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‘The Ameriguns’ è un ritratto impressionante dell’America innamorata delle armi

Pistole personalizzate, influencer di settore, appassionati insospettabili: con il reportage candidato al World Press Photo 2021, Gabriele Galimberti racconta i segreti della cultura delle armi. L'abbiamo intervistato

Foto courtesy of Gabriele Galimberti

Secondo lo Small Arms Survey, progetto di ricerca indipendente portato avanti a Ginevra, la metà di tutte le armi da fuoco possedute da privati ​​cittadini nel mondo, per scopi non militari, sono negli Stati Uniti. Non bastasse, quelle armi – il diritto alla proprietà delle quali è sancito dal Secondo Emendamento della Costituzione americana – sono più degli stessi cittadini americani: nel 2017 erano circa 393 milioni per una popolazione di 326 milioni di persone. Ma chi sono gli appassionati di armi? Una risposta la fornisce il libro The Ameriguns di Gabriele Galimberti: una raccolta di ritratti nata come reportage per National Geographic, arricchita da storie e approfondimenti curati con la giornalista Gea Scancarello e valsa al fotografo toscano la candidatura al World Press Photo 2021, il Pulitzer del fotogiornalismo, nella sezione “Portraits”. Il 15 aprile si conosceranno i primi, secondi e terzi classificati di tutte le categorie, e in più saranno assegnati i riconoscimenti per la foto dell’anno e per la storia dell’anno. Nell’attesa abbiamo raggiunto Galimberti, classe 1977, per farci raccontare i suoi “Ameriguns” anche alla luce dell’acceso dibattito sul “gun control” legato alle numerose sparatorie di massa che ogni anno colpiscono gli Usa: secondo il Gun Violence Archive, più di 630 nel solo 2020. «Ma non è solo quello il problema», dice lui.

Partiamo dalla genesi: hai fotografato persone e armi da fuoco nelle loro case e nei loro quartieri, come ti è venuto in mente?
Stavo realizzando per il National Geographic, con cui lavoro da alcuni anni, un reportage sul commercio tra privati di fossili di dinosauri. Proprio così, sembrerà strano, ma esiste tutto un mercato anche in quell’ambito: se con 5 milioni di euro puoi portarti a casa, che so, un teschio di T-rex, ne servono 50 mila per qualcosa di molto più comune. Ad ogni modo mi trovavo negli Stati Uniti e durante un giorno di riposo sono entrato per curiosità in un negozio di armi, mi sono messo a parlare con un cliente, gli ho domandato quante armi avesse e alla risposta “più di 50” gli ho chiesto se potevo andare a casa sua. Da quel momento mi si è innescata in testa l’idea di quello che poi è diventato The Ameriguns.

Di solito quando si sente la parola “reportage” si pensa perlopiù a scatti rubati, che colgono attimi in divenire, mentre questo tuo lavoro si compone di ritratti con soggetti in posa e le armi collocate secondo una disposizione precisa. Che è lo stile che più ti contraddistingue, fulcro anche di altri tuoi lavori, da Home Pharma a Toy Stories.
Sì, naturalmente faccio anche altri tipi di fotografie, ma mi piace questo linguaggio incentrato sull’idea della collezione, delle serie di oggetti appartenenti a un’unica categoria, che abitano la vita delle persone. Non è un caso che lo abbia usato più volte, fotografando i bambini con i loro giochi o le famiglie con i loro farmaci. Si tratta di dare agli oggetti in questione una disposizione di tipo geometrico-scenografico, formula che si lega a quella che è un po’ una mia ossessione, il bisogno di mettere sempre tutto in ordine, e che mi permette uno sguardo neutrale: il mio intento è sempre raccontare chi ho di fronte senza giudicarlo, senza infilare nell’immagine il mio pensiero.

