Stan (The Man) Lee ha rivoluzionato l’industria del fumetto facendo abitare i suoi supereroi nel mondo reale, il suo mondo reale. Ha fatto di Spiderman un eroe insicuro, nevrotico, straziato dal senso di colpa e pieno di problemi romantici e finanziari, attacchi d’insicurezza e imbarazzo nell’apparire in pubblico indossando il costume. Una vita che sembra quasi insostenibile. Peter Parker dedica tutto se stesso al ruolo di Spiderman, ma è quello stesso ruolo ad alienarlo dal mondo che vorrebbe salvare. La sua donna, Gwen, odia Spiderman perché ha ucciso suo padre, e Peter è così impegnato a lanciare ragnatele da non avere tempo da dedicare alle persone cui tiene veramente, come sua zia May, che lo sommerge di attenzioni materne, ma non può sapere nulla della sua identità segreta, altrimenti morirebbe d’infarto. L’opinione pubblica pensa che sia un ladro e un assassino. Non può vincere. Se rinnegasse i suoi poteri e provasse a essere solo Peter, verrebbe sopraffatto dal senso di colpa di chi sa che potrebbe fare del bene.
Stan un giorno mi disse che vedeva tutti i supereroi come copie di se stesso. Quando gli ho proposto quest’intervista, mi ha chiesto di essere gentile. Diceva che il mondo era un posto ostile. In quel periodo si sentiva così. Le cose erano difficili a casa Marvel. Il suo artista di punta, Jack Kirby, se n’era andato da poco, dopo essere stato parte del team da sempre. Il giorno dell’intervista, però, The Man era su di giri, nonostante un brutto raffreddore, come se parlasse con i punti esclamativi alla fine di ogni frase. Gli ho chiesto dove preferiva sedersi e mi ha risposto: «Facciamo quello che è meglio per te! Prendi una caramella! Sei mia ospite!».
Abbiamo parlato per un po’, poi abbiamo riascoltato la registrazione. Stan ha detto: «Sembro davvero sgradevole, se incontrassi una persona del genere non mi starebbe affatto simpatica. Dovrei avere una voce più virile». Gli ho chiesto quanto la sua vita privata fosse diversa da quella di editor, volevo capire se la moglie e la figlia vivessero in un fumetto. «Credo che mia figlia non abbia mai letto un fumetto in vita sua, e nemmeno mia moglie. Quando tiro fuori l’argomento si annoiano enormemente. In realtà non so quale sia il confine tra le due vite, perché lavoro davvero sette giorni su sette. Domenica, domenica notte, sabato, lunedì, sempre. C’è solo una cosa che non mi piace del mio lavoro: non ho abbastanza tempo per stare con la gente. Fare lo scrittore è il mestiere più solitario del mondo».
E ancora «il mio matrimonio è rimasto in piedi perché ho la moglie migliore del mondo. Sono assolutamente pazzo di lei, e ogni volta che la vedo, ogni volta che usciamo insieme, è un regalo, come se avessi rubato del tempo al lavoro senza farmi scoprire da nessuno».
Stan ha dedicato tutta la sua vita a convincere la gente a non condannare i fumetti. Pensa che quei libricini possano fare del bene. «Sai, a volte sono molto rigido, quasi un predicatore, ma più mi rendo conto che la gente è colpita da quello che scriviamo, più capisco l’importanza di quello che facciamo, la nostra influenza, e più mi preoccupo di quello che scrivo. Non voglio essere frainteso, e non voglio mettere un ragazzino sulla cattiva strada. Allo stesso tempo, però, cerco di non dire al lettore come dovrebbero andare le cose, perché penso “chi sono io per dirlo?”».
