La street art ha meno forza espressiva rispetto al passato? «Solo nell’immaginazione di chi non ha una buona immaginazione». Il punk è morto? «È sempre rilevante per le generazioni di giovani frustrati che vogliono usare la propria voce piuttosto che aspettare che qualcun altro conceda loro il permesso di farlo». La questione più rilevante della nostra epoca? «La mancanza di rispetto per il Pianeta e l’egoismo dimostrato dagli esseri umani si intersecano con altre questioni che compromettono la giustizia e le sane relazioni umane».
Così come le sue opere, anche Shepard Fairey, in arte OBEY, ha una visione netta di ogni questione che gli viene posta. Abbiamo avuto l’occasione di farlo a margine della sua prima esposizione museale alla Fabbrica del Vapore di Milano, che proseguirà fino al 27 ottobre. Un ambito nuovo rispetto alla strada, anche se non fuori luogo, per uno degli street artist più influenti a livello internazionale. Il quale, infatti, ci ha spiegato che «posso fare entrambe le cose e avere potere in entrambi i luoghi».
La mostra si intitola OBEY: The Art of Shepard Fairey, e offre un’opportunità unica per esplorare il suo universo artistico, con un’attenzione particolare al profondo legame tra la sua arte e la musica. In particolare proprio il punk, dove a ispirarlo sono band come Sex Pistols, Black Flag e Public Enemy, ma anche artisti di più ampio respiro come Chuck D., Bob Marley e Joe Strummer. Come loro, i suoi messaggi sono sociali e politici, e hanno fatto storia. Come nel caso di Hope, opera dedicata a Barack Obama e che contribuì alla sua elezione a presidente degli Stati Uniti. E anche oggi che siamo alle porte di un’altra elezione delicatissima per l’America, Fairey ci ha confessato di non avere dubbi su chi sostenere: «Kamala Harris (a cui ha appena dedicato l’opera Forward) o chiunque voglia tenere Trump fuori dalla Casa Bianca, perché smantellerebbe la democrazia e favorirebbe il fascismo come un vero dittatore-autocrate».
Negli anni ‘80 la street art era vista come una forma di vandalismo, mentre oggi è accettata come arte. Ma questa accettazione l’ha anche resa meno potente nell’immaginario collettivo?
Solo nell’immaginazione di chi non ha una buona immaginazione. Secondo me la street art non è mai stata una cosa sola. Ha spaziato dal decorativo al visuale aggressivo e socialmente provocatorio. Quest’ultimo elemento rimane forte, e tutta la street art realizzata senza permessi mantiene la spinta politica come atto di sfida. Credo che l’arte dovrebbe essere presente nel maggior numero di luoghi possibile, soprattutto in pubblico, dove è di certo un’alternativa espressiva al puro commercio e alla segnaletica governativa.
La mostra alla Fabbrica del Vapore di Milano non sembra attenuare la potenza delle tue opere, ma che effetto ti fa vederle esposte in un luogo più istituzionale?
La mia filosofia è sempre stata quella di portare la mia arte in quanti più posti possibile, senza fare scelte riduttive pensando o meno se “mettere la mia arte in strada oppure in una galleria”. Posso fare entrambe le cose e avere potere in entrambi i luoghi. La forza dell’arte di strada è che si confronta con le persone che vivono la loro vita quotidiana, che è molto emozionante perché può coinvolgere un pubblico a cui altrimenti non interesserebbe l’arte. Dall’altra parte, l’arte di strada è quasi sempre temporanea, quindi deve essere semplice da eseguire. Spesso sono stato molto orgoglioso del modo che ho trovato per realizzare certi miei lavori. Tuttavia, apprezzo il tempo trascorso in studio per aggiungere complessità, profondità e dettagli alle mie opere, pur mantenendo la potenza grafica immediata delle immagini. Entrambe le tecniche hanno i loro vantaggi, quindi sono entusiasta nel complesso dell’impatto del mio lavoro in entrambi gli ambiti. E sono orgoglioso della mostra alla Fabbrica del Vapore perché mostra ogni aspetto della mia arte e del mio lavoro di stampa in modo che il pubblico possa comprendere la mia filosofia e la mia storia. Include anche la documentazione di centinaia dei miei lavori di strada che molte persone non avrebbero mai visto dal vivo. In sintesi, lo spettacolo racconta la mia storia così come può essere raccontata in uno spazio controllato.