In questo caso hai ordinato le armi come volevi tu o in accordo con i soggetti? E qualcuno si è imbarazzato?
Guarda, con me i soggetti che ho immortalato si sono mostrati orgogliosi di possedere tutte quelle armi, però tieni conto che su 500 persone che avevo trovato e che potevano essere adatte al mio reportage, ne ho fotografate una cinquantina: la maggior parte ha rifiutato di mettersi di fronte all’obiettivo, non tutti sono esibizionisti, io ho dovuto per forza di cose lavorare con coloro che desideravano mostrarsi.

E per l’organizzazione del set ti hanno dato carta bianca?
Devo dire di sì. Ovviamente prima ho parlato con loro, mi ci sono confrontato ascoltando quello che avevano da dirmi. Ma a parte questo sono stati tutti super disponibili a farmi giocare metaforicamente con le loro armi per costruire la composizione che avevo in mente. Conta anche che il reportage fosse per National Geographic, marchio famoso e credibile: avere quel logo alle spalle mi ha facilitato le cose.

In uno scatto si vede un padre con i figli ancora piccoli davanti a una grossa quantità di armi disposte lungo il vialetto del giardino di casa: è difficile comprendere come un genitore possa volere questo.
Lui è un programmatore che lavora per il governo dell’Alabama, vive solo con i figli, figli che sono stati tolti alla madre a causa di problemi di tipo psicologico-psichiatrico della stessa. E sì, possiede molte armi, quando l’ho incontrato aveva già insegnato a sparare al più grande, al più piccolo ancora no. Ma al di là delle singole storie, ciò che mi ha sorpreso è che pur conoscendo piuttosto bene e amando gli Stati Uniti – oltre a visitarli spesso per lavoro e non, ho avuto una fidanzata americana, per cui ci ho anche vissuto per un po’ – non avevo idea che le armi fossero così tanto diffuse: lo sono molto più di quanto mi aspettassi.

Che cosa intendi con “così tanto”?
Per esempio, non immaginavo fossero così diffuse anche tra persone completamente insospettabili, appartenenti alla mia cerchia di amicizie. Invece è così, l’ho scoperto all’inizio del lavoro, quando ho iniziato a parlare del mio progetto, e in seguito ne ho avuto conferma. Il pregiudizio secondo cui negli Usa a possedere armi sono solo bianchi che votano Trump, per intenderci, è stato scardinato nel momento in cui mi sono ritrovato a fotografare individui di tutti i tipi: bianchi, neri, asiatici, ricchi, poveri, vecchi, giovani, sicuramente più Repubblicani, ma anche Democratici. Allo stesso modo, ci si aspetta di trovare un sacco di armi in Stati quali Texas, Kansas e Arizona, ma in realtà basta svolgere un po’ di ricerche per rendersi conto che non ci sono territori esenti: io ho scovato armi ovunque, alle Hawaii come a New York, a Boston come a San Francisco e sulle spiagge di Miami. Poi, certo, ci sono anche tanti americani contrari, ma la maggioranza è armata a qualsiasi latitudine e longitudine del Paese, e senza distinzioni di razza o altro. Negli Usa l’amore per le armi è radicato e viene da molto lontano.

Ti sei imbattuto in una vera e propria cultura delle armi?
Ciò che ho riscontrato è un amore per le armi che, come spiega il libro, si lega a tradizioni famigliari trasmesse di generazione in generazione. La maggior parte dei soggetti che ho fotografato hanno iniziato a sparare da bambini semplicemente perché gliel’ha insegnato lo zio o il nonno: come da noi a un certo punto arriva un adulto che ti insegna ad andare in bici, così negli Usa c’è quasi sempre qualcuno della famiglia che ti insegna a sparare, quasi fosse un rito di passaggio. Tant’è che persino tra chi non possiede armi è difficile scovare individui che non abbiano mai sparato, a quasi tutti almeno una volta è capitato, e questo perché le armi sono un po’ dappertutto. Solo che quando viaggiamo non ci pensiamo, perché non ci siamo abituati. Persino io che frequento gli Stati Uniti da 20 anni non mi ero mai reso conto dell’ampiezza del fenomeno: sapevo fosse diverso che in Italia, certo, ma non mi ero mai fermato a riflettere sul serio sul fatto che se vai in un cinema in Texas molto probabilmente ti sederai accanto a uno con una pistola in tasca e metà della sala sarà armata. Idem per strada o al supermercato: se punti lo sguardo e inizi a farci caso poi lo noti, che moltissimi hanno un’arma sulla cintura, nascosta in tasca o altrove.

