foto storica: «Aldo Giovanni e Giacomo, almeno una posa al cinema potreste farmela fare, no?».
Maurizio Milani, come mai hai scelto di rimanere a Codogno e non ti sei mai trasferito a Milano o a Roma, dove di solito è più facile lavorare nel mondo dello spettacolo?
Per un breve periodo ho abitato a Milano, quando avevo la fidanzata là, però mi annoiavo. Mi riducevo a stare in casa e a uscire solo per andare allo Zelig. Lei lavorava in ufficio e io dovevo aspettare tutto il giorno per un’ora a dire delle cazzate. Non è che facevo 8 ore il metronotte e poi arrivavo a casa stanco. Così sono sempre tornato, da Milano sono 45 minuti.
Oggi con certi prezzi degli affitti o delle case sarebbe ancora più difficile.
A Mediaset volevano pagarmi l’albergo, perché una funzionaria si era accorta che chi veniva da fuori ne aveva diritto. Alla fine della fiera, per arrivarci ci ho messo un’ora e mezza, allora era meglio tornare a casa. Una volta ci sono andato per scroccare, poi ho preferito Codogno.
Ormai il tuo “posto fisso” è al Foglio, dove collabori da anni.
Devo ringraziare della segnalazione Mariarosa Mancuso, che mi ha fatto conoscere all’allora direttore Giuliano Ferrara. Lui mi dedicò anche una puntata monografica su La7. Finché c’è stato il produttore Paolo Guerra ho sempre lavorato (è venuto a mancare nel 2020, nda), oggi faccio un po’ più fatica. I produttori più potenti sono Beppe Caschetto e Lucio Presta, che vendono programmi alle tv a scatola chiusa. Anche se poi in Rai si lamentano le maestranze.
Come mai?
Portano programmi dove hanno tutti i loro lavoratori, dalle parrucchiere ai costumisti, e quelli della Rai non sono contenti di prendere lo stipendio senza lavorare. Mi ricordo di aver visto in bacheca già tempo fa una protesta perché esternalizzavano. Ma c’è da dire che le parrucchiere della Rai sono rimaste al Rischiatutto. Simona Ventura mi diceva che le spiaceva non andarci più, ma le facevano dei tagli alla Sabina Ciuffini. Io se posso ci vado, per quel che devo fare vanno bene. Ma anche le costumiste sono pericolosissime.
In che senso?
Nel loro compartimento ci tengono a comandare. Io quando ero in trasmissione venivo spesso inquadrato a mezzo busto, ma loro ci tenevano che mettessi le scarpe Clarks. Una volta sono arrivato con quelle da tennis e loro: «Fermati, vai in camerino che ti abbiamo preparato le scarpe». Poi nel filmato mica si vedevano, però ci tenevano. Meglio non discuterci.
Non so se è un complimento, ma quando racconti qualcosa sembra sempre una gag.
Una volta ho visto Carlo Verdone sul set e per fare questo (raccoglie una foglia da terra e la sposta di pochi centimetri, nda) ci mette due ore. Noi cabarettisti invece improvvisiamo, come viene viene. Se giochi a pallone, quando tiri fai gol o sbagli, non puoi riprovarci. Anche la tv per me dovrebbe essere tutta in diretta, tranne rari casi.
Un po’ come l’improvvisazione nel jazz, dopo tanto studio ci si lascia ispirare?
Sì, ma poi c’è la trasposizione della realtà. Uno degli errori che vedo spesso, anche nelle scuole di teatro, è che per esempio, sapendo che tu tra poco andrai verso la macchina, alcuni anticipano la battuta. E per una frazione di secondo si percepisce che è tutto finto. Che lo sia è implicito, ma deve sembrare più verosimile possibile. Invece nella comicità la gente ride per l’imprevisto, se lo fissi non ride più. A Bolzano con Paolo Rossi inciampai per davvero in una cassa acustica e le persone cominciarono a ridere. La sera dopo l’abbiamo inserito nel copione e hanno riso in due. Si percepiva che era finto. Anche se mangi le parole o sbagli i congiuntivi va bene, ma risulti fresco e arrivi. Poi c’è chi esagera, come Bebo Storti.
È famoso per il personaggio del Conte Uguccione. Che cosa faceva?