Nella tua adolescenza hai trovato ispirazione dalla musica, in particolare da band come i Sex Pistols, i Black Flag o i Public Enemy. Che cosa accomuna il tuo stile al punk?
Il mio stile nasce dal pensiero che un’idea forte trasmessa immediatamente è più importante del virtuosismo. Una lezione che ho imparato dal punk e dal primo hip-hop. Mi sono anche connesso con lo stile underground nella costruzione di scene e la loro promozione con budget limitati, proprio in linea con la cultura punk-rock. L’etica del “fai da te” era ed è una parte importante di ciò che sono.
Anche il punk viene spesso dato per morto, invece poi, in qualche modo, torna a far sentire la propria forza espressiva. È così anche per la street art?
Il punk e la street art hanno avuto momenti di massimo interesse mediatico in passato, ma la loro energia di fondo sarà sempre rilevante per le generazioni di giovani frustrati che preferiscono cogliere l’opportunità di usare la propria voce piuttosto che aspettare che qualcun altro conceda loro l’opportunità o il permesso di farlo.
Infatti ci sono opere ispirate a Countdown to Armageddon dei Public Enemy e Smash it Up dei The Damned che trasmettono potenti messaggi sociali e politici. Perché questi sono messaggi ancora importanti oggi?
Perché trasformare la rabbia per l’ingiustizia in un’azione costruttiva è essenziale, soprattutto con alcuni dei problemi che il mondo deve affrontare in questo momento. C’è un detto: «Se non sei arrabbiato, significa che non stai prestando attenzione». E io sono d’accordo. Ma penso che abbia bisogno di un seguito: «Quindi ora che stai prestando attenzione, cosa farai?». Il punk e la street art non sono sempre politici, ma entrambi, per me, hanno avuto una importanza come campanelli d’allarme e come inviti all’azione.
Nella mostra rendi omaggio anche ad altri tuoi idoli musicali, tra cui Chuck D., Bob Marley e Joe Strummer. Che cosa ti hanno insegnato questi artisti con le loro canzoni?
Ognuno di loro mi ha influenzato in troppi modi per poterli riassumere in breve, ma citerò alcuni punti salienti: Chuck D. mi ha fatto riflettere sulla giustizia razziale e sui pregiudizi in modi molto importanti per la mia evoluzione. Chuck mi ha fatto capire che parlare apertamente e mettere le persone a disagio è spesso accolto con ostilità. Tuttavia, il coraggio di parlare comunque è essenziale, e forse più facile se inserito in una canzone che influenza la comunità e la cultura. Bob Marley mi ha fatto riflettere sull’equilibrio tra amore e protesta, gioia e rabbia. Ha bilanciato magnificamente queste cose non solo nel fascino della sua musica ma, ovviamente, nei suoi testi. Joe Strummer ha usato rabbia, arguzia e umanesimo per rendere interessante il prendersi cura dei perdenti in un modo con cui chiunque possa identificarsi. Strummer e i Clash, in generale, mi hanno fatto capire che la critica sociale espressa in una forma interessante ha molte più probabilità di essere abbracciata da tutti.
Ultimamente c’è qualche band o artista in musica che ascolti con particolare interesse?
Gli Yard Act, una band post-punk di Leeds, hanno il commento sociale e il fascino sonoro di una band post-punk come i Gang of Four, anche loro di Leeds, ma mescolati alla narrazione sardonica di un Mike Skinner dei The Streets. Gli Yard Act sono una delle band più contagiose e socialmente influenti in questo momento.
Faccio un passo indietro. Hope era dedicata a Barack Obama e ha contribuito alla sua elezione a presidente degli Stati Uniti. Oggi nessun presidente americano ti ha ispirato?
Per essere chiari, Obama è stato più stimolante come candidato che come presidente perché la politica americana spesso ammanetta e compromette anche i leader più laboriosi e idealisti. Anche se non trovo Joe Biden fonte di ispirazione come oratore, sono ispirato dalla forza del suo carattere e dai suoi oltre 50 anni di servizio pubblico. Ha ottenuto grandi cose come presidente, anche se i repubblicani lo hanno costantemente sabotato. Sono ispirato dalla sua etica e dalla sua costante diligenza, anche se non è riuscito a trasmettere i suoi ideali con la stessa forza oratoria di Obama.
E il repubblicano Donald Trump, che oscilla ancora nei sondaggi come prossimo presidente?
