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Stefano Seletti: dal mercato al MoMA (senza smettere di divertirsi)

In occasione della Design Week, abbiamo intervistato Stefano Seletti. Dall'imprenditoria, alla produzione in Cina, passando per la musica e la creatività, siamo finiti a parlare di Trump, il quale, forse, in quanto a comunicazione ha capito tutto

Stefano Seletti è un imprenditore che ama definirsi un creativo. Dopo aver preso le redini dell’azienda del padre, il quale, a partire dagli anni ’60, produceva in Cina prodotti per casalinghe – distrubiti soprattutto nei mercati – Stefano Seletti è riuscito a trasformare un’azienda italiana di complementi d’arredo economici in un’eccellenza nel panorama mondiale del design. Tutto ciò apparentemente senza troppi sforzi, ma con ottime idee e una sana voglia di prendersi un po’ in giro. Lo abbiamo intervistato in occasione della Design Week milanese, in cui, tra i varie eventi organizzati dal brand, spicca la Design Pride, il party più democratico del Salone. Non aspettatevi musica techno che spegne i neuroni: l’evento segna il lancio di una piattaforma, designpride.org, in cui giovani designer da tutto il mondo sono invitati a presentare un progetto che rivaluti le maestranze artigianali del loro paese d’origine. I progetti migliori verranno poi prodotti e distribuiti su scala globale grazie a yoox.com. La parata partirà alle 17 da Piazza Castello per concludersi in Piazza Affari davanti al ditone medio di Cattelan – sempre per non prendersi troppo sul serio. Abbiamo fatto un paio di domande a Stefano Seletti per capire come si fa a lavorare bene senza smettere mai di divertirsi.

Design Pride – Foto Meschina


Come si fa a passare dai pentolini di latta agli scaffali del MoMA?
Eh! Non te lo dico, passiamo alla seconda domanda! [ride] . Diciamo che è una trasformazione, un’evoluzione. Ho fatto molto allenamento da giovane. Servendo la grande distribuzione, sei abituato ad avere un mercato molto ampio. Lavorare in quest’ambito è stata una palestra importante nella scelta dei prodotti, nella selezione. In quel mondo, la caratteristica principale che si cerca è la vendibilità. Una volta intrapreso questo percorso è stato… non dico facile, ma piuttosto semplice arrivare a sviluppare un rapporto particolare con i miei prodotti. Conoscendo la produzione e la distribuzione, l’introduzione di immagini contemporanee e irriverenti è stata una scelta molto forte, attuale, innovativa. La cosa che amo ricordare è questa: i miei sono oggetti che hanno una memoria, una matericità, appartengono alla quotidianità perché siamo abituati a vederli, ma sono venduti in uno dei negozi più fighi del mondo a 13 €. Questa secondo me è una cosa molto interessante, che non ha mai fatto nessuno.

Di solito avviene il contrario: si parte da una nicchia con l’obbiettivo di raggiungere il mercato di massa. Voi avete fatto esattamente l’opposto – una rarità.
Secondo me la svolta è stata l’introduzione della logica contemporanea: questi prodotti sono esclusivi perché vengono venduti in negozi esclusivi, ma sono economicamente accessibili a tutti. È un’esclusività mentale, concettuale. Mia madre, ad esempio, non apprezza più di tanto la linea Toilet Paper. Questa collezione è nuova e contemporanea per questo motivo. Durante questo Salone del Mobile, inoltre, presenterò una nuova linea che parte dagli stessi presupposti ma è stata sviluppata con Studio Job, forse il nome più importante nel mondo del design contemporaneo. Sono andato proprio poco fa a ritirare le magliette che abbiamo creato per questo nuovo marchio, Blow – una bomba! Sono di una bellezza incredibile. Sono andato a comprarle sabato scorso da H&M a Parma, poi un mio amico ha fatto una stampa perfetta, proprio come la volevano i ragazzi di Studio Job: scintillante, glossy, con il simbolo della bocca di Blow. Sono bellissime, ma per il momento ne ho solo otto. Le esporremo, ma per il momento non potremo venderle.

