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Nelle terre selvagge di Paolo Cognetti

Lo scrittore Premio Strega per ‘Le otto montagne’ è protagonista del documentario ‘Sogni di Grande Nord’, in anteprima al Trento Film Festival. Un viaggio ‘nelle terre estreme’ in cui ha vissuto in prima persona le sue ispirazioni letterarie, da Carver a Thoreau

Foto: Samarcanda Film

Sei mesi a Milano, sua città natale, e gli altri sei in una baita a quota 1800 metri a Estoul, in Val d’Ayas. Vive così da una quindicina d’anni, Paolo Cognetti, Premio Strega 2017 con Le otto montagne, romanzo tradotto in più di quaranta Paesi. Quel libro è stato il punto di svolta di una carriera che fino a quel momento aveva visto lo scrittore lombardo, classe ’78, dividersi tra raccolte di racconti, un diario autobiografico (Un ragazzo selvatico), un saggio sull’arte di narrare storie (A pesca nelle pozze più profonde). Ma è stato anche il frutto di un cambiamento esistenziale in cui la montagna ha giocato un ruolo primario, cambiamento ora al centro del documentario Paolo Cognetti – Sogni di Grande Nord di Dario Acocella, che prima dell’uscita ufficiale nelle sale con Nexo Digital sarà presentato in anteprima nazionale, in concorso, al Trento Film Festival, in programma dal 30 aprile al 9 maggio al Multisala Modena di Trento e fino al 16 anche online su Trentofestival.it. «Un viaggio sia in orizzontale, verso i territori degli autori che hanno formato Paolo, sia in verticale, nella sua interiorità», dice a proposito del film Acocella, che con una troupe di dieci persone, telecamere e droni ha seguito Cognetti e l’amico illustratore Nicola Magrin, suo compagno in quest’avventura, in un viaggio dal Nord della California all’Alaska sulle orme di Raymond Carver, Jack London, Hemingway, Thoreau. Fino al Magic Bus dove morì Chris McCandless, il giovane la cui storia fu svelata da Jon Krakauer nel ’96 nel libro Nelle terre estreme, da cui Sean Penn ha tratto il suo film Into the Wild del 2007. «Era da tempo che volevo andare nei luoghi degli scrittori che più amo», ci spiega Cognetti al telefono dal suo appartamento milanese. «Per me è stato un po’ come ricercare le mie origini».

Com’è nata l’idea del documentario?
Inizialmente volevamo seguire il percorso di quelli che considero i miei maestri visitando le loro case e i posti dove hanno vissuto: era questa l’impostazione. Ma tanti di quei posti non sono più ciò che erano: la capanna nel bosco dove Thoreau visse per due anni a Walden, per esempio, è diventata un piccolo museo con biglietto d’ingresso, non mi andava di fare un viaggio per musei e cimiteri, avevo voglia di un viaggio che di quegli scrittori conservasse lo spirito avventuroso. E su al Nord c’è ancora lo spazio per questo.

Così nella primavera 2019 tu e Magrin, al tuo fianco in quest’impresa, siete partiti. E – prima in camper, poi a piedi – avete raggiunto il Denali National Park, in Alaska, dove finì per morire Chris McCandless. Perché lui?
Perché quella di Chris è la storia che mi ha cambiato la vita e che mi ha spinto, verso i trent’anni, a pensare che sarebbe stato bello andare a vivere in montagna per un po’, provare una vita di un altro tipo rispetto a quella che conducevo a Milano. Andare lassù, in Alaska, dove Chris era fuggito alla ricerca di se stesso, è stato come dirgli grazie. Cosa che hanno fatto anche tanti altri che sono stati ispirati nei modi più diversi dalla sua vicenda: sul Magic Bus, che conosciamo bene grazie al film Into the Wild, abbiamo trovato un sacco di biglietti e messaggi di ringraziamento.

