Dall’enorme atrio in marmo rosa della Trump Tower di Manhattan, lo scorso giugno Donald John Trump ha dichiarato di volersi candidare alle prossime elezioni come presidente degli Stati Uniti d’America. Da allora è stato preso in giro e insultato, adorato e corteggiato e, fino a poco fa, considerato poco più di un rappresentante della deriva forcaiola del Partito Repubblicano (le sparate sui migranti tutti “stupratori” e “assassini” ne sono un esempio). Eppure, da subito ha dominato la corsa alla Casa Bianca con un considerevole vantaggio, e guadagna forza ogni minuto che passa.
Ho viaggiato insieme a lui da New York al New Hampshire sul suo lussuoso aereo privato modello Boeing 757. Una volta atterrati, siamo entrati nel liceo di Hampton circondati da giornalisti, che lo hanno assalito con lo stesso fervore di una banda di ragazzini agli allenamenti della loro squadra preferita in cerca di autografi. Trump ha snobbato le domande sull’Iraq, la Russia e gli immigrati e ha subito cercato di attaccare bottone con le centinaia di persone ammassate nel cortile, che ascoltavano il suo discorso dagli altoparlanti, e con le altre migliaia che erano riuscite a trovare un posto a sedere in sala: «Ho creato una rete di imprese che vale 10 miliardi di dollari. Sono un uomo di affari di primo livello. Riprendiamoci il lavoro, strappiamolo via alla Cina, al Giappone e al Messico. Prendete la Cina: le dobbiamo 1,4 trilioni di dollari, perché siamo governati da persone che non hanno idea di quello che stanno facendo. Onestamente penso che siamo nelle mani di gente stupida». Questo è il succo della sua campagna elettorale: io sono forte, i politici sono deboli. Loro ci hanno ridotto sul lastrico, io vi rimetterò in piedi e farò in modo che l’America sia forte e temuta in tutto il mondo. Tutto quello che dirà durante il comizio non è che una variazione di questo concetto. Sta facendo la sua prima campagna elettorale a 69 anni, un’età in cui di solito gli uomini cominciano ad accusare problemi alla prostata, e dà l’impressione di essere nato per fare questo e di non essersi mai divertito tanto.
Figlio di papà
Una settimana prima del viaggio in New Hampshire ero stato convocato nel suo ufficio nella Trump Tower. Innumerevoli intervistatori prima di me hanno scoperto con grande disperazione che non è possibile fare un’intervista a Donald Trump. Non puoi fare altro che introdurre un argomento e poi fare un passo indietro e osservarlo parlare, sperando che nel suo monologo accenni almeno lontanamente a quello che hai chiesto. Oggi mi parla di suo padre, lungamente e con affetto. Fred Trump, secondo in linea di discendenza di una dinastia di magnati che si sono fatti da soli (il padre Friedrich ha fatto fortuna nel Klondike durante la corsa all’oro vendendo case, cibo, alcol e probabilmente donne ai minatori), possedeva il dono di famiglia: riusciva a vedere il futuro e ad arrivarci prima degli altri. Fred è stato uno dei primi imprenditori che negli anni della Guerra ha capito l’importanza del Federal Housing Program, il piano immobiliare lanciato dal governo per costruire alloggi popolari per i lavoratori e la classe media. Donald Trump non ammetterà mai volontariamente che gran parte della fortuna della sua famiglia derivi dai soldi dei contribuenti, o che suo padre fosse un abile manipolatore della macchina politica del Partito Democratico di Brooklyn, ma è certo che Fred ha fatto i soldi costruendo palazzi per i veterani della Seconda Guerra Mondiale. Fred è sempre stato ricco, ma ha fatto lavorare duramente i suoi figli. I tre maschi passavano l’estate a strappare erbacce e mischiare cemento, mentre le due femmine sgobbavano nell’ufficio immobiliare di famiglia di Coney Island.
La carriera solitaria di Donald Trump inizia negli anni ’70. Quando la società ferroviaria Penn Central collassa (la più grande bancarotta di una società privata della storia americana al tempo), Trump si offre di rilevare e rilanciare una delle proprietà minori della società, il Commodore Hotel, un gigantesco edificio in stile Beaux-Arts in rovina. La Bowery e un’altra società, la Equitable Life, investono milioni di dollari nella ricostruzione. Trump convince l’amministrazione comunale a concedergli un abbattimento della pressione fiscale per 40 anni mai visto prima, spoglia l’edificio del suo rivestimento in pietra, lo sostituisce con vetro luccicante e nel 1980 lo fa rinascere con il nome di Grand Hyatt. Il nuovo palazzo viene inaugurato proprio mentre il mercato azionario americano riprende a salire, creando una nuova generazione di milionari, e per loro Donald Trump costruisce le case dei sogni. Il suo palazzo simbolo, la Trump Tower, dà nuovo vigore alla Quinta Strada. Dopo questo successo, il padre Fred perde il titolo di costruttore più importante dell’epoca.
