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Obama chiama Terra

In un'intervista esclusiva, l'uomo più potente del mondo ci spiega perché questa è l'ultima occasione che abbiamo per salvare il pianeta
Barack Obama in visita in Alaska. Foto di Mandel NGAN/AFP/Getty Images

Barack Obama in visita in Alaska. Foto di Mandel NGAN/AFP/Getty Images

Il Presidente Obama era di ottimo umore l’estate scorsa durante il suo viaggio in Alaska. Era lì per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla catastrofe climatica a cui il mondo sta andando incontro, ma ha passato la maggior parte del tempo a regalare sorrisi e stringere mani alle autorità locali, prima di risalire i gradini della scaletta dell’Air Force One.

Un atteggiamento positivo, in contrasto con la serietà e l’urgenza del messaggio che stava rivolgendo al mondo. Con le parole forse più dure che abbia mai utilizzato in un discorso pubblico, Obama ha avvertito che, a meno di un intervento deciso per ridurre le emissioni di anidride carbonica, «condanneremo i nostri figli a vivere in un mondo compromesso irreparabilmente, al punto che diventerà impossibile per loro tornare indietro. Un mondo di nazioni intere sommerse dalle acque, città abbandonate, campi che non producono più niente». La sua impazienza era evidente: «Non stiamo facendo abbastanza e non siamo abbastanza rapidi», ha ripetuto per ben quattro volte nel corso di 24 minuti. (Un assistente mi ha spiegato che la ripetizione era totalmente improvvisata). Il viaggio di Obama in Alaska ha segnato l’inizio di quella che potrebbe essere l’ultima mossa importante della sua presidenza: creare i presupposti perché alla prossima conferenza sul clima di Parigi, in programma per fine novembre 2015, si arrivi a un accordo realmente efficace sulla riduzione delle emissioni. Obama ha già raggiunto i due obiettivi principali della sua presidenza, il risanamento dell’economia e la riforma del sistema sanitario nazionale, e ne ha affrontati altri molto importanti come il matrimonio gay e la questione immigrazione. Un successo a Parigi potrebbe essere la grande vittoria finale prima che il suo mandato svanisca pian piano nel caos delle elezioni presidenziali del 2016.

Siamo atterrati a Kotzebue, 3200 abitanti, alle 5 del pomeriggio, toccando terra di fianco a case sferzate dal vento con la bandiera a stelle e strisce che sventola dalla finestra e cucce per cani mezze distrutte nel giardino. Si poteva toccare con mano quanto è dura la vita in un posto dove la temperatura può scendere fino a 50 gradi sottozero durante il lungo e buio inverno e dove il primo centro abitato è a 450 chilometri di distanza. Circa 274 chilometri a Ovest, oltre lo Stretto di Bering, c’è la Russia. Il corteo di auto presidenziali si è fermato alla Kotzebue High School, nella cui palestra decorata con i colori oro e blu dei Kotzebue Huskies si erano radunate circa 1000 persone. Obama ha fatto un discorso sereno sul cambiamento climatico e sulle meraviglie del paesaggio dell’estremo Nord, chiaramente soddisfatto del fatto di essere entrato nella storia come primo Presidente degli Stati Uniti in carica a visitare l’Artico.

Poco dopo, un assistente mi ha accompagnato in un’aula vuota con un grande tavolo rotondo al centro e due sedie di plastica ai lati. Obama era già seduto, mi ha guardato e ha detto: «Cominciamo». Ha parlato con tono misurato, ma con una serietà che lasciava trasparire, a ragione, la convinzione che il destino dell’umanità fosse in quel momento nelle sue mani. Solo alla fine, quando gli ho chiesto se non provasse tristezza per quello che stiamo perdendo a causa del cambiamento climatico, ha distolto lo sguardo per un attimo. Come se la consapevolezza di quello che succederà nei prossimi decenni fosse una cosa troppo difficile da sopportare.

