Il dolore, la malattia, lo scandalo, l’accoglienza e, naturalmente, l’amore. Torna Pippo Delbono in prima assoluta dal 28 al 31 ottobre al Teatro Storchi di Modena con un nuovo spettacolo che contiene tutti i temi a lui cari e che si intitola, non a caso, semplicemente Amore, realizzato insieme agli attori storici della sua compagnia. Un caso più unico che raro il suo, almeno nel panorama italiano, visto che ancora una volta avrà in programma una tournée in più di cinquanta paesi nel mondo. Stavolta porterà in scena un’appassionata dedica al Portogallo, terra meticcia per vocazione e crocevia di tradizioni e contaminazioni che, fedele allo stile dell’autore, sarà un viaggio al confine fra vita vera e vita desiderata.
Al centro dell’allestimento una riflessione sul significato della contemporaneità, in particolare dopo l’esperienza della perdita e del distacco che la pandemia ha portato con sé. I riferimenti sono ad autori portoghesi, certo, ma non manca un rimando ai Promessi sposi di Alessandro Manzoni o alla Peste di Albert Camus. Un modo per non ignorare milioni di persone che se ne sono andate senza parole d’amore e di conforto, ma, come unico suono, hanno avuto quello del loro stesso respiro che si spegneva. Lo abbiamo incontrato a pochi giorni dallo spettacolo e ci ha spiegato quanto quel confine, tra vita e teatro, per lui sia ormai impossibile da definire.
Delbono, Amore è stato definito un’appassionata dedica al Portogallo.
Il Portogallo è passione, un luogo dove una persona lascia il cuore. Un luogo profondamente caratterizzato da un immaginario malinconico, struggente, elegiaco. Un luogo fatto di passione e nostalgia, ma anche, oggi soprattutto, di morte. Dopo un lungo periodo di sofferenza, proprio un luogo come questo può rivelarsi ameno, dove anche la nostalgia, la tristezza, nella loro radicata cittadinanza, accolgono l’opportunità di incontrare quella qualità totalmente umana che è l’Amore. La stessa lingua, la sua pronuncia, la sua musica, e così le sue scritture e grafie maneggiano una sottile dolcezza in grado di comunicare una forma di rispetto verso quei sentimenti che altrimenti potremmo leggere e vivere solo come fonte di paura, come qualcosa da, necessariamente, fuggire.
Ora però torni in Italia, che negli ultimi tempi ha dimostrato, in alcuni casi, di essere molto meno accogliente rispetto al passato.
Dipende da nord a sud. Il sud è più vicino al Portogallo, più accogliente, il nord è più “tedesco”. In Portogallo si sono incontrate culture diverse che hanno generato una profonda apertura all’accoglienza. Lì sembra mancare quella minaccia continua che invece serpeggia in altri lidi del mondo: la diffidenza, il razzismo, l’individualismo. E lo leggo in certa poesia, nei versi di Fernando Pessoa, ma anche in quelli di Antonio Tabucchi, che del Portogallo è stato il nostro cantore, il mondo vicino di Federico García Lorca, le parole della nostra Anna Maria Ortese. Lo ascolto nelle canzoni, nelle liriche del fado.
Sono quelli che hai citato i tuoi riferimenti culturali per questo nuovo lavoro?
Sì, Pessoa, Tabucchi, García Lorca. Ma ci sono anche il poeta Mário de Andrade e il regista portoghese Manoel de Oliveira. Senza dimenticare il fado, la musica tradizionale di questo Paese.
Nei tuoi spettacoli è sempre difficile stabilire il confine tra vita e teatro. A volte fatichi anche tu a trovarlo?
Spesso lo perdo anch’io quel confine. Non so più quello che è vita o quello che è teatro o cinema. È un po’ la caratteristica delle mie opere.
Cos’è per te il teatro?
È un luogo nel quale le persone si mettono a disposizione degli altri, si aprono e si raccontano sempre per qualcuno. Lo definirei una convivenza amorosa enorme. Come diceva Bergman, “esseri umani che si incontrano”. Un incontro tra esseri umani, aggiungerei “differenti”.
Come mai il teatro non ha più l’impatto che aveva una volta sulla società?
È invecchiato, si è rifugiato in antichi schemi che bloccano e lo portano a essere un fenomeno culturale per pochi. Quindi questo allontana, soprattutto i giovani che sono ormai abituati alla tecnologia e quindi a linguaggi molto diversi. Loro si sentono esclusi da questo mondo. Dobbiamo cercare di trovare linguaggi a loro vicini, che appartengono all’oggi.
Come hai vissuto il periodo di chiusura prolungato del teatro a causa della pandemia?
È stato un momento molto difficile della mia vita, quindi tutto si è accumulato. L’ho vissuto in solitudine. Non sono riuscito nemmeno tanto a creare.
Si poteva fare di più per sostenere il teatro?