«Credo di essere stato esplicito solo su una cosa», continua, «ed è “Cristo, non siate bigotti”. Non siate intolleranti. Se siete radicali non trattate tutti i conservatori come se avessero le corna. Se siete conservatori, allora sappiate che non tutti i radicali vogliono far saltare in aria le chiese e stuprare i vostri figli». Stan Lee si rende conto che forse potrebbe «sembrare come Pollyanna, ma sono convinto che la maggior parte delle persone voglia la stessa cosa. Vogliono una famiglia felice, vogliono essere in pace, non vogliono la violenza, non vogliono che qualcuno faccia loro del male, e vogliono le belle cose che la vita può offrire. Ma penso che tutti debbano raggiungere quel nirvana camminando su una strada diversa».
Per questo non vuole nemmeno «che tutti i villain delle mie storie siano davvero cattivi. Dottor Destino, per esempio, è piuttosto amabile. Vuole dominare il mondo perché pensa di poterlo governare meglio di chiunque altro. Quando si accorge che qualcuno vuole fermarlo, ne rimane esterrefatto. Penso di aver fatto un buon lavoro in tal senso».
Stan è l’anima di Magazine Management, e il suo lavoro è produrre fumetti che facciano guadagnare l’azienda. I lettori pensano che sia un idealista, e sono scioccati quando scoprono che tiene il denaro in considerazione. La mattina della nostra intervista ha ricevuto una lettera: “Non leggerò mai più fumetti, Stan, vaffanculo. Pensavamo che i soldi non fossero importanti per te, e se cancellerai Silver Surfer per questioni economiche significa che ci hai preso in giro come hanno fatto tutti gli altri”. Stan avrebbe voluto rispondergli, ma non c’era l’indirizzo. Voleva dire a quel ragazzo che se non guadagnassero denaro, il dipartimento fumetti chiuderebbe, e allora non potrebbe fare più un bel niente.
Anche se i suoi fumetti vendono più di 60 milioni di copie ogni anno, Stan crede di essere la celebrità più anonima del mondo. Ogni volta che un conduttore radiofonico o un giornalista lo intervista, è sorpreso di scoprire di avere di fronte un fan. Anche Federico Fellini lo era. Mi ha raccontato della volta in cui il regista passò a fargli visita. Il centralinista gli disse “Fellini è qui per incontrarla” e lui rispose “Certo, digli che Babbo Natale lo aspetta nel suo ufficio”. Pensava davvero che fosse uno scherzo.
«Invece eccolo lì nel mio ufficio, con il suo entourage. Io non avevo idea del perché fosse venuto, ma avevo occasione di parlarci e un miliardo di domande. Non ho potuto farne nemmeno una. È stato lui a intervistarmi, per due ore di fila. Mi chiedeva dove trovassi le idee, da quanto tempo facessi quel lavoro. Sembrava una scena di uno dei suoi film. Gli interessavano i fumetti. A un certo punto ha detto che aveva iniziato a disegnarne di suoi, in Italia. Sapeva che cinema e fumetti hanno molto in comune».
Che cosa pensa Stan Lee di se stesso?
«Di essere un fesso. No, non è vero. Credo di essere un comunicatore. Credo che la comunicazione sia la cosa più importante al mondo. Prendi il Presidente degli Stati Uniti. A volte penso che non dovremmo eleggere un politico, ma un comunicatore. Penso che il mondo abbia bisogno di qualcuno che possa parlare alla gente. Che possa dare speranza. Il problema di questi tempi è che nessuno crede negli altri. Ormai siamo divisi, crediamo solo a noi stessi e a chi è esattamente come noi».
«Non sono un hippie», conclude, «non sono un conservatore, non so cosa diavolo sono. Credo che le etichette non siano importanti, perché sono stato con tizi con i capelli lunghi fino alle caviglie, gente che spaventerebbe chiunque, ed erano le persone più gentili del mondo. Non credo sia importante la filosofia in cui credi, a patto che tu riesca a essere una brava persona all’interno di quella filosofia. Io appartengo a tutti i mondi allo stesso tempo, e sono a mio agio in tutti i mondi».