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Siamo donne, oltre a ‘persone con la cervice’ c’è di più

Si può essere femministe tutte d’un pezzo e insieme intellettuali critiche, in quest’epoca? L’inglese Helen Lewis lo è e lo fa nel bestseller ‘Donne difficili’, ora arrivato anche in Italia. Una chiacchierata sul dibattito in corso, la lingua che cambia, il MeToo. E soprattutto le donne, «che vanno messe al primo posto». Ma coi fatti, non solo su Instagram

Foto: Melani Sosa/Unsplash

«Per metà vittime, per metà complici, come tutti». Donne difficili, il bestseller della giornalista britannica Helen Lewis – pubblicato in Italia da Blackie Edizioni – si apre così, con quello che la stessa autrice definisce «il mio personale motto femminista», firmato Simone de Beauvoir. Quando ci incontriamo, le dico che all’inizio ero un po’ spaventata di trovarmi davanti all’ennesimo polpettone moralista sul femminismo, ed è stata proprio la frase di de Beauvoir a convincermi a proseguire. Se avessi mollato, mi sarei persa l’avvincente ricostruzione della storia del femminismo che Lewis fa attraverso undici battaglie, portate avanti da altrettante donne scomode, controverse, che durante la loro vita non hanno mai accettato compromessi e non si sono mai piegate alla «politica della purezza», che oggi spesso annega ogni critica fatta in buona fede «in un mare di invidia, rancore e rappresaglia». Helen Lewis è ferma ma posata; crede nella legittimità del dubbio, del disaccordo e nell’importanza del contesto; preferisce le azioni concrete rispetto ai dibattiti improduttivi: «Se mi chiedi cosa preferisco, metterò per sempre al primo posto le scelte pratiche». Lei stessa è stata demolita dalle «guerre dell’intersezionalità» – «Ero razzista. Ero transfobica. Ero fuori dal mondo perché ero una donna di mezza età» – e coinvolta in twitterstorm di tutto rispetto, dalle quali ha imparato che a volte, per smorzare il livore, bisogna «bloccare le persone coinvolte e smettere di replicare alle critiche». Eppure, ciò non l’ha spinta fuori dal femminismo, anzi, le ha fatto capire come una cosa simile possa succedere: «Le persone sono complicate e lo stesso dicasi per la lotta per il progresso. Se il femminismo moderno sembra impotente, è perché è regredito a due forme: la celebrazione sterile o la boxe a vuoto contro emeriti bastardi». Come darle torto.

Leggere Donne difficili m’ha fatto sentire meno sola: non sono l’unica a credere che il femminismo odierno sia una sorta di gara.
È così, in particolar modo online. Il femminismo oggi è diventato una specie di competizione: chi è la migliore femminista di Instagram o di Twitter? Molto dipende anche dall’utilizzo del linguaggio, nel senso che tante persone sentono di non padroneggiare il lessico giusto. Ho menzionato nel libro che il femminismo è molto più popolare tra le donne laureate: se però lo trasformiamo in qualcosa in cui occorre conoscere l’esatta lingua da usare, escludiamo le donne migranti, le donne che non parlano bene l’inglese, le donne che non ho avuto un’istruzione formale dopo i sedici o i diciotto anni, e rischiamo di tramutarlo in uno spazio intellettualmente esigente e arido. Se ti rivolgi a “persone con la cervice”, in quanti credi ti capiscano? Ecco il rovescio della medaglia: il pericolo che ci ritroviamo ad avere una élite che intrattiene una conversazione con sé stessa.

Appena hai nominato le “persone con la cervice” mi sono venute in mente le “persone che mestruano” e la polemica infinita che un tweet – per me del tutto ragionevole – ha scatenato.
Non credo che il modo in cui sono emerse le differenze sessuali faccia a pugni con l’esistenza e la dignità delle persone transgender. Il problema è che siamo arrivati a mettere in discussione e cancellare la biologia – che è esattamente il punto di J.K .Rowling. Ciò che le è successo ha costituito un enorme punto di svolta agli occhi di molte persone, perché il contraccolpo nei suoi confronti è stato estremo e spropositato. In quella situazione, gli attivisti di sinistra hanno forzato troppo la mano: per loro, era ovvio che la posizione di J.K. Rowling andasse oltre ogni limite accettabile. Poi si sono guardati intorno aspettandosi che tutti fossero d’accordo con loro, solo per scoprire che la maggior parte della gente non lo era. Nel Regno Unito, l’opinione media su J.K. Rowling è: «Sì, capisco possa essere controversa, ma non penso dovrebbe essere bandita dalla vita pubblica».

J.K. Rowling. Foto: Ben Gabbe/Getty Images

Intanto, però, mentre ci si azzuffava sui social si perdeva di vista il nodo principale della questione.
La cosa davvero triste è che le persone trans devono superare una serie indicibile di difficoltà. Vengono cacciate dalle famiglie; sono vittime di bullismo; i tempi d’attesa per le cure mediche sono incredibilmente lunghi. Si tratta di un percorso durissimo da affrontare. Questa è la vera causa di giustizia sociale, gli attivisti hanno più che ragione a sostenere i diritti dei trans. Ma riscrivere la biologia e sostenere che non si può usare il vocabolario che tutti nel mondo hanno usato fino a dieci minuti fa è un altro paio di maniche. Soprattutto, siamo sicuri che insistendo su questi temi il movimento stia concretamente ottenendo qualcosa per una persona trans che si sente tagliata fuori, che desidera vedere un dottore, che vuole smettere di prostituirsi?