Come nascono le collaborazioni di Seletti con designer e artisti?
Sono sempre figlie di rapporti di amicizia: Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari mi sono stati presentati da amici durante una cena nella balera di Porta Venezia, dove sui tavoli c’erano queste tovaglie di plastica stampate. Le importava mio padre, quelle tovaglie! Da lì è nata la collaborazione con Toilet Paper. Sono sempre stato un grande ammiratore di Studio Job, ma non avrei mai avuto il coraggio di suonare al loro campanello: sono riuscito a lavorarci grazie a Fabio Novembre. Avevo un’idea che volevo sviluppare con loro, la serie INDUSTRY: sedie da giardino con un design che ricorda lo stile liberty, di cui loro hanno curato le decorazioni. Fabio gli ha scritto che avevo questa idea: riportare sul mercato le sedie da giardino dei nostri bisnonni, ma con i decori di Studio Job. Loro hanno risposto dopo due secondi, erano entusiasti del mio lavoro. Abbiamo lavorato al progetto senza vederci neanche una volta di persona. Per i nuovi prodotti, invece, ci siamo incontrati spesso. Devo dire che non è proprio giusto chiamarli prodotti, è più un brand a sé.

Design Pride – Foto Meschina

È difficile essere un imprenditore cool vivendo nella bassa padana?
No, anzi! Io ho un rifugio nel quale sto molto bene: abito a un’ora e mezza da Milano e ho anche un appartamento in città. Alcuni anni fa abbiamo ristrutturato la sede, l’abbiamo trasformata in un posto accogliente e stimolante, è stato il nostro investimento più importante. Dentro c’è anche lo showroom. Volevo dare grande qualità alla vita lavorativa. Non è semplicissimo essere un’azienda interessante stando lontano da Milano, quindi ho cercato di portare la coolness qua da noi. Sono contento del risultato, è interessante! Credo che sia tipico di Seletti anche il luogo in cui opera e lavora.

Quindi questa volta, durante il Salone del Mobile, non alloggerai più in ostello?
No, ma ci sono stato negli ultimi tre anni. L’ultimo non è stato facile, avevo la camera sotto la cucina e sentivo continuamente questi ragazzi che bevevano e facevano casino. Però l’Ostello Bello, il posto in cui alloggiavo, è un luogo meraviglioso, ci ho lasciato il cuore.

Cosa vuol dire produrre in Cina nel 2017? E cosa voleva dire in passato?
Non è facile fare un paragone con altri paesi, noi abbiamo sempre prodotto in Cina. Quando vivi una cosa per così tanto tempo non riesci a capire bene i pro e i contro. Però posso dire questo: è stato interessante crescere insieme a quel paese. Andare in Cina nel 1987, quando avevo 17 anni, mi ha fatto ripiombare nel passato: sono tornato all’epoca di mio padre e ciò mi ha permesso di vivere due generazioni. I miei viaggi in Cina, poi, all’inizio erano molto lunghi, andavo lì due volte all’anno, ma mi fermavo per un mese: viaggiavo su treni a carbone, mi tiravo giù la valigia dall’aereo da solo, gli alberghi erano posti difficili, così come difficile era il cibo cinese. Insomma, nessuno ti metteva al collo una corona di fiori.
I cinesi sono riusciti, nell’arco di tempo che normalmente appartiene a una sola generazione, a fare passi avanti incredibili, come se ne avessero compresse tre in una. È stato stimolante viaggiare e vivere un paese che è cambiato così rapidamente. Ogni volta che tornavo in Cina la trovavo diversa, per questo dico: ok, la Cina è uno dei paesi che inquina di più del mondo, ma sono sicuro che sarà uno dei primi a smettere di farlo. È un paese che guarda sempre avanti, sono convinto che nel momento in cui decideranno di dare un taglio a questa all’inquinamento lo faranno in maniera decisa, non abbassando qualche statistica dello zero virgola qualcosa come fanno gli altri paesi.

Design Pride – Foto Meschina

Cosa significa iniziare a lavorare a 17 anni?
Significa perdersi un po’ di cose, alcune fondamentali: lavoro nel campo del design senza essere un designer, non so fare un disegno al computer. Non ho approfondito le lingue straniere, sono in grado di comunicare in inglese ma non ho un lessico molto raffinato. Certo, ho avuto la possibilità di fare questo tuffo nel passato, come ho detto prima. Viaggiare nell’Oriente di trent’anni fa è stato stimolante e mi ha fatto crescere in fretta.

Dal tuo punto di vista, oggi è indispensabile studiare design per puntare a diventare un bravo designer?
Aiuta molto, a me aiuterebbe saper progettare al computer.

La grafica applicata a un prodotto basic è solo packaging o in qualche modo ne trasforma l’essenza?
Credo che ne trasformi l’essenza. La tazza di Toiletpaper senza quell’immagine sarebbe una cosa completamente diversa, perderebbe molto del suo valore.