Si poteva fare meglio, sicuramente. Aprire prima, con soluzioni diverse come in altri spazi, in luoghi aperti, con meno persone, prevedere più repliche, ma comunque farlo e non lasciare questo vuoto. In Spagna hanno sempre realizzato spettacoli dal vivo, quindi si poteva fare.
Come ti spieghi che in Italia, patria della cultura, ci sia così poca attenzione per questo settore?
Penso sia a causa degli interessi economici che hanno messo al primo posto altre cose. Alla fine, è rimasto un discorso più che altro di convenienza, di capitalismo, con poco interesse per l’ambito culturale. Quindi con scarso interesse per gli altri. Prima della pandemia erano tutti scatenati contro i rifugiati, poi è arrivato il Covid e penso sia stata anche una lezione di vita che ci ha permesso di guardare il mondo in modo diverso.
La pandemia ha privato dell’amore tante persone nel momento più delicato, quello del commiato. È un omaggio anche a loro
Io non ho avuto il Covid, ma la situazione generale ha influito molto sul mio stato psicofisico. È stato un momento difficilissimo. All’inizio dello spettacolo dico che “in fondo questo amore non c’è, non sono riuscito a trovarlo”. Ed è vero. Per questo ho valuto portare in scena uno spettacolo chiamato Amore. Dopo tutto quello che è successo ripartiamo proprio da qui, da questa incessante ricerca, continuiamo con più amore, altrimenti si torna a dove eravamo prima e un’esperienza terribile come questa non sarà servita a nulla. Torniamo invece lì dove eravamo, ma con una nuova consapevolezza. Torniamo a un periodo in cui quella parola aveva un proprio senso, un momento in cui ci si amava e si parlava di amore con la nostalgia del fado, allontanando l’ingombrante presenza della morte.
È nota la tua appassionata attenzione ai più fragili, agli ultimi, agli indifesi. Come con Bobò, artista sordomuto e analfabeta che avevi scoperto nel manicomio di Aversa e che hai portato in scena per anni, fino alla sua scomparsa. Cosa ti spinge a sceglierli per i tuoi spettacoli?
Li trovo straordinari. Il loro stare in scena è unico e irripetibile. Solo loro portano certi segni, perché hanno inciso sulla loro pelle il dolore. Quindi hanno dei sintomi più forti di poesia.
Nell’arte è necessaria la sofferenza?
Io ho sempre sofferto molto. Però ho portato tutto nell’arte. La morte di mia madre, di Bobò, la mia malattia, tutto quello che mi faceva soffrire e probabilmente l’ho fatto per esorcizzare.
A ogni tuo film o spettacolo teatrale risuona come un mantra la parola “scandaloso”. Ma cos’è per te lo scandalo?
È sempre il cercare di stare a sentire sé stessi e non quello che ci obbligano a fare. Uscire dai canoni prestabiliti. Dalla mediocrità. Non essere adeguati a un mondo che è già malato. Tutto questo per me è scandaloso.
Hai detto che vuoi mantenere lo sguardo del bambino. Scandaloso come un bambino?
Sì, come quello sguardo innocente. Voglio avvicinarmi a tutto questo come farebbe un bambino, dandomi la possibilità di sorprendermi, di aprirmi a ciò che gli interpreti che incontreremo avranno da comunicare e condividere di una realtà estremamente dura. Voglio lasciarmi aperto a ciò che spinge per entrare, a ciò che potrebbe catturarmi in una danza che ancora non conosco.
E in questo tuo percorso hai aderito al buddismo. Cosa ci hai trovato che non trovavi altrove?
Un conoscere sé stessi, un amarsi, un capire che bisogna aiutare gli altri. Che in fondo tutto quello che abbiamo è importante, ma la nostra missione è verso le persone che incontriamo sul nostro cammino. Senza mettere da parte i nostri desideri, che sono importanti. E che attraverso i nostri desideri possiamo ottenere l’illuminazione.
Forse anche le tue origini liguri ti portano all’accoglienza. In mare non ci si volta dall’altra parte.
Sì, in mare bisogna sempre aiutare. Tirare su le persone che arrivano da altre terre e con altre culture con i barconi. Io sono sempre per l’accoglienza.
Già nel 2013 girasti un film interamente realizzato con un cellulare, Amore carne. Ma la tecnologia rischia anche di renderci schiavi?
Certe volte rischiamo di diventarne schiavi, questo è vero. Io ho utilizzato la tecnologia del cellulare perché è un oggetto che, essendo così piccolo, mi dava più la possibilità di avvicinarmi agli altri e cogliere certi aspetti con delicatezza. Ormai hanno una qualità di immagine molto buona e permettono di instaurare un rapporto di confidenza. La tecnologia è utile se la usi bene, sennò diventa solo una moda.
Prima hai detto di non aver ancora trovato l’amore. Ma che cosa rappresenta per te questo sentimento?
Il condividere qualcosa di totale. Stare bene anche nel non far niente. Ma forse è qualcosa di più profondo, come l’amore per la natura che comprende le piante, gli animali, il mare, il silenzio. Così immagino l’amore.