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Stefano Rapone, futuro vincitore del Premio Strega

O almeno questa è la provocazione, dagli sketch a, ora, il suo primo libro: ‘Racconti scritti da donne nude’. Lo abbiamo incontrato per parlare di comicità, politicamente (s)corretto, Gialappa’s. E per capire se è vero che non si può più dire niente

Foto: Gioele Vettraino

È da pochi giorni in libreria per Rizzoli Lizard il suo esordio nella narrativa, Racconti scritti da donne nude, e i lettori stanno rispondendo alla grandissima. All’ultimo Lucca Comics & Games la puntata speciale di Tintoria Live con la partecipazione di Cristina D’Avena è andata sold out in men che non si dica. Nel mezzo del suo magic moment Stefano Rapone ci incontra a Palazzo Arnolfini mentre di sotto la piazza brulica di cosplayer. Lo stand-up comedian romano ci parla tanto del suo essere narratore, dell’essere comico, di cose mica tanto da ridere: la sola difficoltà è capire quando fa sul serio e quando no. Ma anche a proposito di essere seri c’è molto da dire.

Cominciamo dal libro, che mi pare anche una sfida: la parola scritta, la rinuncia alla fisicità, al tuo ritmo, quella voce tenebrosa…
Dici che non scrivo anche in maniera tenebrosa?

Magari no, ma la scrittura deve averti dato altre possibilità. O forse limiti. Hai scoperto delle cose nuove?
C’è un lato positivo rispetto a quando faccio le cose in teatro, ed è che ho meno ansia di fare una battuta ogni tot secondi. Scrivendo si è più rilassati, c’è la possibilità di prendersi tempi più dilatati. Anche perché il ritmo nella lettura lo dà anche il lettore, e probabilmente non è quello che userei io. E poi scrivere mi permette anche di non essere necessariamente io il protagonista di queste storie. Negli spettacoli sono sempre io che racconto, io che faccio delle cose, qui posso estraniarmi e parlare di cose che difficilmente potevo utilizzare nei live.

I limiti, invece?
La cosa più negativa è che nei live c’è subito il feedback. Ti rendi conto se una qualcosa funziona o meno, capisci subito se stai facendo una cosa sensata o se stai perdendo tempo. Invece il libro lo fai, esce, e poi chi lo sa.

Tu ti sei dato un feedback da lettore?
A gusto mio, più o meno, mi sembra una cosa ok.

Ho amato la comunicazione legata al libro: c’è su YouTube un tuo pezzo in cui invochi il Premio Strega. Poi resti umile e dici di accontentarti anche del Campiello.
Qua c’è tutta una storia. Il libro doveva intitolarsi Il libro vincitore del Premio Strega. L’idea era che sotto Natale le signore anziane andassero in libreria e dicessero: mi dai il libro vincitore del Premio Strega? E invece prendevano il mio e io facevo i soldi. La struttura all’interno del pezzo è quella: sono io che scrivo ai vari premi e chiedo di darmeli. Perché insomma, è un capolavoro quello che ho scritto.

Alla fine purtroppo il titolo non è passato.
Niente da fare. All’ultimo momento ho dovuto trovare un altro modo per far sì che si vendessero più copie possibili, quindi l’ho chiamato Racconti scritti da donne nude. Anche in questo caso con una certa speranza.

Non prendersi troppo sul serio è il modo migliore per fare le cose seriamente? Non necessariamente la comicità, o non soltanto.
Molti nella letteratura si prendono sul serio. A me faceva ridere l’idea di essere outsider, non fare parte del mondo della letteratura, arrivare e subito puntare allo Strega. Tra l’altro dopo quella canzone lo Strega mi ha poi mandato il liquore. Ho la riprova che spesso si è più realisti del re. Il Campiello non mi ha mandato niente.

Per ora.
Per ora, sì. Vediamo.

Il tuo capolavoro ha dei riferimenti? Penso a Stefano Benni, per esempio.
Non ho tantissimi riferimenti. Benni l’ho certamente letto, un po’ di Woody Allen. Forse i riferimenti sono più persone che conosco, comici che stimo, per esempio lo Sgargabonzi Alessandro Gori, Valerio Lundini: anche loro hanno scritto con Rizzoli Lizard. Io non mi ero mai cimentato con la scrittura, ora mi sembra di vedere la differenza tra i racconti che mi sono venuti di getto e altri con un’idea che ho cercato di sviluppare in maniera più lunga. È una cosa che anche io ho scoperto man mano, lì per lì. Non c’è un punto di riferimento preciso, ho visto come venivano fuori queste cose, più sotto forma di prosa.