Paolo Cognetti sul set con il regista Dario Acocella e l’illustratore Nicola Magrin. Foto: Samarcanda Film

Lo scorso giugno quel bus è stato rimosso, pare attirasse troppi turisti, cosa che hanno ritenuto pericolosa data la natura remota e selvaggia del luogo. Che effetto ti ha fatto?
Ho trovato molto bella l’immagine del bus imbragato che vola sui cieli dell’Alaska. Lo hanno portato via con un elicottero militare e sono stato contento: in altri Paesi del mondo, Italia compresa, si sarebbe pensato di sfruttare quel posto come un’attrazione turistica, avrebbero fatto un sentiero, messo delle guide, un biglietto d’ingresso. In questo caso non lo hanno fatto, meglio così.

Thoreau, che citavi prima, non è che uno dei tuoi riferimenti letterari. Tra gli altri c’è Carver, sulla cui tomba ti vediamo all’inizio del documentario, e ancora Jack London, Hemingway, Melville, Salinger, gli autori della Beat Generation. Chi ti ha influenzato maggiormente?
Carver è stato il primo che mi ha fatto venire voglia di scrivere. Non è un caso e non è dovuto solo a motivi geografici che il viaggio parta da Port Angeles, dov’è sepolto: l’ho incontrato verso i 19-20 anni e per me è stato un modello. Per le mie scelte di vita, però, e in età più avanzata, il più importante è stato Thoreau.

Il suo Walden ovvero Vita nei boschi, in cui narra i due anni trascorsi tra il 1845 e il 1847 in una capanna sulle sponde di un lago nel Massachusetts, è un libro di culto, specie per coloro che cercano un’alternativa alla società dei consumi.
Indubbiamente quella di Thoreau non è solo letteratura, ed è questo il suo bello. In fondo, in questo viaggio vita e letteratura si sono mescolate anche per me. Ma vale anche per Jack London, cittadino della baia di San Francisco che il Grande Nord l’aveva esplorato andando all’avventura. Un po’ come ho fatto io sulle Alpi, ed è la ragione per cui in queste figure ho visto e vedo un mito.

A proposito del rapporto tra vita e letteratura, hai scelto di raccontare molto di te e delle tue esperienze anche al di fuori dei libri: da questo punto di vista il documentario, da cui è tratto anche un podcast disponibile su Audible, è un ulteriore tassello. Questo fa sì che l’uomo e lo scrittore Cognetti si sovrappongano, ci hai mai pensato?
Questo forse è l’aspetto che mi ha sempre colpito della letteratura americana, e cioè che per noi tradizionalmente la letteratura è qualcosa che nasce dalle stanze, dal chiuso delle case, dalle università, da persone che hanno studiato molto, da figure di intellettuali, mentre la letteratura che nasce dalla strada, dai boschi, dalle frontiere e da persone che hanno studiato ben poco – perché parliamo di autori che non è che siano andati molto a scuola e che la scrittura se la sono inventata, conquistata – in Italia l’abbiamo scoperta con Pavese, che ne ha subìto un fascino che secondo me è sopravvissuto fino alla mia generazione. Oggi la letteratura americana non è più così, tant’è che dall’inizio del nuovo secolo ci si interroga molto su cosa sia diventata o stia diventando. Sembra che la sua anima più selvaggia si sia un po’ persa.

E tu come ti poni rispetto a questo? Anche in un romanzo come Le otto montagne la tua scrittura rivela molto del tuo sguardo sul mondo.
È vero, mi piace l’idea che i lettori si affezionino a quello sguardo, lo ritrovino da un libro all’altro, come uno stile musicale che torna nei dischi di un artista. Questo, però, non va confuso con l’autobiografismo: tanto di quel che scrivo sembra autobiografico, ma in realtà la vita è solo la materia prima da cui scaturisce la scrittura come materia elaborata.