Eppure, la diatriba sul linguaggio – tra schwa, asterischi, x finali e quant’altro – non sembra destinata a placarsi.
Se si ha intenzione di provare a cambiare lingua – un progetto che generalmente sostengo, dato che le lingue dovrebbero essere descrittive – occorre assicurarsi che le persone possano dirlo ad alta voce. Questa è una delle cose bizzarre di alcuni movimenti: sono nati online perché ciò che postulano funziona nella lingua scritta, ma come si pronuncia? Come potremmo saperlo, a meno di non far parte di una cerchia ristretta che usa queste regole tutto il tempo? E poi, perché puntare il dito contro le persone che sbagliano e metterle in imbarazzo? Per introdurre un linguaggio gender neutral bisogna essere certi di poter fermare qualcuno per strada e dire «Lascia che ti spieghi perché lo facciamo» in un modo immediatamente comprensibile. Dovrebbe essere una richiesta, non un’imposizione. Mi turba l’idea che agli occhi di molti debba essere un passaggio obbligato e immediato, quando invece è stato sollevato più o meno un anno fa. Come se la lingua funzionasse con dei commissar che si limitano a pubblicare memo, e poi tutti aggiornano il loro lessico. Non è così, si tratta di un processo più complesso, organico e lento. E la gente deve poter dire la sua. Ciò che infastidisce le persone è la sensazione che ci siano appunto dei commissar, che loro non conoscono e la cui identità non è nota, che impartiscono degli ordini: «Questo è quello che adesso fanno i buoni. Fallo pure tu, se non vuoi che diciamo che sei un fascista».

Spesso sembra che gli attivisti di sinistra, e la sinistra stessa, s’aggrappino più a questi dettagli anziché battersi per azioni concrete: matrimonio egualitario; adozione aperta alle coppie gay; contraccezione ormonale mutuabile; asili nido gratuiti sul posto di lavoro.
È rivelatore di una sinistra che non solo non pensa di vincere nessuna di quelle battaglie, ma che nemmeno vuole combatterle in quanto troppo difficili. E capisco perché non è affatto un bel momento per essere di sinistra in Europa. Quando assisto a questi dibattiti linguistici, ne percepisco forte e chiaro la vivacità e a tratti la rabbia, ma mi sembra d’essere di fronte a un’auto che fa girare a vuoto le ruote. Anche supponendo che alla fine riusciremo a cambiare il nostro lessico, siete davvero in grado di dimostrarmi che questo è stato meglio rispetto a convincere il governo a pagare alle donne un equo congedo di maternità?

Nel libro insisti sul fatto che la voce opposta di “femminismo” non è “uomo”. C’è una frase che mi è rimasta impressa: «Il movimento femminista non detesta gli uomini. Detesta il patriarcato: un sistema creato e sorretto da noi tutti, in cui gli uomini e le donne vivono in uno stato di disparità giuridica, finanziaria e sociale».
Anche a me piace molto, perché riporta l’attenzione sull’idea di strutture dove anche le donne possono essere coinvolte: il problema non sono gli uomini, bensì il sistema – un sistema che al suo interno avvantaggia sì gli uomini, ma pure alcune donne. E rappresenta un passo avanti rispetto al modello individualistico del MeToo, secondo il quale l’idea è che se solo potessimo eliminare l’uomo cattivo, allora la vita sarebbe perfetta. Non è quello che il femminismo dovrebbe cercare di fare. Dovrebbe cercare di smantellare i sistemi e ricostruirli in modo equo per uomini e donne. Ecco perché penso che “patriarcato” sia ancora una parola davvero utile, in quanto sottolinea l’esistenza di una struttura e di una struttura, non di singole mele marce.

Hai citato il MeToo, che ormai sembra lontano anni luce. All’epoca, ricordo di aver più volte contestato l’utilizzo della parola “stupro”: facevo – e faccio – fatica ad accettare che l’essere entrate di propria volontà nella stanza di Harvey Weinstein venga equiparato a una violenza casuale avvenuta di notte, per strada.
È sempre stato molto difficile per il movimento femminista parlare di diversi gradi o tipi di stupro. Non sono d’accordo con te perché in quella stanza d’albergo si fa affidamento sul fatto che la donna non sa che non ci sarà violenza. Sei sola con un uomo di mezza età, che ha molto potere e che qualunque cosa faccia, non vedrà mai l’interno di una prigione. Non sai se verrai presa a pugni, o buttata a terra. E così, anche quando non c’è violenza, c’è è comunque la minaccia di violenza. Capisco che in un certo senso sarebbe più utile distinguere tra sesso per coercizione e stupro violento, ma sono a disagio nel farlo perché esiste una lunga storia nei procedimenti per stupro relativa al perché una donna non abbia reagito, non abbia detto nulla, nonché una generale mancanza di comprensione da parte di giudici e giurie sugli effetti di una minaccia – come il fatto che ci si senta bloccate, impotenti, paralizzate dalla paura. Posso capire il motivo per cui il movimento femminista sia molto cauto nel fare qualsiasi concessione in merito. Ma penso ciò che è emerso durante il MeToo è che le persone hanno avvertito la presenza di diversi livelli di coercizione.

