Il marzo del 2021 sarà ricordato come un mese particolarmente intenso per Valerio Lundini e per le persone che fa ridere. Nei giorni ineluttabili che hanno preceduto tanto l’uscita del suo primo libro (Era meglio il libro, ed. Rizzoli Lizard) quanto il suo debutto sul palco di Sanremo, abbiamo avuto l’opportunità di corrispondere epistolarmente con quello che, a detta di Wikipedia, (Roma, 11 marzo 1986) è un comico, conduttore televisivo e autore televisivo italiano.
Caro Valerio, qual è la genesi di Era meglio il libro? È nato prima il Lundini scrittore umoristico o il Lundini comico letterato?
La proposta di fare un libro è arrivata da Pasquale La Forgia di Rizzoli Lizard. Lui aveva visto diversi miei spettacoli in quel di Milano. Racconti già ne scrivevo: lo avevo fatto per la rivista Linus e per altre minori, lo facevo su un blog di secoli fa che ho violentemente cancellato dal web e lo feci per un concorso letterario nel 2008 che addirittura vinsi. In palio c’era una pubblicazione di un libro ma non lo feci perché pensavo di essere ancora troppo giovane e avrei scritto cose che, rileggendole oggi, mi avrebbero dato fastidio. Non rimpiango quella scelta.
Nel libro sembri aver realizzato l’esatto opposto, formale e sostanziale, del tuo fortunato programma Una pezza di Lundini. Quello che su Rai Play era episodico e televisivo, volutamente effimero, platealmente suppletivo di qualcos’altro; per Rizzoli Lizard, pur scomponendosi in tanti pastiche quanti sono i capitoli del volume, diventa autosufficiente e sistematico. Come se questo libro, a partire dal suo titolo, fosse la manifestazione autentica e liberatoria di una visione della realtà troppo fluida perfino per lo streaming. Quali sono i confini che sei stato più felice di superare, nello scrivere e basta?
Questa domanda è scritta davvero bene e infatti l’ho dovuta leggere due volte perché la prima l’ho sprecata pensando “che bella parola pastiche” oppure “perché nel mio libro non ho mai detto platealmente suppletivo?”. Se ho capito bene dici che il mio operato in tv e sul libro si differenziano. Bene, di questo sono molto felice. Sicuramente scrivere è più semplice perché se devi tirare in ballo un’astronave che esplode ti basta scrivere “esplose un’astronave” senza cacciare un soldo e senza scomodare effetti speciali. Sicuramente manca tutto l’elemento delle interiezioni, dei tentennamenti, dei colpi di tosse. Tutti elementi che a descriverli ogni volta ti rompi le scatole da scrittore e da lettore in egual modo. Mi secca molto fare quei botta-risposta in cui ogni tanto devi mettere “disse lui”, “rispose lei”, “chiosò egli”, “gli sbottò lei”.
Quando mi trovo in quelle situazioni preferisco davvero comprare un’astronave e fare un film.
Diceva il sociomusicologo Simon Frith che il talento sembra essere sì posseduto individualmente, ma anche esistere davvero solo quando viene legittimato dagli altri. Se avessi pubblicato un libro mentre ti formavi, mentre cominciavi a calcare le scene radiofoniche e televisive, sarebbe stato simile a questo? Sennò, che diverso tipo di libro avresti desiderato pubblicare, allora?
Sia all’epoca che ora avrei optato per la raccolta di racconti. Mi fanno stare più sereno. Oltretutto sono le uniche tipologie di libro che ancora riesco a leggere per intero (quando mi piacciono). Ho iniziato a lavorare come autore radio-televisivo abbastanza tardi ma l’hobby di scrivere, disegnare e suonare ce l’ho sin dalla scuola. Se avessi scritto un libro mentre ero a scuola sarebbe stato sempre una raccolta di racconti ma molto più brutta e scritta male. Anzi, avrei fatto quella cosa di usare aggettivi e parole strane per sentirmi uno scrittore e me ne sarei vergognato tantissimo oggi.
