Lo scorso 27 marzo Roger Ballen condivideva sulla sua pagina Instagram una sua fotografia del 2003 e scriveva: “Day 1. Johannesburg Lockdown”. Da quel momento il fotografo newyorkese, trasferitosi in Sudafrica verso la fine degli anni Settanta e noto in ambito musicale per aver diretto nel 2012 il videoclip di I Fink U Freeky dei Die Antwoord, ha pubblicato uno scatto al giorno. «Qui la quarantena durerà fino a inizio maggio, poi si vedrà», dice Ballen, e anche se possiamo osservarlo solo dallo schermo di un computer si intuisce che è preoccupato: la sua personale presso la Halle Saint Pierre di Parigi è stata chiusa anzitempo e chissà se e quando riaprirà, ma soprattutto il 2020 doveva essere l’anno in cui avrebbe aperto i battenti, proprio a Johannesburg, il Roger Ballen Centre for Photographic Arts. «L’edificio è pronto, abbiamo solo poche altre cose da fare, la mia speranza sarebbe di inaugurare il centro quest’estate e la prima mostra l’anno prossimo, ma per ora siamo fermi». In compenso le sue opere continuano a parlarci e non si tratta unicamente di fotografie: se Ballen ha mosso i primi passi come fotografo documentarista, successivamente ha sviluppato un suo stile che fonde vari linguaggi – fotografia, installazione, disegno, a volte videoarte – per dare vita a un immaginario tanto inquietante e distopico quanto intrigante, macabro ma non privo di un lato grottesco.
Una sorta di teatro dell’assurdo in bianco e nero (solo ultimamente hanno iniziato a comparire i colori) fatto di maschere, fantocci, animali selvatici, fili penzolanti o aggrovigliati fino a originare matasse, segni sui muri, vecchie bambole, oggetti rotti, non lontano dalla poetica di fotografi quali Eugene Meatyard e Diane Arbus, a metà strada tra le peregrinazioni nell’interiorità di un pittore come Francis Bacon e l’Art Brut di Jean Dubuffet. «Ciò che metto in scena è il dominio del caos nell’universo», spiega Ballen, classe 1950.
Da questo punto di vista le sue opere narrano anche questo momento storico, trasmettono un senso di claustrofobia che è lo stesso che l’isolamento può provocare. Che ne pensa?
La pandemia ci ha messo in contatto con qualcosa che può infettarci e farci del male, ma che non vediamo e che per questo ci terrorizza. Il Covid-19 non è un nemico che possiamo controllare, è qualcosa che non conosciamo, di cui non possiamo prevedere l’azione, che minaccia il senso che abbiamo attribuito alle nostre esistenze fino a ieri. Le mie opere non parlano di questo, ma di certo il diffondersi del virus — specie in una società tecnologica come quella attuale, che mira al controllo di ogni aspetto dell’esistenza umana — non è che il risultato del trionfo del caos che sta al centro del mio lavoro.
Le sue prime esperienze come fotografo sono legate a viaggi in Asia e in Africa, poi all’esplorazione di remote comunità rurali sudafricane, ma nel corso degli anni ’90 il suo approccio è cambiato e pian piano, tramite l’unione di più forme espressive, è giunto alla creazione di una realtà parallela che colpisce per il carattere cupo e disturbante. Si è mai chiesto che tipo di persone è attratto dai suoi lavori?
Quel che posso dire è che molte delle persone che vedono le mie fotografie sperimentano la capacità di queste ultime di penetrare nel loro subconscio. È un fatto frequente che non so spiegare; credo, però, che le mie immagini contengano un elemento archetipico che suscita una risposta comune da parte di chi le fruisce, indipendentemente dalla formazione culturale e dal background. Come racconto spesso, più volte all’aeroporto di Johannesburg mi hanno fermato ai controlli per chiedermi di mostrare il contenuto di una scatola metallica che mi capita di portare con me quando viaggio; dentro ho sempre delle mie fotografie e ogni volta, non appena la apro, gli addetti alla sicurezza rimangono stupiti, iniziano a parlottare tra loro, mi confidano di sentirsi spaventati da ciò che hanno davanti, mi domandano da dove vengono fuori quelle immagini.
Ed è in grado di rispondere a questa domanda?
No, perché è impossibile spiegare da dove affiorano le idee; sempre che esistano davvero, potremmo non esistere nemmeno noi, magari tutto questo è un sogno, non possiamo saperlo, la vita è enigmatica. La mia arte può esprimere il mondo della spiritualità, la dimensione onirica, esperienze vissute così come illusioni, delusioni, stati d’animo, ma non è qualcosa che si possa racchiudere in un significato specifico: va oltre l’attualità e la fattualità per abbracciare l’universale, una sorta di condizione primaria che ci riguarda tutti. La gran parte della fotografia contemporanea si pone come obiettivo quello di narrare il reale e di avere una qualche rilevanza sociale e politica, ma così la possibilità di fruizione di uno scatto si riduce alla conoscenza della storia che sta dietro a quello scatto. Io cerco altro, cerco un luogo al di là delle parole, al di là del linguaggio verbale che ossessiona la società di oggi: la fotografia e l’arte non sono che gli strumenti che mi consentono di avvicinarmi a quel luogo.