Che tempi sono per fare ridere, o anche riflettere? Mi viene in mente la vecchia storia della Svizzera e degli orologi a cucù. Faresti volentieri a meno di tante cose da ridere?
È una forma anche di sfogo in tempi in cui le situazioni politicamente parlando sono complesse, un ritorno repressivo. E quindi anche solamente riderne può essere una valvola di sfogo, perché altrimenti sarebbe troppo difficile sopportare tutto quanto. Se c’entra una riflessione, quel qualcosa che ti fa fare quel passo in più, è sempre bene. Però certamente, più i tempi sono difficili e più si è portati a trovare una lettura ironica alle situazioni più complesse.

Il politicamente scorretto, l’idea del confine, del possibile incidente, è un pensiero con cui ti confronti spesso? Fa paura?
Secondo me uno deve essere sempre responsabile, capire che hai delle responsabilità se fai comunicazione in generale. Hai comunque una platea di persone che ti ascoltano, è giusto sapere il più possibile delle cose di cui stai parlando, e quali sono gli eventuali effetti del fare una battuta scorretta. E una volta che valuti tutti i rischi e decidi di prenderteli, allora lo puoi fare.

E come farlo, in questo caso?
L’importante è essere consapevoli delle tematiche che vai a toccare, se sono spinose perché in alcuni casi per delle persone sono problemi veri, che riguardano la loro vita. Magari quella che per me è una battuta, per un’altra persona è parlare della sua vita: c’è da capire quello che significa per il prossimo, e una volta che l’hai capito decidere come affrontarlo, in modo tale che non sia offensivo. Non perché hai paura, ma perché capisci che non ha senso andare a battere su qualcosa che è già doloroso per qualcuno. O lo puoi fare, ma capire qual è l’obiettivo, se non è schernire non chi è già in difficoltà, ma schernire quelli che scherniscono, il loro linguaggio. Quello è un altro paio di maniche. Bilanciare tutto è qualcosa di molto delicato. A volte si sbaglia pure, e lì come dico sempre è un dialogo: io devo avere la responsabilità di dire le cose al meglio delle mie possibilità, e il pubblico un po’ deve capire cosa sto cercando di fare. Poi le cazzate le facciamo tutti, può capitare.

Foto: Gioele Vettraino

A proposito di cazzate e errori: a Lucca si è parlato anche di questo, in una conferenza su satira e libertà che provocatoriamente si chiamava Non si può più dire niente. Che pare una frase del tuo personaggio, Galeazzo…
Esatto.

Però l’argomento è caldissimo: si parla della sensibilità e dei confini, della capacità di distinguerli. E qui il discorso cambia, penso soprattutto ai social.
Il problema dei social è la mancanza di contesto. Se tu fai una battuta in un teatro, sai che la gente è venuta lì apposta per te: ha pagato, ha delle aspettative precise, crei un rapporto con quelle persone. Là per loro è più facile capire perché stai dicendo una cosa: magari li stai provocando, magari la provocazione fa parte di uno spettacolo e il fine è dire qualcos’altro. Sui social invece tu scrolli, ti capita il gattino che gioca e uno che fa una battuta sui disabili: ti sembra la stessa cosa ma non c’è più il contesto comico, ti sembra tutto lo stesso calderone, si perde la giusta dimensione. Le persone la vivono in certi casi anche come un’invasione della propria privacy: io sto tranquillo a scrollare e sei arrivato tu col tuo video e mi hai insultato.

È solo l’algoritmo, o c’è una questione di ricettività, restiamo tutti per certi versi impreparati?
Il discorso è soprattutto quello, che non c’è da parte del pubblico, o da un certo tipo di pubblico, l’educazione di capire che uno ha caricato un video, è capitato per caso, se non ti piace scrolla, passa al prossimo come faresti con altre cose. Ma è un problema anche del mezzo, di mancanza di familiarità per molte persone, che pensano che sia una roba disegnata a loro immagine e somiglianza, poi arriva una cosa esterna e quindi si straniscono.