Certo, ma non credi che raccontarti come fai anche in questo documentario aggiunga una dimensione tua, intima, che va oltre ciò che metti nei libri? Non tutti i tuoi colleghi espongono se stessi e la loro concezione della vita in questo modo, o sbaglio?
No, hai ragione, mi sono raccontato molto. Altri scrittori, in effetti, non lo fanno, mentre per me è sempre stato importante parlare delle mie scelte di vita, di come mi approccio alla scrittura, del mio desiderio di diventare uno scrittore, di quanto sia difficile, di quanto sia bello poterlo fare, di come per me significhi un’esplorazione costante di esperienze.

Possiamo dire che per te la scrittura è un percorso esistenziale?
Diciamo che la scelta di vivere tra la montagna e la città e quella di scrivere coincidono, nel senso che sono entrambe dettate da una dose di anticonformismo e dal bisogno di autenticità. Perché alla fine si tratta di cercare la propria strada, di cercare lo stile di vita giusto per sé, il proprio luogo, il proprio modo di stare al mondo.

Che è il senso di questo documentario così ricco di riflessioni che condividi anche con una serie di persone che tu e Magrin incontrate lungo il percorso, persone che hanno compiuto scelte più radicali della tua e che vivono davvero tutto l’anno e da anni lontani da tutto. Che tipo di risposte cercavi?
Come dico nel film, io sono meno radicale di quanto possa sembrare: sento sempre forte l’impulso a partire, ad allontanarmi, a isolarmi per cercare e cercarmi, ma dopo un po’ mi mancano gli amici, le relazioni, i sentimenti che si coltivano solo stando con gli altri. Per cui ciò che ho tentato di capire attraverso quegli incontri è stato questo: sì, bello vivere così, ma l’amore? Va bene starsene in Canada a centinaia di chilometri da tutti quanti, ma poi a chi vuoi bene?, chi ti vuole bene? Per questo parte tutto dalla poesia sulla tomba di Carver.

“E hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto? Sì. E cos’è che volevi? Potermi dire amato, sentirmi amato sulla terra”.
Esatto, Carver voleva amare ed essere amato. E anche Chris McCandless sul bus dov’è morto scrisse che “la felicità è reale solo se condivisa”. È una questione che sento molto, questa, ma non è che con questo documentario abbia trovato delle risposte nette.

Paolo Cognetti davanti al bus di Chris McCandless reso celebre da ‘Into the Wild’. Foto: Samarcanda Film

Sono quesiti che nel film restano in sospeso: libertà e amore si possono avere insieme? Quanto l’amore condiziona la libertà e quanto la libertà rende impossibile l’amore? Ma non bisogna per forza scegliere, no?
Gianni, una delle persone che ho incontrato e che vive isolatissimo, ma con la moglie, mi diceva sempre che se non avesse avuto accanto lei non avrebbe scelto quel tipo di vita. E anche Kate, una scrittrice che incontriamo durante il viaggio, vive in mezzo al nulla, ma con la sua compagna. Credo che almeno la dimensione della coppia sia necessaria per riuscire a trovare il coraggio di cercare la propria libertà allontanandosi così tanto dal resto del mondo e per tutta la vita; dall’eremitaggio assoluto perlopiù si torna indietro, lo stesso Thoreau dalla sua capanna di tronchi tornò e penso lo fece proprio perché gli mancava la compagnia.

Tu a trent’anni ti sei rifugiato per sei mesi a Estoul, piccola frazione in Valle d’Aosta, tra prati, boschi, cime: cosa ti ha spinto?
Volevo capire cosa significhi vivere in una maniera molto diversa da quella cui ero abituato, mettermi alla prova, scoprire come sarei cambiato. È stato un esperimento. Sì, esperimento è una parola che mi piace: prendere la propria vita, metterla in determinate condizioni e vedere che succede. Stare in una baita di montagna, lasciandomi alle spalle la vita di città che avevo condotto fino a quel momento, ha significato vivere con poco, stare all’aria aperta. Una dimensione in cui ho incontrato non poche difficoltà, ma che mi ha regalato tante scoperte, tanta meraviglia.