Trump e la dedizione non sono concetti compatibili, perché Trump si dedica solo a se stesso. Ho realizzato un poster critico di Donald Trump prima delle elezioni del 2016 chiamato Demagogue, in collaborazione con la band Franz Ferdinand. Dopodiché, mi sono reso conto che Trump è un narcisista assetato di attenzioni e, quindi, è meglio punirlo ignorandolo.
E a Kamala Harris, che è la candidata presidente dei Democratici?
Ho intenzione di creare qualche lavoro a supporto di Kamala Harris (infatti ha appena reso nota l’opera Forward), ma non somiglierà al poster di Hope. Ho esitato a realizzare ritratti politici dopo il poster di Hope perché credo che concentrarsi sull’immagine dei politici sia insensato quando le loro posizioni politiche e il loro carattere dovrebbero essere enfatizzati. Nel caso di Kamala Harris, credo che le sue posizioni politiche siano positive per l’America, ma credo anche che, come donna nera e originaria dell’Asia meridionale, sia un simbolo di progresso. Non metterei mai l’accento sui simboli del progresso se non credessi in quelle persone, ma penso che potrebbe essere un ottimo presidente ma, in realtà, sosterrei chiunque voglia tenere Trump fuori dalla Casa Bianca perché smantellerebbe la democrazia e favorirebbe il fascismo come un dittatore-autocrate.
L’Italia è un paese dove l’arte è presente ovunque, dalle grandi città ai piccoli borghi. C’è qualche street artist, pittore o musicista che apprezzi?
Due dei miei preferiti sono Blu e Tvboy, che realizzano lavori visivamente potenti ma toccano anche questioni sociali rilevanti. I miei amici Bo e Microbo hanno realizzato la loro grande street art e svolto un ruolo importante nel coltivare la scena della street art italiana.
E se potessi dedicare una tua opera a un italiano, a chi la dedicheresti?
A Leonardo da Vinci perché è stato un grande pittore, illustratore, designer e inventore. Sono un fan delle persone che rifiutano di essere intrappolate in un unico modo creativo e lui era estremamente abile in diverse aree contemporaneamente, molto in anticipo sui tempi e un’ispirazione per tutti i creativi che devono impegnarsi in più ambiti per sopravvivere e trarre vantaggio dal lavorare non solo in una comfort zone per risolvere i problemi.
Anche Andy Warhol è un artista che ti ha ispirato. Disse: «Credo che avere la terra e non rovinarla sia la più bella forma d’arte che si possa desiderare». Anche sul rispetto del nostro pianeta, un tema che oggi soprattutto i giovani sentono fortissimo, era stato un visionario. Qual è il tuo rapporto con il tema del Climate change?
Il cambiamento climatico e la distruzione ambientale sono temi costanti nel mio lavoro da 25 anni. Penso che la mancanza di rispetto per il pianeta e l’egoismo dimostrato dagli esseri umani si incrocino con molte altre questioni che compromettono la giustizia e le sane relazioni umane. Il cambiamento climatico, tuttavia, va oltre le relazioni umane perché i nostri ecosistemi comprendono tutte le specie e le piante che hanno bisogno di mantenere un delicato equilibrio per la salute e l’armonia. L’arte attrae le persone perché trasmette qualcosa che risuona emotivamente, sia per la sua potenza visiva, l’armonia o la connessione tra personale e universale. Perché l’arte ci colpisce in modo speciale è difficile da spiegare a parole, ma questo processo è simile alle sensazioni che ci dà la bellezza della natura. Mi sforzo di usare questo lato dell’arte per ricordare alle persone che la natura deve essere rispettata per come ci fa sentire più felici, ma soprattutto per ricordarci che la salute della natura è direttamente collegata alla nostra salute e alla salute di tutte le specie. C’è una storia molto profonda di alcune delle arti più affascinanti che hanno una connessione con le forme della natura, e mi piacerebbe assicurarmi che questo sia enfatizzato in molti dei miei lavori.
Una frase attribuita a Dostoevskij recita: «La bellezza salverà il mondo». Ma oggi è abbastanza la bellezza o serve anche qualcos’altro per salvare il mondo?
La bellezza può attirare e condurre le persone in una direzione migliore, ma può anche calmare un po’ troppo le persone e spingerle all’autocompiacimento. Bellezza e agitazione contro l’ingiustizia sono invece, per me, la combinazione più potente e motivante.