Un luogo raggiungibile attraverso un viaggio nella mente.
Già, e la premessa è che la psiche è sconosciuta alla mente cosciente e consapevole. Ci sono tanti aspetti dentro di noi che reprimiamo, che ci spaventano, con i quali non riusciamo a venire a patti, che non siamo in grado di capire. Nessuno di noi sa chi è veramente, abbiamo la pretesa di saperlo, ma non è così. Vale anche per me: chi è Roger Ballen? L’identità personale è funzionale alla vita nella società, ma ci sono forze che condizionano e plasmano quell’identità che non sono intelligibili o riducibili a uno schema razionale: rappresentano il lato oscuro della nostra mente e con le mie fotografie è quel lato che tento di cogliere. Il mio è un percorso psicologico-esistenziale che ritengo essenziale perché sono convinto che molti dei problemi che abbiamo nel mondo derivino da come gli esseri umani sono spinti a costruire la propria identità senza entrare davvero in contatto con se stessi, senza dare spazio a ciò che hanno dentro di sé nel profondo, ma semmai celando, reprimendo, auto-censurandosi. Il che rende impossibile ogni evoluzione della specie umana.
Lei, invece, scava nel subconscio, lo trasforma in arte e così facendo ci mette a confronto anche con il nostro, di subconscio. C’è molto Jung in tutto questo, so che è laureato in Psicologia…
Sì, in Psicologia e in Geologia. E sì, Jung c’entra, ma in realtà tutto parte dalla constatazione che nemmeno la psicologia e la psicanalisi possono andare oltre un certo limite: non c’è modo di comprendere la mente, non possiamo comprendere nulla.
«Vengo dal nulla, non so nulla e diventerò nulla», dice verso la fine del video “Ballenesque”, in cui racconta la sua poetica.
Esattamente, solo che la parola “niente” fa paura. Per questo esistono le religioni: di fronte all’impossibilità di cogliere il senso di ciò che siamo le religioni forniscono risposte, stabiliscono persino cosa ci sarà dopo la morte, sostituiscono quel “niente” che ci spaventa con l’idea del paradiso. Bisognerebbe avere il coraggio di andare incontro ai lati più incomprensibili e destabilizzanti di noi stessi, solo che si ha timore, allora magari ci si butta sul cibo, si comincia a bere, si fa di tutto pur di distrarsi. Non che io possa sapere cosa succede nella mente delle persone, ma questo è ciò che avverto. Mentre la mia personalità non mi lascia vie di fuga: sono da sempre alla ricerca di ciò che si cela dietro alle apparenze, è un istinto che fa parte di me e che non mi provoca paure, anzi, ne sono affascinato, ispirato.
Nel corso della sua carriera ha lavorato con ragazzini ai margini, senzatetto, persone con disagi psicologici: come si avvicina ai suoi soggetti?
Innanzitutto ci tengo a precisare che le mie fotografie non sono tali perché vi sono immortalati il tipo di soggetti che ha elencato. Il rapporto tra normalità e anormalità mi ha sempre interessato ed è al centro della mia produzione, ma chi può dire cosa è normale e cosa no? Potrei fotografare qualsiasi persona non importa dove né quando e otterrei lo stesso identico risultato, e il motivo è che per me la fotografia è trasformazione. Non sono un reporter, non documento la realtà. Picasso quando ritraeva qualcuno lo trasformava in un suo personaggio, i suoi dipinti riflettono la metamorfosi del soggetto posta in atto dalla sua mente. Allo stesso modo io trasformo ciò con cui entro in contatto, per cui non è il soggetto in sé il punto focale, ma il modo in cui io trasformo quel soggetto attraverso il mio sguardo. Questo è fondamentale, dopodiché è vero che ho lavorato spesso in contesti complicati, pericolosi, particolari, ma sono sempre stato ben accolto perché ho un gran rispetto per le persone con cui mi ritrovo a lavorare, le pago, è come se le facessi entrare nel mio team, cerco di aiutarle e di farle sentire utili, sono amici.