Lui non preparava nulla, una roba da pazzi. Almeno un canovaccio su un’ora e mezza di spettacolo dovresti averlo, lui niente. A Forlì il direttore del teatro alla fine ci ha detto: «Una roba così non l’ho mai vista, non so neanche dire se è bella o è brutta». Un’altra volta al Ciak di Roma, arriviamo in camerino e la moglie di Bebo ci fa: «Non si viene qui a fare queste figure…». È come se io e te adesso salissimo sul palco a improvvisare per un’ora.
Dopo ci avete riso sopra o è qualcosa su cui si recrimina?
Bebo aveva questa caratteristica: se ingranava subito l’improvvisazione andava alla grande, ma se non succedeva era facile prendere i fischi. Come a Livorno, siamo andati davanti alla gente ma si capiva che non avevamo voglia di lavorare. Al teatro Goldoni a Venezia altra situazione imbarazzante con me e Dario Vergassola, non rideva nessuno. Ma proprio perché non rideva nessuno, paradossalmente, c’era una signora in prima fila che rideva come una matta. Una scena talmente parossistica che si è trasformata in un successo.
È anche per questa vena da improvvisatore che non ti abbiamo mai visto al cinema?
Può essere, eppure Bebo Storti lo ha fatto. Anche Paolo Rossi, che è furbo, improvvisa ma ha sempre un canovaccio al quale aggrapparsi. Bebo invece saliva sul palco alla garibaldina. Ma un conto è andare in discoteca con tutti ubriachi, un altro nei teatri importanti con il tuo spettacolo in abbonamento. E lui arrivava alla cazzo di cane mezz’ora prima.
Intanto che camminiamo per le strade e nel parco pubblico della cittadina lombarda, ogni passante lo saluta con un sorriso, tanto che a un certo punto ci appartiamo in un angolo.
Sei il cittadino più famoso di Codogno, per te non sembra valere il detto “nemo propheta in patria”.
Ci sono dei calciatori famosi, come Edoardo Goldaniga oppure Rey Manaj, di origine albanese, che ha giocato anche nel Barcellona e ultimamente al Watford. Conosco bene suo padre. Ma nel mondo dello spettacolo dovrei essere il più conosciuto. Mi hanno insignito come “Codognese benemerito”, è un po’ come se fosse l’Ambrogino d’oro.
La tua storia parte da lontano, sei tra i fondatori dello Zelig alla fine degli anni ’80.
Sì, ma spesso mi indispone se la gente dice «Zelig il programma». Ma no, è un film di Woody Allen. Come se Soresina fosse una latteria. È un Comune dove c’è anche quell’azienda. Capisco che facciano un altro lavoro, ma Woody Allen non è Gino e Michele.
Mi sembra di capire che non siete rimasti in buoni rapporti.
No, per niente, perché ero socio della cooperativa Il Mandorlo, un circolo che nella metà degli anni ’80 ha fondato lo Zelig. Avevo, come tanti altri, una quota che valeva 1 milione di lire e quando è subentrata Mediaset ha pagato dei bei soldi, ma a noi ci hanno liquidato solo 1 milione quando invece valeva almeno dieci volte di più. Gino e Michele si sono attaccati a un cavillo notarile che gli ha garantito la “golden share” sullo Zelig. Ma scusa, se la torta è di un chilo è giusto che te la mangi tutta tu e agli altri lasci solo le briciole?
Ultimamente lo Zelig non se la passa bene, così come altri investimenti di Gino e Michele, per esempio la Smemoranda.
Lì loro hanno avuto la presunzione di comprare Moleskine e si sono fatti quotare in Borsa a Wall Street, neanche a Londra o a Milano. Adesso hanno 56 milioni di euro di debiti e hanno lasciato a casa senza lavoro 140 persone. Hanno fatto come Renato Soru con Tiscali, che negli anni 2000 valeva più della Fiat. Lui non ha venduto neanche una percentuale e adesso la carta su cui sono stampate le quote vale più del valore nominale dell’azione.
Dopo sei anni, dal 2003 al 2009, non ti abbiamo più visto anche a Che tempo che fa condotto da Fabio Fazio. Come mai?
Perché Fazio è bravo, però è molle. Quando ho accettato di collaborare al Foglio di Giuliano Ferrara, mi chiamò l’allora capostruttura di Rai 3 in quota Pd, Loris Mazzetti, che mi disse: «Guarda che la linea editoriale qui è chiara, e tu vai a scrivere su un giornale di Berlusconi?». Da quel momento i miei spazi sono stati ridotti e spostati nella zona meno nobile. Poi sono passato a una settimana sì e una no, a seguire solo il sabato, finché una volta non mi hanno mandato in onda dicendo di aver sforato con i tempi. Così gli ho detto che non ci sarei più andato. Quando ti fanno mobbing lo capisci. Non volevo rimanere di fianco a Filippa Lagerbäck come un figurante. Fazio poteva dire qualcosa a Mazzetti, ma non lo fece.