L’uomo del popolo
Donald Trump si alza dalla scrivania e mi guida verso le vetrate che si affacciano su Central Park e sui quartieri nord di New York. «Sono arrivato a un punto della mia vita in cui ho un’incredibile disponibilità di denaro e pochissimi debiti, posso fare tutto quello che voglio. Allora mi sono detto: “Voglio provare a candidarmi alla presidenza”. C’è bisogno di questo tipo di mentalità per fare grandi cose». Trump è cresciuto in mezzo ai lavoratori dei cantieri di suo padre, ha imparato a parlare come loro e ha costruito il suo messaggio politico adattandolo alle loro orecchie e individuando i loro nemici: il liberismo, i pezzi grossi del partito, gli immigrati. A Hampton ho visto la folla ribollire, quando ha puntato il dito contro le corporation: «Quando il capo della Ford mi dirà: “Signor Presidente, noi vogliamo aprire una fabbrica in Messico”, io gli risponderò: “Benissimo, vi metterò una tassa del 35% su ogni macchina, ogni camion e ogni pezzo di ricambio che entra negli Stati Uniti!”. “Ma non può farlo, Presidente!”, mi dirà. Ma credetemi, io posso farlo!». Nessuno gli fa notare che solo il Congresso può varare nuove tasse, sono tutti troppo esaltati. Trump vuole rappresentare i magnati buoni, saggi e patrioti che non vedono l’ora di salvare il Paese facendo grandi accordi commerciali e migliorando la previdenza sociale: «Le compagnie di assicurazione non saranno contente, ma loro non mi danno soldi. Li danno a Jeb, li danno a Hillary, io non li voglio!».
Trump ha mostrato a tutti che quello Repubblicano è un partito di e per i ricchi
Il suo obiettivo è svelare i meccanismi con cui i politici hanno cooptato il sistema per arricchirsi alle spalle del Partito Repubblicano. Ma le devianze dal Partito non finiscono qui. Trump chiede un aumento delle tasse sui profitti dei fondi di investimento, tasse sui super ricchi come lui per pagare i tagli alla classe media, aumenti di spesa sulla sanità pubblica in particolare per i veterani e le donne, chiede grandi investimenti di capitale per le opere pubbliche e un aumento dei fondi al Dipartimento della Difesa da tempi di guerra. Come farà a mantenere queste promesse se continua a inimicarsi il Congresso a maggioranza repubblicana e, soprattutto, con quali soldi? La risposta a tutte le questioni fiscali è la bufala sul recupero dei capitali: «Rinegozierò tutti gli accordi per farci diventare di nuovo ricchi, e cancellerò quelli in base ai quali le nostre case automobilistiche vanno a produrre in un altro Paese. Farò costruire le automobili qui!». Al momento la risposta a come farlo non c’è, ma è riuscito comunque a rubare ai dirigenti del partito la base popolare. Anche se non dovesse riuscire ad arrivare alla presidenza, Trump ha mostrato a tutti che quello Repubblicano è un partito di e per i ricchi.
Un sacco di soldi
La prima volta che ci siamo incontrati, Trump mi ha fatto vedere che finora la campagna elettorale gli è costata pochi spiccioli per il carburante del suo jet privato e gli stipendi dello staff, non un centesimo per gli spot. «Sono in televisione così spesso che sarebbe stupido fare anche degli annunci. Inoltre gli show televisivi sono molto più efficaci». Ma non potrà fare affidamento solo sul suo patrimonio ancora per molto. Bloomberg calcola la sua liquidità in 70 milioni di dollari, il sito Politico invece in circa 250 milioni. Sembrano un sacco di soldi, finché non si considerano i costi quotidiani delle due precedenti tornate elettorali. Barack Obama ha speso circa 1,6 milioni al giorno nel corso della sua prima campagna nel 2007. Ma Obama raccoglieva soldi più in fretta di quanto li spendesse, mentre Trump secondo le ultime voci ha raccolto 100mila dollari, ovvero il 5% di quello che ha speso finora. È davvero pronto a spendere 30 milioni al mese, e ancora di più quando ci saranno le primarie? «Assolutamente», mi risponde, «sono pronto a coprire le spese, faccio tra i 400 e i 600 milioni di dollari all’anno». L’anno scorso, secondo le stime che lui stesso ha fatto, ha avuto entrate per 362 milioni. Ma quest’anno potrebbero essere meno, visto che è stato abbandonato da sette dei suoi partner commericali quando ha cominciato ad attaccare gli immigrati “illegali”. I media dicono che ha perso circa 50 milioni, la maggior parte dalla NBC, la sua gallina dalle uova d’oro. Dai primi anni ’90 in poi, quando il mercato immobiliare è crollato e la sua azienda ha dichiarato bancarotta