Immagino che ognuno dei soggetti ti abbia spiegato le sue ragioni: oltre alle tradizioni famigliari, quali sono le altre?
Il libro si divide in quattro capitoli – Family, Freedom, Passion, Style – proprio a partire dai motivi che spingono le persone a comprare armi. Oltre a chi segue una tradizione assimilata in famiglia, ci sono i soggetti che hanno armi per puro collezionismo; non molti, a dire il vero, e perlopiù concentrati su armi specifiche, per cui c’è chi acquista solo i modelli più all’avanguardia, chi vuole solo armi che hanno sparato durante una determinata guerra… Poi ci sono gli appassionati di caccia o che amano andare a sparare al poligono e magari sognano pure di andare alle Olimpiadi. Perché ricordiamolo, esistono anche sport che prevedono l’uso di armi. Ciò detto, la maggioranza degli americani compra armi per autodifesa e perché secondo loro è un diritto, è una libertà che c’è e che quindi va tutelata: visto che posso, perché non dovrei rinunciarvi?

Due pagine da ‘The Ameriguns’, il libro di Gabriele Galimberti

In effetti, benché le regole per l’acquisto varino da Stato a Stato, la legge negli Usa è dalla loro parte. Il che non significa sia giusta.
Certo, ma il punto è che quando chiedevo a queste persone come mai avessero tutte quelle armi, mi guardavano come se fossi io quello strano. E se spiegavo che in Italia abbiamo leggi differenti, il commento era più o meno sempre “ma come fate?”, “cavoli, che Paese di merda”. Ed è forse la cosa più interessante, perché denota quanto negli Stati Uniti e da noi il concetto di libertà sia completamente diverso. Al punto che durante le interviste i racconti condivisi con me non erano mai giustificativi, per le persone che ho fotografato possedere armi è qualcosa di scontato, che non ha bisogno di giustificazioni: “le abbiamo perché siamo liberi di averle”, punto.

Hai capito se dipende in parte da una sfiducia nei confronti dello Stato? Da carenze attribuite a quest’ultimo in termini di sicurezza dei cittadini?
Questo aspetto non l’ho approfondito molto, ma effettivamente penso sia uno dei fattori. Altrimenti perché tutta questa gente sentirebbe così forte la necessità di doversi difendere da sola?

Avete parlato delle sparatorie di massa?
Sì, ma a parte definirlo un fenomeno drammatico, ho constatato che i più puntano il dito contro l’alto tasso di disturbi psicologici e psichiatrici sottovalutati e non curati negli Usa. Dopodiché ti fanno presente che puoi commettere una strage anche con una macchina. In sostanza, non danno la colpa alle armi.

L’anno scorso le sparatorie di massa sono aumentate del 50 per cento e pare c’entri anche la pandemia. Però c’è un altro dato inquietante: secondo i Centers for Disease Control and Prevention, parte del Dipartimento della Salute statunitense, nel 2017 i morti per armi da fuoco sono stati 39.773, con un trend in crescita negli ultimi vent’anni, e di questi più della metà sono stati suicidi.
È così, e questo significa che anche se sui quotidiani e nei tg la notizia la fa il pazzo che entra in chiesa o a scuola e ammazza tutti, è probabile che quello stesso giorno negli Usa siano morte altre 200 persone durante scontri uno contro uno e di tutt’altra natura, magari liti famigliari, magari con la polizia…

Ho visto che ci sono anche molti incidenti domestici, circa 1300 l’anno. Ma il numero dei suicidi è quello forse più impressionante.
Vero, è il numero più grosso e tra l’altro lì la correlazione con la disponibilità di armi da fuoco è innegabile, del resto se ti spari un colpo di pistola in testa è difficile che sopravvivi.