Eppure oggi persino Bianca Berlinguer è passata a Mediaset.
Ma già succedeva molto tempo fa. Tra il ’97 e il ’98 Michele Santoro con Moby Dick, Serena Dandini con Comici e Paolo Rossi con Scatafascio fecero questi programmi su Italia 1. E negli ultimi due c’ero anch’io nel cast. Già la politica non faceva né caldo né freddo a chi prendeva un sacco di milioni da Berlusconi. Però nei live ho continuato a lavorare.
Qual è stato il tuo momento migliore dal vivo?
Una volta con Gianluca De Angelis abbiamo fatto una tournée estiva insieme e siamo finiti in Sardegna, a Mogoro. In piazza c’erano le donnine vestite di nero e ho detto a Gianluca: «Chiama le pompe funebri perché finisce male». Invece è stata una serata fantastica. Finito lo spettacolo andiamo nei camerini a cambiarci e arriva il sindaco che ci prega di tornare sul palco perché la gente ci reclama. Abbiamo fatto altre due ore di improvvisazione con una spontaneità incredibile. Se vai a Mogoro, nonostante siano passati diversi anni, sono sicuro che si ricordano ancora. E poi sono soddisfatto di aver aiutato diversi colleghi con le banane.
Come li hai aiutati con le banane?
Stavo lavorando al Circo itinerante di Paolo Rossi, era il ’95-’96, e a Roma mi capitò di non riuscire più a stare sul palco dallo stress. Non prendendo cocaina o alcolici facevo fatica. Invece Paolo ogni volta finiva una bottiglia di whisky. Così sono andato all’ospedale Fatebenefratelli e il medico mi consigliò: «Mangi le banane». Mi sembrava fuori di testa.
E ha funzionato?
Altroché, dopo stavo molto meglio. Dopo 50 date vedo Giacomo Poretti, che con Aldo e Giovanni faceva anche Mai dire gol, che girava intorno al tendone e non riusciva a stare nel camerino. Anche lui, dopo il programma, gli aerei, lo spettacolo dal vivo al circo, era scoppiato. L’ho portato nel mio camerino a mangiare una banana e ancora oggi quando ci vediamo mi ringrazia perché quel consiglio lo ha salvato. Le ho consigliate persino al critico d’arte Flavio Caroli, che prima di Che tempo che fa era sempre teso: «Professore, se non si offende, provi a mangiare la banana». Da allora anche lui mi ricorda che l’ha aiutato.
Hai mai fatto una follia quando eri all’apice della notorietà?
Forse l’unica che ho fatto è quando ero innamoratissimo di una ragazza di Forlì. Mi diceva che non voleva mischiare lavoro e sentimento. Ricambiava, ma di nascosto. Aveva paura che ci fosse un conflitto di interessi, era impiegata per un’agenzia di spettacoli. Un giorno, dopo aver fatto cinque serate nelle Marche a 1 milione l’una, le ho regalato un anello importante che infatti costava 5 milioni di lire. Ma poco dopo ci siamo lasciati e voleva restituirmelo.
E non l’hai voluto indietro?
Una sera arrivo da Catania all’aeroporto di Linate e non avevo ancora il cellulare. Sono andato nella cabina della Sip, l’ho chiamata dicendole che l’avrei raggiunta e ho capito che si era rotto qualcosa. Poi ci siamo visti e si è presentata con un pacchettino e voleva ridarmi l’anello. Non l’ho voluto, allora le cose mi andavano bene, anche se adesso verrebbe buono… Le ho scritto anche delle lettere serie che, paradossalmente, diventavano ridicole.
Poi hai scritto un libro che si intitola Lettere d’amore.
Benedetto Croce disse che dopo i 18 anni rimangono a scrivere poesie due categorie di persone: i poeti e i cretini. Io le scrivevo “Elisabetta, ti penso sempre…” o cose del genere, e andavo avanti e indietro da Codogno a Forlì solo per mangiare una pizza, limonare, e poi tornare a casa. Sono 240 chilometri che facevo in un’ora e mezza di autostrada.
Lei ha mai risposto a quelle lettere?