E degli animali che compaiono nelle sue opere cosa può dirci? Uccelli, cani, gatti, galline, serpenti, maiali, ratti…
Bella domanda, mi chiedono quasi tutti delle persone e mai degli animali. Eppure gli animali pervadono il mondo in cui viviamo e il bello è che parlano una lingua diversa dalla nostra e, di più, ogni specie animale ha un suo modo di comunicare e si rapporta con alcune specie e non con altre. Nessuno sa cosa prova e cosa teme un animale, in tal senso gli animali nelle mie opere sono la metafora di una situazione in cui il caos invade il nostro ambiente senza che nemmeno ce ne rendiamo conto. Ma il loro utilizzo è in primis una questione formale: mi piace averli nelle fotografie per il movimento che creano, una sorta di instabilità spontanea che fa parte della mia estetica, dell’estetica Ballenesque. C’è un lavoro di precisione nel modo in cui compongo le immagini, un lavoro complesso il cui fine non è mai fornire risposte né esprimere un messaggio negativo o positivo — queste sono categorizzazioni umane che non esistono in natura —, bensì provocare, mettere di fronte al mistero insito in quella che chiamiamo realtà per stimolare una riflessione.
Si può affermare che la realtà digitale in cui siamo immersi va nella direzione opposta rispetto al percorso di ricerca del sé che nutre la sua arte?
Sicuramente, i social non possono condurre molto lontano con tutto il bla bla bla che ospitano e favoriscono. Possono essere utili, il problema si ha quando diventano mezzi di costruzione della propria identità, perché in realtà non possono aiutarci in alcun modo ad avvicinarci all’essenza della nostra natura. Ricordo i miei esordi da fotografo tra gli anni Sessanta e Settanta, era l’epoca della cultura hippie, ho viaggiato da subito tantissimo perché così si faceva ai tempi: si partiva, si esplorava, si andava alla ricerca dell’ignoto, si interagiva con le più disparate tipologie di persone, tradizioni, culture, e si cercava di catturare tutto questo in una serie di immagini. Ora è diverso, si vive in una dimensione virtuale che purtroppo la pandemia sta rendendo ancora più pervasiva.
In tutto ciò lei sta lavorando a nuovi progetti?
Sì, circa tre anni fa, per la prima volta dopo decenni di bianco e nero, ho iniziato a realizzare fotografie a colori ed è un’evoluzione del mio lavoro che sto portando avanti e che trovo interessante. È una nuova sfida e come artista è questo che voglio: imboccare nuove strade, mettermi alla prova con esperimenti e strumenti nuovi. In questi giorni di quarantena sto anche dipingendo su tela, sempre a colori, non lo facevo dal 1973. In più ho appena chiuso un film e un volume fotografico intitolato Roger The Rat: il protagonista è una persona che pensa di essere un ratto, vive con dei manichini con cui crea un suo mondo che dall’esterno viene percepito come disturbato, grottesco, politicamente scorretto.
Otto anni fa ha collaborato con Die Antwoord. Alcune sue fotografie sono diventate cover di album, penso a Rivers That Run For a Sea That Is Gone dei Reptyle Youth e a Echo Collective Plays Amnesiac degli Echo Collective. E forse non molti sanno che nel ’69 realizzò una serie di scatti al Festival di Woodstock che sono stati pubblicati l’estate scorsa dal New York Times. Che rapporto ha con la musica?
A essere sincero la musica più importante per me è il silenzio. Mai come oggi la musica è ovunque: negli aeroporti, nei negozi, nei bar, nei ristoranti, c’è musica dappertutto, è quasi una droga, a volte ho l’impressione che sia un altro modo per distrarsi da se stessi. Io ricerco la pace e la quiete, una quiete che mi permetta di sentire la pioggia che cade, il soffiare del vento, il cinguettio degli uccellini. Mi piacciono Bach e Beethoven, però è così, la mia musica sono i suoni della natura.
E qui si capisce il perché della laurea in Geologia.
Certo, e la geologia mi ha ispirato tantissimo come artista, oltre a darmi un lavoro che ho portato avanti per trent’anni, come imprenditore nel campo della ricerca di giacimenti minerari. Non volevo diventare un fotografo di moda, lavorare per la pubblicità o per le riviste patinate, e proprio per questo ho studiato e mi sono costruito un’altra carriera: lavorare da geologo mi ha consentito di fare l’artista semplicemente per passione e per nessun’altra ragione. Ho iniziato a scattare fotografie negli anni Sessanta, da adolescente, mia madre lavorava alla Magnum Photos e ha poi fondato la galleria Photography House: è da lì che è nata la mia passione per la fotografia, sono entrato presto in contatto con fotografi come Cartier-Bresson, Elliott Erwitt, André Kertész. Ma prima di arrivare a esporre i miei lavori sono trascorsi trent’anni e durante quel lungo periodo non ho mai smesso di considerare la fotografia come un hobby. In sostanza mantenermi per lungo tempo con un altro lavoro, anziché con le mie opere, mi ha permesso di diventare un artista libero, spinto unicamente da una passione che è ancora viva. Ciò che faccio è ciò che amo, era la mia ossessione quando ero un ragazzo ed è la mia ossessione oggi.