Cominciamo dall’inizio. Nel 2008, il giorno in cui si è insediato alla Casa Bianca, ha detto: “Sono assolutamente sicuro che tra qualche generazione saremo in grado di guardare indietro e dire ai nostri figli: quello è stato il momento in cui l’innalzamento degli oceani ha cominciato a fermarsi e il nostro pianeta ha cominciato a guarire”. Sono passati sette anni. Come giudica i progressi che sono stati fatti?
Non spetta a me dare un giudizio sul mio operato. Quello che posso dire è che collettivamente abbiamo fatto dei progressi, ma non sono niente in confronto a quello che è necessario fare. Abbiamo cominciato con gli investimenti sulle energie pulite che facevano parte del Recovery Act, un lavoro in collaborazione con i produttori di auto – in parte, a essere onesti, perché li abbiamo aiutati parecchio in quel momento, per raddoppiare gli standard di efficienza energetica e realizzare le norme amministrative adeguate.
A Copenhagen (sede della Conferenza ONU sui cambiamenti climatici del 2009) siamo stati in grado di stabilire il principio fondamentale per cui, per fermare il cambio climatico, non è sufficiente che agiscano solo i Paesi più sviluppati. La Cina e l’India per esempio, date le dimensioni della loro popolazione e la rapidità con cui aumenta di numero, devono impegnarsi a investire risorse in questo senso, anche se hanno un valore di emissione di anidride carbonica pro capite più basso. Credo che a Parigi per la prima volta saremo tutti uniti nel riconoscere le rispettive responsabilità, nell’affrontare il problema ponendo obiettivi importanti e nell’aiutare finanziariamente i Paesi più poveri a stare al passo con questo programma. Se riusciremo a farlo entro la fine dell’anno, e io sono abbastanza ottimista a riguardo, avremo almeno posto le basi e creato una struttura con cui si potrà agire in modo unitario nei prossimi decenni. Detto questo, la scienza ci dice che non stiamo facendo abbastanza e non siamo abbastanza rapidi. Io però penso che, se mettiamo in piedi un sistema corretto, saremo in grado di invertire rapidamente la rotta. Vedo educazione e consapevolezza verso il problema, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo, la gente vuole il cambiamento e c’è anche maggior volontà politica.

Il Presidente Obama a Kotzebue, Alaska. Foto di Mark Seliger

Il problema, ovviamente, è che creare consenso sul tema del cambiamento climatico è più difficile che su altre questioni. Ci sono dati preoccupanti con cui fare i conti, il riscaldamento del pianeta non aspetta che si sia creato un consenso.
Capisco. Ma per riuscire ad avere piena conoscenza del problema, come secondo me possiamo fare, dobbiamo tenere in conto che il cittadino americano medio, che magari è anche conscio del problema climatico, in questo momento è più preoccupato del prezzo della benzina, di cui ha bisogno per andare al lavoro e tornare a casa, che delle conseguenze del cambiamento climatico. E se non abbiamo una strategia precisa per affrontare la questione, se non parliamo con tutti quelli che hanno interessi in questo campo, cadremo nella demagogia e i nostri saranno progressi sempre più lenti.
I dati scientifici non cambiano. La fretta non diminuisce. Ma il mio lavoro consiste anche nel trovare il modo più veloce per andare da A a B, in questo caso trovare il modo migliore per avere un’economia basata sull’energia pulita. Chi non ha a che fare con la politica dice: “Beh, il modo più rapido per unire due punti è tirare una linea retta”. Purtroppo, in democrazia, io a volte devo procedere a zig zag, prendendo in considerazione i problemi.
All’inizio del mio primo mandato presidenziale, uno dei problemi con l’approvazione della legge “cap-and-trade” (ovvero gli incentivi economici alle aziende che rispettano le soglie massime di emissioni inquinanti) è stato quello di voler fare troppe cose insieme. I problemi principali degli americani in quel momento erano la ripresa economica e il recupero dei posti di lavoro, giustamente. Un membro del Congresso che aveva a che fare ogni giorno con l’aumento della disoccupazione, oppure che veniva da uno di quegli Stati industriali in cui il costo della transizione all’energia pulita sarebbe stato troppo alto, non poteva percepire il voto per quel provvedimento come una priorità, anche se cosciente della gravità del cambiamento climatico. E noi non avevamo ancora creato il consenso necessario perché questo accadesse.