Nel film chiarisci bene il valore che ha per te questo genere di esperimenti, questo tuo importi di uscire dalla comfort zone, quando dici che se cercasti la solitudine in montagna fu per vedere se resistendo abbastanza a lungo ti saresti trasformato irreversibilmente: è successo?
Non lo so, ogni tanto mi sento la solita vecchia ciabatta e mi sembra quasi che non serva mai a trasformarti sul serio quello che provi a fare per cercare non solo di stare meglio, ma anche di essere migliore. Però alcune cose da quell’esperienza le ho imparate, per esempio ho imparato quanto mi piace scrivere di paesaggio, di viaggio, di montagna, di esplorazione, di solitudine. È stata una grande scoperta, per me in quanto scrittore; all’inizio la mia scrittura era molto urbana e raccontava soprattutto di legami, di amore, di coppie, di famiglia. E poi ho imparato anche che cosa significa vivere da soli, quanto posso reggerlo e a che punto, invece, non mi piace più. Oltre che ad accettare un po’ di fragilità, di debolezze, a non essere estremista com’ero, a non pretendere di non avere i bisogni che sono di tutti.

La tendenza è di appiccicare addosso a chi sceglie di vivere “fuori dal mondo” l’etichetta dell’anticonformista e del ribelle a tutti i costi, e questo con tono spesso paternalistico, se non moralista. Secondo te come mai?
Una bella risposta a questa domanda me l’ha data Kate, la scrittrice, quando le ho chiesto se si era spiegata come mai Chris è stato così tanto criticato per la sua scelta.

McCandless, già, anche lui.
Be’, Kate mi ha fatto notare che lui non aveva fatto del male a nessuno e forse sarebbe il caso di ricordarlo, che una persona può fare ciò che vuole della sua vita, purché non faccia male ad altri. Forse quel tipo di critiche arrivano un po’ dall’invidia, da chi è tutto preso dalle sue convinzioni e costrizioni, dalle persone a cui stanno sulle palle quelli che vanno per la loro strada. Al contrario, chi ha la forza di seguire le proprie idee senza lasciarsi condizionare da fattori esterni comprende perfettamente che cosa cercasse Chris quando è andato in Alaska.

È innegabile, però, che un disagio dietro a quelle scelte c’è, e riguarda un tipo di società in cui molti si trovano bene, ma altri…
Ecco, io faccio fatica a capire chi ci si trova bene, in questa società. Sul disagio non ho risposte semplici, di sicuro quando sono in montagna provo disagio quando noto che pensiamo al mondo solo come a una risorsa da sfruttare, il fatto che non sappiamo semplicemente rispettarlo, coltivarlo, conservarne la bellezza. In città, invece, mi crea disagio l’onnipresenza del denaro, come tutto abbia un prezzo, come sembri che la vita sia così strettamente collegata con l’economia. In tutto ciò quello che cerco è un modo di stare al mondo più giusto e piacevole per me, dove i bisogni indotti siano il meno possibile. Ma non è che basti abbandonare la città per questo, non descriverei la montagna come il regno della purezza, ci sono i bisogni indotti anche lì, basti pensare a chi pensa che senza abbigliamento tecnico non si possa percorrere nemmeno il sentierino dietro casa.

Intanto accanto alla tua baita in Val d’Ayas stai costruendo un rifugio, si chiamerà Fontane: come te lo immagini?
Sarà un rifugio piccolo, con 10-12 posti, dove si offrirà vitto e alloggio ai camminatori e amanti della montagna, ma non solo. Lo sto pensando come la prosecuzione del festival “Il richiamo della foresta”, che organizzo dal 2017 con l’associazione Gli Urogalli, quindi come un posto dove portare avanti dei progetti, dove fare ricerca, spettacolo, arte, cultura. Perché la montagna non è solo il luogo della pace, della solitudine: la montagna ha bisogno di chi ci abiti e non solo di chi va a farsi le passeggiate la domenica. E sarebbe bello che assieme alle persone tornassero la musica, i libri, il confronto politico.