Che tu stia raccontando i pregi dell’amore a distanza con una certa Greta (che è a New York ma può reincarnarsi nel centro di Roma in un’anziana passante) o i difetti di quello a vicinanza con Franco Califano, nel tuo libro l’umorismo dell’assurdo non è mai né gusto per la battuta né brillante alienazione, ma finalmente un chiaro manifesto della poetica lundinista: il non sequitur come unica exit strategy dai giorninostri che premono alla nostra porta. Questo manifesto è un punto fermo, retrospettivo, su un percorso già compiuto o l’inizio, programmatico, di uno nuovo periodo della tua carriera?
Nonostante nella copertina del libro abbiano messo il mio nome e la mia facciona gigante, scrivere racconti mi fa sentire più distaccato dall’opera. Alcuni di quei racconti faticherei a leggerli con la mia voce. Questa cosa mi permettere di adottare stili che mi piacciono ma che non siano per forza parte di un unico genere (la poetica “lundinista” di cui parli nella
domanda). Per ora ragiono escludendo l’esistenza di un mio stile, ho paura che se scopro qual è poi diventa meccanico e prevedibile, magari già lo è per alcuni.
Quanto è vero, come sembri annunciare sul finale, che potrebbero seguire altri esperimenti letterari? Oppure era solo lundinismo?
Penso sia vero, sto scrivendo altre cose. Però magari aspetto e vedo come va questo. Magari mi dicono “lascia perdere”.
Una domanda frivola da feticisti ottici. Ci è piaciuta molto l’illustrazione in copertina, col tuo bulbo oculare destro che mena per il naso, valicandole, le ristrettezze di visione simboleggiate dalla montatura degli occhiali. Montatura che è già molto riconoscibile (ti auguriamo che diventi iconica almeno quanto la Moscot di Woody Allen), anche per via della sua importanza nella tua gestualità e nella rappresentazione della tua personalità. Che occhiali porti? Che c’è dietro questa scelta stilistica ben precisa?
La copertina non è mia. La montatura spero che in realtà non diventi così iconica perché conto di cambiare occhiali a breve. Questi che ho sono tutti storti e li ho comprati in un momento in cui ero arrabbiato per aver perso i miei occhiali di prima su un autobus a Londra. Ero arrabbiato e non mi andava di spendere troppi soldi così, visto che la montatura costava parecchio, ho risparmiato sulla visita oculistica e mi sono fatto controllare gli occhi dalla signora che vendeva gli occhiali e che aveva l’affare per dirti quanto sei cieco. Secondo me mi sto rovinando la vista perché ho voluto risparmiare 100 euro qualche anno fa. Mi chiedevi che occhiali siano, suppongo siano dei RayBan. La signora mi disse che se volevo le lenti ufficiali RayBan (quelle con la scrittina bianca in alto a destra) ci sarebbe stato un sovrapprezzo di 200 euro. Ho chiesto “Cambia qualcosa se non pago questi 200 euro?” e lei “no, ma non c’è
la scrittina RayBan”. Indovinate un po’? Niente scrittina e più soldi in tasca.
Come è accaduto ad altri scrittori di autobiografie non autorizzate, l’atto stesso di provare a descrivere il mondo esterno con una buona dose di onestà intellettuale può finire per rivelarsi più personale e intimo di un memoriale fatto e finito. Quanto e quale vero Lundini è malcelato dietro i tuoi racconti surreali (a parte quello sul Capodanno a Casa di gente, che è chiaramente tutto accaduto, minuto per minuto) e quanto, invece, i tuoi personaggi letterari sono ruoli che decidi di interpretare per ragioni diverse dallo sbobinamento creativo del tuo vissuto?
Bravo che hai capito che quello del Capodanno è tutto vissuto minuto per minuto. Vale lo stesso anche per il racconto del ciclista (di cui non parlerò, ma lo nomino solo perché così qualcuno si incuriosisce e compra il libro chiedendosi “chissà che era ‘sta cosa del ciclista”).