Al Gore una volta mi ha detto che tutte le persone che ora hanno a cuore il cambiamento climatico hanno avuto a un certo punto un momento che lui stesso ha definito “Oh, merda”, in cui hanno capito cosa c’è davvero in gioco. Qual è stato il suo?
Sono cresciuto alle Hawaii, in un modo probabilmente molto simile a quello in cui cresce la gente qui nel Circolo Polare Artico. Ci sono tradizioni che sono molto legate alla natura, nelle Hawaii. C’è una sorta di consapevolezza innata di quanto sia fragile l’ecosistema che ti circonda. Quando ero piccolo, alle Hawaii c’erano barriere coralline rigogliose e piene di pesci che oggi non ci sono più. Quindi non credo di aver avuto una rivelazione. Ne parlavo già nei miei primi discorsi del 2007 e 2008, l’ho sempre ritenuto un tema importante. Ogni volta che ricevo una relazione scientifica mi rendo conto che c’è sempre meno tempo, che sta succedendo più in fretta di quello che pensavamo. Il nostro compito è suonare l’allarme più forte e il più velocemente possibile. La buona notizia però, come ho detto, è che è stato spazzato via quello scetticismo che girava intorno a questi dati scientifici fino a due o tre anni fa. Abbiamo ripulito quel sottobosco. Un argomento che viene portato avanti dagli oppositori, soprattutto dai Repubblicani è: “Ok, anche se fosse un problema reale, perché dovremmo fare qualcosa noi, visto che i cinesi non fanno niente?”. Il mio viaggio in Cina e l’annuncio congiunto che abbiamo fatto con la Cina riguardo all’impegno a fermare il cambio climatico sono stati importanti per sgonfiare questo argomento. Ogni tanto John Holdren, il capo del mio team di consulenti scientifici, mi manda gli ultimi dati delle ricerche e io faccio in modo che tutti i membri del mio staff li leggano. Gli ultimi report hanno convinto tutti della necessità di capire quali strumenti possiamo usare per essere davvero efficaci.

L’inquinamento è un classico esempio di fallimento del libero mercato, una di quelle conseguenze che vengono ignorate, anche se hanno un impatto negativo su tutti noi

Ha parlato del cambiamento climatico come di un problema di sicurezza nazionale. Come lo mette in confronto, da questo punto di vista, alle situazioni di politica internazionale, per esempio alla minaccia dell’ISIS o dell’Iran?
Sono diversi, ma come Presidente e comandante in capo non posso permettermi il lusso di sceglierne uno rispetto all’altro. Sono tutti problemi importanti. Per quanto riguarda il cambiamento climatico, sappiamo che l’aumento della siccità e delle alluvioni e l’erosione delle coste avranno un impatto sull’agricoltura e faranno aumentare la carestia in alcune zone del mondo e questo porterà alla migrazione di un gran numero di persone. Le persone che vivono nell’isola che abbiamo sorvolato oggi, Kivalina, possono spostarsi. Sicuramente sarebbe doloroso, ma sono in grado di farlo. Se un monsone violento si abbatte sull’Asia meridionale non c’è possibilità di muovere 10 milioni di persone senza farne dei rifugiati o creare conflitti. Più il mondo diventa difficile, più ci troviamo di fronte a problemi di sicurezza nazionale. Per esempio, quello che sta succedendo in Siria è in parte il risultato di una terribile carestia che ha portato grandi fette di popolazione a spostarsi dalle campagne alle città, creando il clima politico adatto a scatenare le proteste contro Assad, che a sua volta ha risposto nel modo più malvagio possibile. Questo è il tipo di minaccia alla sicurezza nazionale che può essere provocata dal cambio climatico. Si manifesterà in modi diversi, ma quello che abbiamo imparato dalla storia è che, quando le popolazioni sono messe alle strette e vivono in condizioni difficili, reagiscono male. Si esprime sotto forma di nazionalismo, guerra, xenofobia, terrorismo. Tutto questo è conseguenza dello stesso problema, e dobbiamo fare il possibile per evitarlo.

Quando parla del capitalismo, mi ricorda il Papa. Anche lui ha affrontato il tema del cambio climatico e sta cercando di dare una spinta agli incontri di Parigi.
Il Papa mi piace molto.

Come persona?
Certo, è una brava persona. E sta dalla parte giusta riguardo a molte cose.