Ma dove le tengono tutte queste armi, gli americani che hai fotografato?
I più attenti in casseforti dedicate. Ma ci sono anche persone – l’ho visto con i miei occhi – che le armi le tengono veramente ovunque, per cui apri un cassetto e vedi una pistola, apri un armadio e trovi due ombrelli con accanto dei fucili… Senza contare che tantissimi le portano sempre con sé nel cruscotto della macchina e addosso. Poi loro dicono che sono scariche, ma insomma, non ha molto senso tenere un’arma nel comodino per difendersi, se quell’arma è scarica.

Che tipo di armi ti sei ritrovato davanti?
Le più diffuse sono le classiche pistole “tascabili” da portare in giro, le handgun. Ma poi c’è di tutto: mitragliatori, AR-15, AK-47, lanciafiamme, ho fotografato una famiglia con un bazooka. Legalmente detenuto, perché in alcuni Stati americani non c’è limite rispetto a ciò che vuoi comprare.

Che effetto ti ha fatto maneggiarle?
Non le ho solo maneggiate, in alcuni casi ho anche sparato: per me nel processo di comprensione di questa realtà era necessario anche il provare a usarle, quelle armi, per cui quando mi hanno offerto di provare a sparare ho accettato. Parliamo di oggetti indubbiamente spaventosi, quando hai un’arma da fuoco in mano sai che quell’oggetto potrebbe uccidere ed è inquietante. Però, devo ammetterlo, si tratta anche di oggetti stranamente eccitanti: andare al poligono a sparare a dei bersagli è un’attività che ha una componente divertente e di adrenalina, e sappiamo quanto gli esseri umani siano costantemente in cerca di emozioni. Ciò detto, non è che mi ci sia appassionato, al poligono, ho altri interessi. E di sicuro tenere una pistola in tasca mi provocherebbe un’ansia incredibile.

Quello che viene da chiedersi sui tuoi soggetti è il perché di tutte quelle armi: ok, è un diritto possederle, ma perché così tante?
Ma sai, loro sono capaci di risponderti “e tu perché hai così tante sneakers?”. Come mostra il capitolo del libro dedicato allo stile, c’è anche tutto un mondo di influencer – e alcuni hanno milioni di follower – che parla di armi come di oggetti cool, da acquistare perché è figo averli. E questo soprattutto tra i giovani, tra i ventenni. Per molti è una moda, per cui hanno pistole customizzate, personalizzate, dorate, brandizzate con il logo di questo o quel marchio. Su Instagram se inizi a cercare ti si apre un mondo.

Fatto, e confermo. Per caso nel corso del tuo lavoro hai notato se questi patiti di armi hanno idoli particolari?
Non proprio, però molti parlando della passione per le armi mi hanno citato film d’azione, di guerra o di fantascienza che hanno visto da bambini. In effetti, se ci pensi, nel cinema americano è molto frequente, qualunque sia il genere, imbattersi in scene con qualcuno che tira fuori un’arma da fuoco, e non necessariamente in un contesto violento. Gli americani ci crescono culturalmente, con le armi.

Ora Joe Biden ha annunciato una stretta: pensi sia possibile un reale cambiamento?
No, l’aveva già annunciata Obama, la stretta, ma il problema è che non è una questione politica: come dicevo, ci sono anche tanti Democratici possessori di armi e non basta un presidente a modificare la situazione. Ovviamente mi auguro che le cose migliorino, ma specie dopo aver realizzato questo reportage sono pronto a scommettere che per un cambiamento reale ci vorrà un processo lungo almeno 50 anni e per tappe. Questo perché la popolazione americana è talmente armata che nessun presidente può rischiare di farla incazzare in un colpo solo: se questi escono per strada armati, scoppia la guerra vera. E non è retorica, hanno davvero tutto quel che gli serve per combattere.

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