Mai! Però un giorno che passavo da Forlì, erano trascorsi due anni, ho provato a chiamarla sul telefono di casa. Lei risponde e le chiedo: «Elisabetta, senti: ma le mie lettere?». E lei mi ha detto: «Sono dove devono essere». Quindi possono essere nel cesso o in un cassetto.
C’è qualcuno che ti ha deluso nel mondo dello spettacolo?
Direi Gino e Michele. Non mi hanno più chiamato, ma posso capirli perché hanno dato allo Zelig un taglio da villaggio turistico. Io sono un monologhista che non ha bisogno di travestirsi con le pinne o come una drag queen. La comicità di situazione è un’altra cosa.
Insomma, con Gino e Michele sembri avere un conto aperto.
Sono stato a casa di Michele Mozzati sul lago di Varese, ha una villa della madonna. A un certo punto vado in bagno e vedo che c’è una vasca lunghissima molto strana. Così quando esco chiedo a cosa serve a Diego Parasole, un collega che era con me. E lui: «Ah non lo sai? Quella vasca fa le onde al contrario, così nuoti e intanto fai esercizio». Ed era vent’anni fa. Sai, Flavio Briatore è Flavio Briatore ed è coerente, non va a far finta di essere un “compagno” che gli spiace per il salario minimo. Così come non ti aspetti che un calciatore vada a rompere le vetrine per protestare insieme a quelli dei centri sociali.
C’è ancora chi, come hai raccontato in passato, rimane spiazzato alle tue battute?
Alcuni mi dicono: «Scusi, ma sa che lei non mi fa ridere?». La gente è ormai abituata al comico che deve avere il naso rosso tipo clown. Ma come nella musica ci sono vari generi. A me piacciono, oltre a Nino Frassica, Valerio Lundini, Nicola Vicidomini e Rocco Tanica.
Sai che c’è un giovane comico che alcuni dicono ti somigli?
Se ti riferisci a Valerio Airò, vai a vedere su YouTube i commenti ai suoi filmati. In moltissimi scrivono: “Milani, come sei invecchiato bene” oppure “ma chi è, il figlio di Milani?”. Mentre sotto ai miei video: “Sei uguale a Valerio Airò”. Lì però gli ho risposto: “Questo è stato girato nel 1993 a Cielito Lindo”. Lui avrà 30 anni, forse non era neanche nato. Non c’è problema, però non ditemi che sono io a copiare lui. Ma sai che ho avuto una soffiata?
Su Valerio Airò?
Mi hanno detto che lui si è messo su quella strada imbeccato da Gino e Michele e da Giancarlo Bozzo, che sono spregiudicati. Lo so perché ho ancora conoscenze all’interno di Zelig. Pare gli abbiano fatto vedere le videocassette dei miei vecchi sketch consigliandogli di prendere spunto. Pensa che quando fece un’apparizione a Sky e c’era Rocco Tanica gli disse: «Assomigli a Maurizio Milani». Lui può fare quello che vuole, ma i pezzi si sovrappongono. Mi pare stia succedendo quello che era accaduto tra Giorgio Porcaro e Diego Abatantuono.
Ti riferisci alla paternità del personaggio del “Terrunciello”?
Lo inventò Giorgio Porcaro, ma i benefici se li prese tutti Diego Abatantuono. Diego non aveva voglia di andare a scuola e la mamma, che faceva la guardarobiera al Derby, lo portava con sé. Non aveva la patente e andava in giro con I Gatti di Vicolo Miracoli ad aggiustare le luci. Un giorno ha visto Giorgio Porcaro che interpretava il “Terrunciello” e l’ha rifatto avendo successo. Un po’ come sta succedendo tra me e Airò.
Maurizio Milani ce l’ha ancora un sogno che vorrebbe realizzare?
Se ci penso, di tutti i colleghi della mia generazione sono l’unico che non ha mai fatto neanche una posa al cinema. Ad Aldo Giovanni e Giacomo una volta gliel’ho detto: «Ma con tutti i film che avete fatto, cosa vi costa mettermi lì a fare il barista?». A 62 anni non sono mai stato su un set per lavorare. Non spero mi chiami Marco Bellocchio, basterebbe un regista underground. Ho fatto la tv, il teatro, i libri e i giornali, ma il cinema non è capitato.
In effetti, guardando quella foto degli inizi allo Zelig, sei l’unico che manca all’appello.
E la gente sui social si chiede “chi è il primo a destra?”. Sono cose che fanno rimanere male.