Sì, ci sono cose personali dentro il libro, altre invece sono inventate di sana pianta. Ho capito che quelle personali sono molto più belle, forse è perché non ho tanta creatività in fin dei conti. Capita a volte. Col tempo ho sempre sopravvalutato la fantasia. Le cose più belle si prendono dalla realtà e magari vanno modificate per renderle meno squallide, ma neanche
troppo.
Se con un racconto come Botrugno solletichi il nostro desiderio di eterno ritorno alle vacanze salentine, e con Il giorno più bello della nostra vita metti il dito nella piaga di tanti nostri amori impossibili, è con Le Anitre che ci hai rubato definitivamente il cuore. A pagina 71 compare un pezzo di satira in cui ancora una volta incroci genialmente parola scritta e televisiva, affidando il rilancio in chiave culturale della trasmissione Paperissima alla rievocazione storica di incidenti domestici mediante le voci narranti di Giuseppe Battiston e Valerio Mastandrea. Speriamo che tu ti renda conto che il rischio di rendere pubblico un libretto così ben scritto (pensiamo anche alla vetta assoluta dei nostri dolori addominali raggiunta da Nonno Putrivate. Atto unico per miseria e decubito, p. 127) e ben impaginato (la chat di Sexting, p. 149) è che il pubblico finisca per risensibilizzarsi alla lettura e alla riflessione e diminuiscano le occasioni di lavoro per i comici e gli autori televisivi. La scrittura in sé, per un ingegno anche performativo come il tuo, può risultare rubamansioni come un grosso calcolatore elettronico o un piccolo pizzaiolo bangladese?
Ma no, il trucco in generale è fare cose diverse a seconda dei media adottati. Non farei su un libro ciò che farei in tv, così come non farei su Instagram una cosa che ho scritto per il teatro. La cosa bella della scrittura è che se scrivi una cretinata non ti fischia nessuno, il che non deve essere un alibi per scrivere cretinate, ma un incentivo a sperimentare senza paura di essere giudicati (anche perché alla fine molti comprano i libri e manco li leggono, tipo me).
Un tempo conoscevamo solo il lundinismo visuale. Una sua possibile vetta è contenuta nello sketch intitolato La fidanzata di Valerio. L’episodio inscena l’atto di fidanzarsi in casa con Martufello, presentandolo come Eleonora al proprio genitore maschio e pragmatico, che riconosce il comico ciociaro e ne trae le sue realistiche conseguenze, e alla propria genitrice femmina, tenerissima e idealista, che continua a non ravvedere in Martufello, anche davanti all’evidenza dei fatti, altri che Eleonora. Oggi, d’altro canto, stiamo apprezzando le potenzialità del lundinismo letterario. È notevolissima l’agilità con cui ti muovi tra registri e generi, applicando il linguaggio della romanità contemporanea a un’ambientazione da spy story alla Tom Clancy o, viceversa, scrivendo quelle che probabilmente sono le più belle pagine di sempre sulla possibile redenzione di un parcheggiatore abusivo (Angelo, p. 121). Con tutta sincerità noi non sapremmo scegliere tra le due forme di espressione. Ti domandiamo, dunque: quale prevarrebbe se ne potessi continuare a esercitarne una soltanto?
Quella visiva. So che è brutto dirlo in un’intervista che (COMPRATE IL MIO LIBRO) è finalizzata alla promozione del (COMPRATE SUBITO IL) mio libro, ma alla fine tra le due vincerebbe quella visiva. È più faticoso sicuramente perché, oltre a scrivere, bisogna fare altre tante cose (vestirsi, uscire, girare, recitare, montare etc). Però fondamentalmente mi piace recitare. Toh. Poi mi fanno ridere cose fisiche, le facce, le voci, i rumori. Ad ogni modo, visto che posso, me le tengo tutte e due. Anche scrivere è bello.