Nella sua enciclica, Papa Francesco ha parlato di quello che definisce “il mito del progresso”. La sua tesi è che l’avidità e il materialismo stiano distruggendo il pianeta. Cosa ne pensa? Affrontare il cambiamento climatico vuole dire anche rivedere i principi base del capitalismo?
Non si può negare che il sistema economico basato sul libero mercato abbia creato più ricchezza di ogni altro nella storia dell’umanità. Inoltre è sempre stato una forza di cambiamento in positivo. Pensa al miglioramento delle condizioni di vita che abbiamo visto nel corso della nostra stessa esistenza negli Stati Uniti, pensa alle centinaia di milioni di persone che sono uscite dallo povertà in Cina e in India, non si può assolutamente sminuire questo fatto. Quando un bambino ha abbastanza cibo da mangiare e ha le medicine necessarie a prevenire malattie mortali, quando le persone hanno un tetto sotto cui dormire e possono mandare i loro figli a scuola, questa secondo me è giustizia. Rientra nella mia etica. Quindi credo che attaccare il sistema del libero mercato in generale sia un errore. D’altro canto è vero che le ideologie liberiste che ignorano le conseguenze verso il mondo esterno prodotte dai sistemi capitalisti possono creare enormi problemi. Il lavoro dei governi e della società è quello di smussare gli angoli e segnalare i fallimenti, un argomento che viene sostenuto anche dagli economisti stessi. Sono concetti che si ritrovano in ogni libro di testo di Economia negli Stati Uniti o in qualunque altra parte del mondo. L’inquinamento è un classico esempio di fallimento del libero mercato, una di quelle conseguenze che vengono ignorate, anche se hanno un impatto negativo su tutti noi. Il nostro obiettivo è dire che il cambiamento climatico rappresenta un altro di questi fallimenti, come lo è stato lo smog a Los Angeles negli anni ’60 e ’70, o il problema dell’inquinamento del bacino idrico del Cuyahoga River. Siamo stati capaci di usare leggi come il Clean Air Act o il Clean Water Act per ripulire quell’acqua e quell’aria, siamo stati in grado di risolvere il problema delle piogge acide e del buco dell’ozono con alcuni provvedimenti intelligenti, possiamo farlo anche con il cambiamento climatico. La differenza è che quei tipi di problemi erano localizzati, non si intravedeva la possibilità incombente di una ricaduta con effetti globali. È una corsa contro il tempo come non ne abbiamo mai dovute affrontare prima, ma questo problema non è diverso dagli altri. Il modo di affrontare questi fallimenti è coinvolgere tutti nella discussione e giungere a una soluzione condivisa, e cioè che dobbiamo tenerne conto tutti nel nostro modo di gestire gli affari. Se riusciamo a farlo, ci sarà un modo per trarne profitto, si creeranno posti di lavoro. Lo stiamo già vedendo con l’industria dell’energia solare o con quella dell’energia eolica. I consumatori sono interessati a risparmiare soldi e usare meno elettricità, quindi io sono ottimista, so che siamo capaci di risolvere la questione. Però è necessario che i nostri politici siano al corrente della situazione, e al momento nel nostro Paese il Congresso fa fatica a far passare una legge sui trasporti, figuriamoci ad affrontare un tema del genere. Ecco perché dobbiamo fare molto come amministrazione, ecco anche il motivo di questo mio viaggio in Alaska. Storicamente la politica si muove quando la gente si interessa profondamente a una cosa. Quando i cittadini di Los Angeles non riuscivano più a respirare, lo Stato della California ha detto: “Usate le marmitte catalitiche”. Quando l’acqua del fiume Cuyahoga ha preso fuoco a causa dell’inquinamento, la popolazione dell’Ohio e quella di tutto il Paese ha detto: “La situazione ci è sfuggita di mano”.

Ci sono cose bellissime sulla Terra che stanno scomparendo e non torneranno più. Ma io non posso abbandonarmi alla tristezza, perché ho molto lavoro da fare