per debiti verso le banche di un miliardo di dollari, si è mostrato sempre più riluttante a investire denaro liquido. Possiede molto poco di quello che viene costruito con il suo nome, e guadagna molto di più dando in licenza il suo marchio per hotel e resort di lusso. Raccoglie inoltre diritti su prodotti di ogni genere, dai vestiti agli alcolici, anche se ha perso The Apprentice e con esso il salario multimilionario che gli ha fruttato 213 milioni in 14 anni. Ma la politica è un investimento a perdere, un gioco in cui verranno spesi circa 5 miliardi di dollari, la maggior parte da candidati con pochissime speranze. Donald Trump farà all-in vendendo alcune delle sue proprietà man mano che andrà avanti, oppure a un certo punto si rivolgerà alla gente che ora denuncia (i tizi dei fondi di investimento e i lobbisti che finanziano l’enorme raccolta fondi dei suoi avversari)? Questo è il problema che si trova di fronte, mentre si lancia in questa corsa lunga e difficile. Si è fatto avanti come l’eccezione a ogni regola, l’uomo troppo ricco per le bustarelle. Ogni minima deviazione, ogni accenno di passo falso gli costerà più caro cheaunBushoaunTed Cruz. Perché? Perché il suo messaggio principale è che lui non è come loro. Il giorno in cui ai suoi sostenitori verrà il dubbio che non sia così, sarà il giorno in cui comincerà a vacillare.
Niente più Oreo
Dopo l’incontro di Hampton, torniamo al suo aereo privato, e Trump accende il gigantesco televisore sintonizzato su FoxNews e guarda i report sul discorso che ha appena fatto. Sullo schermo si parla solo di lui, ma manca la mediazione di Megyn Kelly, la punta di diamante dei commentatori politici del canale e la star di casa. Una settimana dopo il dibattito in cui ha cercato di infilzarlo per i suoi commenti incivili verso le donne, Megyn è sparita dalla scena, svanendo nella sua casa al mare fino a fine agosto. Dopo lo scontro, Trump ha boicottato per quattro giorni la Fox comparendo negli show di tutti i canali concorrenti, e attaccando duramente il canale e Kelly stessa con commenti e battute. Alla fine, il capo delle news Roger Ailes gli ha chiesto di tornare. Lui lo ha fatto, è andato allo show di Sean Hannity e ha fatto volare gli ascolti. «Vedi», mi dice, «io non voglio iniziare queste battaglie, ma nel caso stai certo che le vincerò sempre». Donald Trump non smetterà mai di attaccare furiosamente chiunque osi mettersi contro di lui.
Ma ce la vedete quella come la faccia del nostro prossimo Presidente?
Dopo cena, Trump si slaccia la cravatta e si appoggia alla sedia per commentare quello che si vede in televisione. I report sul suo discorso sono stati interrotti da uno spot elettorale di Scott Walker, governatore del Wisconsin. Walker sta per rispondere al conduttore che lo elogia per il suo stile «lento e costante», Trump si intromette e dice: «Esatto, è lento! Ecco quello che è: lentoooo». I membri del suo staff esultano. Il capo si sta solo scaldando. Il conduttore si rivolge a Carly Fiorina chiedendole un commento sulla discesa in campo di Trump, lui sgrana gli occhi davanti al televisore e come un ragazzino del liceo dice disgustato: «Guarda che faccia! Ma c’è qualcuno che voterebbe mai una così? Ma ce la vedete quella come la faccia del nostro prossimo Presidente?». Tutti scoppiano a ridere. «Ok, è una donna e io non posso dire cose cattive sulle donne, ma davvero ragazzi, siamo seri?». Trump si muove a istinto, e i suoi istinti sono gli stessi che gli hanno fatto accumulare vantaggio e lo hanno tenuto al riparo dalle insidie elettorali, ma anche quelli che gli hanno dato problemi con ex mogli, soci in affari e donne famose. Una cosa si può dire di lui: mantiene le promesse elettorali, almeno per quel che riguarda i dolci. Dopo la cena in aereo, Trump si alza pe sgranchirsi le gambe e cerca qualcosa di dolce da mangiare. Rovista in un barattolo in cui di solito ci sono i suoi amati biscotti Oreo, che ha giurato di non mangiare più dopo che l’azienda produttrice ha annunciato di volersi trasferire in Messico. Trump prende in mano il pacco, lo osserva per un momento e poi lo rimette a posto, intatto. Torna al suo posto con un paio di Vienna Fingers (prodotti dalla Keebler e non dai traditori di Nabisco), mi vede che lo sto osservando e grugnisce: «Io faccio sempre quello che dico. Donald Trump non mangerà mai più gli Oreo. Puoi citarmi testualmente».
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