Oggi si parla di smart working, di smart villages: al di là della terminologia da volantino pubblicitario, pensi che la pandemia possa favorire un effettivo cambio di prospettiva, sotto questo profilo?
Sì, quelle parole sono un po’ dei tormentoni, ma è vero che oggi per andare a vivere in montagna non serve saper allevare le capre, ci si può vivere anche facendo lo scrittore, il grafico, il giornalista, e questo apre delle nuove possibilità che in effetti sto cominciando a intravedere: nella valle dove si trova la mia casa, dopo tanti anni di riduzione, sono aumentate le iscrizioni dei bambini a scuola, e non di poco, parliamo di una quindicina di alunni in più, il che significa che alcune famiglie si sono già trasferite.

Invece, tornando al documentario, in Alaska ti sei scontrato con qualcosa che non ti aspettavi?
Mi hanno sorpreso gli spazi, perché un conto è guardarli sulla cartina o dire un numero, un altro è immergertici dentro, e noi non abbiamo niente di simile. Anzi, a volte mi arrabbio perché in Italia non puoi camminare in montagna nemmeno per un’ora senza incontrare un segno dell’essere umano, una casa, una strada, un paese; il luogo intatto devi andartelo a cercare e proteggerlo da tutto quanto. In Alaska è il contrario, puoi viaggiare anche per giorni interi senza incontrare altro che boschi e montagne, e questo…

Fa più paura?
Può essere inquietante, quando la natura selvaggia è così tanto estesa da elemento di meraviglia piò diventare elemento di minaccia, di oppressione. Se ti si rompe la macchina lì, hai voglia a camminare… In più, rispetto alle nostre Alpi, dove anche nelle zone spopolate e ormai abbandonate ogni volta che ci si imbatte in un vecchio villaggio si percepisce un mondo che è stato abitato in maniera armoniosa – anche con grazia, se si pensa che le case venivano costruite in pietra e legno –, nel Grande Nord americano non è così. Il documentario lo mostra: lì a volte l’arrivo dell’uomo coincide con un’azione violenta e con il cattivo gusto, per cui è tutto tirato su in fretta, è tutto usato e poi accantonato e lasciato marcire. È il lato peggiore della colonizzazione umana, ed è la modernità.

In tutto ciò, cos’è l’ispirazione dello scrittore? Nel documentario dici una cosa molto bella sull’arte come attesa: mi chiedo se con i ritmi frenetici di oggi sia ancora possibile.
Da una parte il tuo è un dubbio legittimo, è tutto molto veloce e anche la cosiddetta produzione artistica ha ormai ritmi rapidi: sembra che un artista debba sempre essere presente, che non possa sparire nemmeno per un po’, se non condividi qualcosa sui social per un lasso di tempo ti danno per morto, finito. Invece, insomma, sarebbe normale riuscire a tirare fuori qualcosa di bello ogni tre, quattro o cinque anni… Questo imperativo per cui gli artisti devono stare quotidianamente sulla scena è una follia e non so dove porterà, sicuramente il rischio che si perda in qualità è elevato. Dopodiché quel mio discorso sull’arte come attesa era una replica sia all’idea romantica che ha una parte del pubblico, secondo cui l’artista o lo scrittore è uno che ogni tanto viene colpito da un fulmine e butta giù un capolavoro, sia all’idea del genio, termine che mi fa arrabbiare perché suggerisce l’idea che esistano persone elette e altre no. Non è così, ci sono momenti in cui qualcosa di simile all’ispirazione arriva, ma dentro a un percorso fatto di disciplina e, appunto, di attese. In sostanza, di pazienza.

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