Lei è il leader dell’economia più potente del mondo e anche di una delle più inquinanti. Come gestisce la responsabilità di dover evitare una catastrofe di dimensioni inimmaginabili, che avrà conseguenze su tutta l’umanità e può avvenire nel corso dell’esistenza delle sue figlie?
Ci penso sempre. Penso sempre a Malia e Sasha, penso sempre ai loro figli. Una delle cose più belle di essere Presidente è avere l’opportunità di viaggiare molto e di vedere le meraviglie del mondo in modo privilegiato, come la gente comune non ha la possibilità di fare. Ieri, mentre stavamo navigando in un fiordo qui in Alaska, ho visto una lontra marina che nuotava sul dorso e si riempiva la pancia di cibo, una focena che saltava dall’acqua e una balena che soffiava sulla superficie dell’acqua, e ho pensato: “Devo fare in modo che anche i miei nipoti vedano questo”.
Ogni anno torno alle Hawaii, e spero di poterci passare molto tempo quando il mio mandato sarà finito. Voglio che quando le mie figlie andranno a fare snorkeling possano vedere quello che vedevo io quando avevo 5 o 8 anni. Ho trascorso una buona parte della mia giovinezza in Indonesia e voglio che possano vivere le stesse esperienze che ho vissuto io, per esempio attraversare una foresta e all’improvviso trovarsi di fronte un tempio antichissimo. Non voglio che tutto questo sparisca. Gli abitanti della California hanno dovuto cambiare modo di vivere, i contadini hanno dovuto rivedere tutti i metodi di irrigazione della terra a cui erano abituati, è un investimento che anche i miei figli dovranno fare. Siamo arrivati a un punto in cui possiamo investire soldi sul cambiamento climatico, in un modo che non sembrava possibile fino a dieci anni fa. Il collegamento tra l’investimento e l’effetto non era così chiaro come ora, e questa è un’opportunità. Sarebbe bello se la politica riuscisse ad affrontare una questione del genere basandosi solo su dati scientifici difficili da comprendere, ma purtroppo il nostro sistema politico non funziona così. La gente ha bisogno di vedere le cose, di provarle sulla propria pelle e di respirarle. Fa paura, perché vuol dire che stiamo comunque perdendo del tempo prezioso, ma potenzialmente ci dà la possibilità di creare il consenso politico necessario a risolvere questo enorme problema, non solo in America, ma a livello internazionale. Voglio chiudere questa conversazione con un po’ di ottimismo: la tecnologia c’è già. Abbiamo bisogno di ulteriore sviluppo tecnologico, ma anche usando i mezzi che abbiamo a disposizione in questo momento possiamo ottenere enormi risultati entro i prossimi 20 anni. E questi 20 anni, se investiamo abbastanza nella ricerca e sviluppo, ci permetteranno di fare un ulteriore salto in avanti in seguito. Esiste un modo per farlo senza compromettere la crescita, lo sviluppo economico e i posti di lavoro.

La cosa importante è non far finta che non si debba scendere a compromessi. La transizione comporterà decisioni difficili da prendere, ci saranno ripercussioni su alcune comunità locali che storicamente sono più legate alle fonti di energia tradizionali. Possiamo fare in modo di agevolare il cambiamento, ma dobbiamo essere tutti uniti. Non è sufficiente che un gruppo di ambientalisti che non sanno niente di come funziona una città mineraria della West Virginia dicano: “Fermatevi”. Non è sufficiente venire qui in Alaska e dire: “Ora smettetela, perché il vostro Stato è bellissimo”. Dobbiamo essere lì a parlare con la gente e spiegare come possiamo risolvere i problemi che questa transizione comporta, come fare perché tutti ne traggano beneficio, e se ci sono dei costi come faremo in modo che non vengano sostenuti da un solo gruppo di persone. Questo vale anche a livello internazionale, io non posso andare a parlare con il Primo Ministro indiano e ignorare il fatto che nel suo Paese ci sono centinaia di milioni di persone che vivono in condizioni di povertà e non hanno abbastanza energia elettrica. Se voglio che attui un programma aggressivo per ridurre le emissioni devo essere pronto a spendere soldi per lo sviluppo delle fonti di energia non inquinanti. Devo mettergli a disposizione la tecnologia, aiutarlo a modernizzare i suoi sistemi in modo da renderli più efficienti.

Quando abbiamo visitato il ghiacciaio di Seward, uno dei ranger del parco mi ha detto che sempre più gente viene a vederlo, prima che si sciolga. Alcuni addirittura lo salutano, gli dicono addio, sono tristi perché sanno che il mondo sta cambiando rapidamente a causa del cambio climatico. Prova la stessa tristezza nel vedere quello che noi esseri umani, nel bene e nel male, consciamente o inconsapevolmente, stiamo facendo al nostro pianeta?
Ci sono cose bellissime sulla Terra che stanno scomparendo e non torneranno più. Questo dovrebbe farci riflettere tutti. Ma io non posso abbandonarmi alla tristezza, perché ho molto lavoro da fare. Il mondo è in costante evoluzione, ci sono cose che non avrei voluto che accadessero, ma tra i cambiamenti c’è anche l’aver debellato la poliomielite o ridotto la mortalità infantile, e sono questi quelli che dobbiamo celebrare. Ci sono cose che ho visto che temo i miei nipoti non potranno vedere e questo è triste, ma il mondo è pieno di cose meravigliose e credo che abbiamo tempo per salvare la maggior parte di esse. E sono sicuro che i nostri figli ne scopriranno di nuove.

Questo articolo è pubblicato su Rolling Stone di novembre.
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