Non menzioni mai direttamente la cancel culture, eppure ne dai implicitamente una definizione perfetta: «Dobbiamo resistere all’impulso contemporaneo che ci limita a scegliere tra due impostazioni: fotoshoppare o rimuovere. La storia è più interessante quando è difficile. Se nascondiamo la polvere sotto il tappeto, se ci liberiamo di tutte le verità scomode, la storia perde forza».
Aggiungo un aforisma interessante, a proposito della cosiddetta “recinzione di Chesterton”: «Non dovresti mai abbattere una recinzione, finché non conosci il motivo per cui era stata alzata». Credo sia abbastanza applicabile alla società moderna, che non dovrebbe demolire le cose, a meno di non avere un resoconto completo del perché erano lì in primo luogo. Per le persone cosa simboleggiano, e come rispondi alle loro preoccupazioni? Il problema alla base della cancel culture è una mancanza di dibattito, di discussione, di democrazia. Quando io stessa sono stata cancellata, quella decisione ha riguardato una nicchia molto esigua, che non aveva un reale sostegno della maggioranza. Ed è questo che preoccupa davvero la persone: l’idea che una élite di cui non faranno mai parte, che ora sta riscrivendo tutte le regole. È il motivo per cui alla gente piace vivere nelle democrazie liberali anziché sotto il comunismo o il fascismo: l’idea che se non ti piace il governo, puoi cambiarlo. Con la cancel culture si è creata una situazione dove un gruppo ristretto di persone emette grandi giudizi universali che non sembra possano essere cambiati. Ecco perché in tanti stanno reagendo.

Alla fine, temo sia tutto riducibile a un tema di popolarità sui social, il che vale tanto per i singoli individui, quanto per le aziende. Ci si schiera su Twitter e si pubblicano un paio di story indignate su Instagram, ma poi – come sottolinei – «Quante giovani femministe hanno mai visto dal vero un rifugio per le vittime di violenza domestica, figuriamoci lavorarci come volontarie?
C’è un detto in inglese che penso sia davvero utile, ovvero che alcune di queste cose sono luxury belief, “convinzioni di lusso”. Le hai solo per dimostrare quanto sei bravo, anche perché non ti influenzano davvero. Ti viene soltanto chiesto di esibirle, di dire che credi in qualcosa, per passare automaticamente per un bravo progressista. Parallelamente, è preoccupante il modo in cui le multinazionali stanno cavalcando la neonata giustizia sociale per apparire dalla parte dei giusti. Certo, perché pagare più tasse, assumere più donne, assumere più persone nere sono azioni troppo impegnative e costose da intraprendere. Recentemente si è tenuta una conferenza di Microsoft in cui l’azienda ha riconosciuto di trovarsi in America su terre native americane e si è scusata pubblicamente. Al che tu pensi, questo aiuta davvero i nativi americani? O è solo una cosa che fai così, come il segno della croce o sgranare il rosario? Forse non è altro la nostra versione moderna di una preghiera detta sovrappensiero.

Il problema è che rischiamo di darci la zappa sui piedi: presi dalla nostra smania di esibire quanta più intersezionalità possibile, diamo per scontato che il sessismo sia una cosa superata.
Purtroppo, arrivi a realizzare che le persone non credono il sessismo da solo sia un qualcosa di brutto e cattivo. Pensano che se sei una donna nera, sei oppressa per via del sessismo e del razzismo – il che è un male. O, se sei una donna trans, per via del sessismo e della transfobia – il che è un male allo stesso modo. Ma difficilmente un uomo bianco e benestante pensa che sua madre, sua moglie, le sue figlie, abbiano qualcosa di cui lamentarsi. È sempre stato un cruccio per il movimento femminista dire «No, questo non è un club per sole donne dove pranziamo e ci lamentiamo di quanto sia terribile essere giudicate dai nostri capelli». Parliamo di donne che vengono uccise dai loro partner; di donne che, negli Stati Uniti, non possono accedere all’aborto; di donne che muoiono di parto nei Paesi in via di sviluppo; di donne catturate per diventare schiave sessuali. Il filo conduttore è l’idea delle donne come classe riproduttiva che può essere sfruttata, insieme alla convinzione che le donne debbano fare ciò che viene detto loro. Molti sono convinti che ormai abbiamo ottenuto quello che volevamo, quindi adesso basta, è tutto finito, perché ci lamentiamo ancora, non dovremmo fare armi e bagagli e tornarcene a casa? Il punto è che no, non ci neanche lontanamente arrivati: abbiamo ancora bisogno di mettere le donne al primo posto.

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