Con i social è cambiato anche il modo di percepire la provocazione?
Un altro problema è che lì sopra è tutto uguale. Anche su Twitter, per dire, hai una dichiarazione della Meloni, c’è la battuta del comico, e si confondono le cose. Quella della Meloni sembra una battuta, e quella che dici tu sembra una cosa vergata col sangue. E invece uno deve capire: questo è un comico, usa quel mezzo, lo stesso che usano i politici, ma chiaramente l’intenzione è diversa, se andiamo a guardare gli altri post magari sono tutti un po’ paradossali. Si dovrebbe fare un po’ uno sforzo in più da parte del pubblico. È chiaro che non è affatto facilitato da questo contesto, che è inesistente.

A proposito di come è cambiata la comicità, di uno stile generazionale: hai fatto un paio di nomi, ma siete in molti con percorsi simili. Tu senti di far parte di una nuova scuola, o comunque di una collettività?
Io faccio parte di quella che è considerata la seconda generazione della stand-up comedy, ci siamo più o meno tutti formati su cose italiane, l’infanzia, la Gialappa’s, i programmi della Dandini, ma anche Fantozzi, Renato Pozzetto. Però poi crescendo ci siamo appassionati a un tipo di comicità più anglosassone, un po’ meno di pancia, che è quella derivata dal cabaret e ancor prima dalla commedia dell’arte, e più di ragionamento, di scrittura. La differenza probabilmente è questa: guardiamo un po’ più all’esterno, ai comici americani e inglesi, meno quelli che sono considerati tradizionali dalla generazione precedente. Abbiamo meno formazione teatrale: a Tintoria per esempio sentiamo spesso di chi per esempio ha cominciato con Gigi Proietti, oppure chi faceva l’animatore, hanno un tipo di mentalità. Noi piuttosto abbiamo visto dei video e ci siamo detti: provo a farlo pure io. Senza nessun tipo di formazione, è stata quella per così dire la nostra strada.

Dopo la strada e le esperienze, anche in tv, è arrivata la Gialappa’s. Oggi ti senti più mainstream?
Non mi sento mainstream, la fase mainstream della Gialappa’s è stata negli anni Novanta e Duemila, ora stanno su TV8: sono visti principalmente dai fan di vecchia data, qualcuno nuovo lo prenderanno sicuramente, ma la televisione ha meno potenza rispetto al passato. Stiamo vivendo quella fase un cui tutti ti dicono: una volta c’erano i soldi, facevi un’apparizione a Zelig e si apriva il mondo. Ora è più faticoso.

Più faticoso ma anche più bello?
È bello perché sono cresciuto con la Gialappa’s. Il fatto che mi scelgano è un attestato di stima da parte di persone che vedevo da piccolo e pensavo: sarebbe bellissimo fare delle cose con loro. E poi alla fine le fai. Il me bambino sarebbe molto contento adesso.

Non ti ho convinto sul mainstream, però.
Non lo so, secondo me sono tutte nicchie: anche le cose che fai su internet, gli spettacoli, è difficile essere mainstream. Non me ne vengono in mente tanti: l’ultimo che mi viene in mente è Checco Zalone. A me ci sono persone che mi conoscono, e altri che non hanno idea di chi io sia.

E il tipo di persona che chi sa chi sei, ti piace? Senti un’affinità con chi continua a seguirti?
Sono contento che mi segue, e che magari non è uno a caso. Più o meno è gente mi viene a cercare apposta. O se mi hanno trovato per caso può essere successo una volta, ma poi si sono messi a seguirmi, o magari no. Però è un pubblico meno generalista e più fedele, che conosce bene quello che fai.

Si può ridere di tutto? E se sì, si deve?
Secondo me sì. Ma deve essere fatto bene. Non so come spiegarlo. Devi farlo in maniera consapevole, facendo battute che siano difendibili, anche davanti alle persone che coinvolgi nella battuta. Deve essere chiaro quello che vuoi dire tu, e capirsi che è un gioco, che non è vero. Molti dicono: basta l’intenzione. Ma l’intenzione è pure difficile comunicarla bene alle persone, deve essere chiara nei confronti di chi vai a coinvolgere. Teoricamente e potenzialmente si può ridere di tutto quanto, ma va fatto in maniera tale che non sia gratuito. Non so dirti la formula, ma che sia fatto bene: so che non vuol dire niente, ma vuol dire tutto.

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