Un altro pregio di questo libro è che, a differenza di queste domande, non può essere letto distraendosi o saltando anche solo una riga: le sue meccaniche si incepperebbero irrimediabilmente. Sei un toccasana per uno dei grandi mali del nostro mondo: il deficit di attenzione. Chissà per quanti di noi una sessione di Era meglio il libro sarà una forma di terapia della concentrazione, portandoci a fruire in modo nuove anche di altre cose leggibili o illeggibili (per esempio la linea editoriale dei quotidiani spazzatura, che prendi in esame nel racconto più politico della raccolta: La vittima non se l’è cercata); finché, magari, non ci accorgiamo che molte notizie, che supponiamo vere, contengono tracce di lundinismo a loro volta. In cosa, secondo te, questa lundiniterapia può avvantaggiare il pubblico e in cosa invece può essere una controindicazione?
Voi usate il mio cognome all’interno di troppi sostantivi. Questa cosa farà sì che prima o poi qualcuno mi prende a pugni a causa vostra e mi dirà “Tiè, beccati questo, te e la lundiniterapia, è arrivato Asimov è arrivato”. Comunque sì, il deficit dell’attenzione è una cosa che io ho tantissimo. Non c’entra internet e il famoso “Logorio della vita moderna”, ma proprio un
problema che non mi permette di vedere un film per intero, leggere un articolo di giornale senza alzarmi e fare delle giravolte su me stesso. Molte delle cose che scrivo invece sembrano fatte proprio per persone che questo problema non ce l’hanno assolutamente, come dici tu. Non so se ciò educherà il pubblico, sicuramente me ne terrà lontanissimo un bel po’ (quello fatto come me). Per me è terribile quando vedo qualcuno che guarda, in mia presenza, qualcosa che mi piace o (peggio ancora) che ho scritto io. Non appena si distrae io penso “ecco, ora non capirà più nulla e penserà che sono scemo”.
A proposito di notizie, ci ha colpito quella secondo la quale, per debuttare in un duetto a Sanremo, tu abbia detto sì a Fulminacci (con Roy Paci) quando potevi limitarti tranquillamente a dire no a Orietta Berti (anche se non sarebbe stato male). Fulminacci ha avuto delle parole bellissime (e meritatissime) per te. Ci potresti rivelare qualcosa sulla genesi del rapporto con Filippo e sui possibili, ulteriori esiti artistici di questa collaborazione?
Uno spesso tende a parlare bene dei suoi amici. Io invece ho praticato il processo inverso. Sono diventato amico con Fulminacci perché ritenevo che fosse veramente bravissimo. Ci sono tantissime idee e pensieri intelligenti nelle sue canzoni e pian piano se ne stanno accorgendo in tanti. Il suo disco d’esordio è una delle cose più interessanti che ho ascoltato negli ultimi anni e lo ha scritto ad un’età che se ci penso un po’ mi fa rabbia. Ma seriamente eh, non quella rabbia scherzosa da pacche sulle spalle. Proprio che dico “Ma perché a quell’età io non facevo un cazzo?”
Del resto, Valerio Lundini è anche un musicista, grazie a un’esperienza più che decennale come quella che ti vede impegnato con la band I VazzaNikki. L’exploit sanremese potrebbe infondere nuova linfa vitale al progetto, apprezzato sulle scene underground romane e, da quest’anno, già sbarcato in televisione con Una pezza di Lundini?
I VazzaNikki sono una delle cose che più mi manca del periodo pre-covid. Ci siamo sempre divertiti a suonare in ogni dove, anche in condizioni pessime, davanti a pubblici random, pochi fans e tanti avventori casuali, dalle pizzerie ai club, dai matrimoni agli eventi privati, dalle piazze ai piccoli pub. A volte ci stancavamo ma il trucco era quello di prenderla sempre come una cosa per divertirci, pagarci la benzina e le multe ma non per diventare la band del momento. Abbiamo fatto un solo disco nel 2013, il nostro cantante Andrea Angelucci non era all’interno del programma (mentre io facevo la pezza lui faceva Art Rider, un programma di Rai5 in cui però veste i panni dell’archeologo avventuriero). Ma non appena ci riuniremo dovremo tirar fuori qualcosa di nuovo tutti assieme.