In base a quali qualità selezioni il tuo team creativo?
Affinità, incontri casuali… è difficile spiegarlo, non siamo un’azienda grande e non c’è nessun tipo di struttura che si occupa della selezione del personale. Me ne occupo io in prima persona, valuto personalmente tutti i progetti dei miei designer: è una delle cose più importanti nella mia quotidianità, evito di farlo solo se sono di cattivo umore, non voglio farmi influenzare dalla negatività. Guardare il lavoro di chi pensa per la tua azienda è una delle cose più belle del mondo.

Design democratico e prezzi accessibili: una scelta strategica o politica?
Si tratta di una scelta storica, Seletti nasce servendo il ceto medio e continuerà su questa strada. La nostra esclusività è mentale, l’aspetto nuovo della mia azienda è proprio questo: ci siamo liberati di quell’esclusività che era solo economica per per proporne una diversa.

Hai affermato che Seletti non è un’azienda di design. Ti definiresti più un produttore, un ideatore o un innovatore?
Tra queste tre preferisco la parola innovatore: mi piace pensare in modo differente, è quello che mi ha sempre aiutato e salvato. Credo che sia un po’ la formula del mio successo: ribaltare il mercato con idee nuove.

Un creativo o un imprenditore?
Creativo, assolutamente! Fortunatamente sono circondato da persone che mi aiutano dal punto di vista imprenditoriale, altrimenti quest’azienda sarebbe un disastro!

Il segreto del successo è guardare sempre avanti?
Assolutamente, lo dici a uno che odia vedere le foto di gioventù. Su questo non ho il minimo dubbio, rispetto gli insegnamenti del passato ma l’unica cosa che so fare è guardare avanti.

Design Pride – Foto Meschina


Com’è nata l’idea di portare il Design Pride, ovvero una street parade, al Salone del Mobile?
Ho due figlie e due nipoti. Sono state le mie muse, mi hanno ispirato molto. Gaia, la più grande, l’ho tenuta in braccio sin dal suo primo giorno di vita. Osservare come si siede oggi un ragazzo su un divano ti fa capire molte cose: è aumentata la profondità, il comfort… un tempo sul divano si faceva conversazione, oggi invece si vive in modo completamente diverso. Guardare questa nuova generazione per me è sempre interessante, mi piace osservarli. Hanno un modo di ascoltare completamente diverso: non si soffermano sulle parole ma sul ritmo, sul colore… fanno fatica a dare attenzione a un docente che parla per due ore. Sono invasi da stimoli costanti e sempre diversi, è difficile catturarne l’attenzione. Secondo me il modo giusto per dialogare con i ragazzi è avvicinarsi al loro linguaggio: prima devi attirarli a te, poi puoi inviare il tuo messaggio, ovviamente nella maniera più sintetica possibile. Bisogna parlare in modo più immediato, dobbiamo parlare come Trump ha parlato ai suoi elettori. Le masse si conquistano così, non con concetti verbosi e complicati. Quello là con quattro slogan ha conquistato la vittoria, perché erano semplici e andavano dritti al punto. Il Design Pride è questo, un modo bellissimo per parlare e avvicinarsi ai giovani.

Sono d’accordo. L’utilizzo di concetti verbosi e complicati – uniti a un’ostentata superirità intellettuale, forse sono state proprio le ragioni della sconfitta della sua avversaria Hillary Clinton. Cambiando radicalmente argomento, che genere di musica ascolti?
In ufficio abbiamo una radio, ascoltiamo sempre questo DJ che trasmette musica molto varia: elettronica, bossanova… Se devo dirti un brano allora scelgo “People Everyday” degli Arrested Development: è uno dei miei cavalli di battaglia, un pezzo che fa ballare le folle, cioè le dieci persone che frequentano la mia stessa osteria. Lì ho piazzato questo box a cui collego il telefono: con gli amici ci troviamo lì, beviamo una bottiglia di vino e ascoltiamo un po’ di musica.

Hai molti amici musicisti?
Mi capita spesso di incontrare musicisti, soprattutto grazie a Maurizio e Pierpaolo che conoscono tante persone di quel mondo, come i Cassius con cui, nel tempo, siamo diventati molto amici. Ci frequentiamo spesso anche se purtroppo non riescono a venire a Milano per il Salone, sono impegnati. Peccato!

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