Prima dell’intervista mi manda questo messaggio: “Pensa la scrittrice, io, considerata, così dice il mio agente, la nuova Ortese, potrebbe essere la più povera (scrittrice) d’Italia. Puoi scegliere tu la mostrina”. Lei è Veronica Tomassini, caso letterario nel 2010 con Sangue di cane e che in seguito ha mantenuto le attese, anche se è dovuta passare attraverso moltissime difficoltà (e persino l’autopubblicazione) prima di approdare a La Nave di Teseo. Ma c’era abituata, perché se nei suoi libri troviamo “ambientazioni suburbane, storie intestine e periferiche” e “predilige gli antieroi, gli immigrati, i vuoti a perdere, i profeti delle panchine” non si può dire che si tratti di fiction. Semmai di autofiction, cioè dove tutto è stato vissuto dall’autrice sulla propria pelle, per quanto potrebbe apparire incredibile. Ancora adolescente salvò il fidanzatino dall’eroina dopo 7 anni infernali, mentre in seguito sposò un uomo originario dell’est, con problemi di alcolismo, conosciuto mentre lui faceva l’elemosina a un semaforo e che la proiettò «in un romanzo di Gogol’ o in un film di Kusturica». Così, ci ha confessato, da quelle storie ne è uscita «che pesavo 40 chili e con vari disturbi».
Ora si sente «una donna sola geograficamente e socialmente» che considera «una sventura» l’abitare in Sicilia (ha origini umbre) perché «la violenza comincia dal paesaggio e tocca un po’ tutto». Ha perso il reddito di cittadinanza e definisce la scelta del governo una «selezione della razza, che divide tra ricchi e poveri». Non collabora più per il quotidiano locale, perché «dipende dalle simpatie e antipatie del caposervizio. Quello nuovo mi ha tolto quei quattro soldi che prendevo prospettandomi di tornare a scrivere a 5 euro a pezzo» e qualifica il giornalismo sull’isola «una realtà sofferente». Ma soprattutto le manca l’amore che è «tutto quello di cui avrei bisogno ed è tutto quello che non ho». In compenso, però, ha un figlio che è stato «preservato grazie ai nonni» e al quale, per non far mancare nulla, ha rinunciato «addirittura al mio ruolo genitoriale», e che oggi è l’unica persona che «mi fa ridere fino alle lacrime». E ha la scrittura. Anzi, per l’esattezza ha «lo stile» che per lei è «più importante della trama» e le permette di essere una delle scrittrici più importanti della nostra epoca. Ma perché continuare a fare letteratura, se poi si provano tante sofferenze? Ce lo ha spiegato: «La necessità proviene da una ferita con la quale devi avere a che fare tutta la vita. Non si rimarginerà mai. Ognuno è predestinato in base alla propria ferita. Non c’è alternativa».
Hai origini umbre, ma vivi in Sicilia da molti anni. Come mai?
La considero una disdetta. Mio padre è umbro e mia madre siciliana e abbiamo vissuto in Campania per alcuni anni dopo la mia nascita. Lui lavorava come chimico in una azienda. Un giorno gli proposero un trasferimento in Sicilia e accettò, anche per riavvicinarsi alla terra di mia madre. E poi amava il mare e la vela. Per me a soli 9 anni fu una vera sventura.
Come mai?
Porto ancora addosso quell’estraneità e lo sgomento di allora. È come se fossi arrivata ieri. Non mi sento parte di questa terra perché, a parte le bellezze da cartolina, il paesaggio è violento e i siciliani, per come li ho percepiti io, non si caratterizzano per la semplicioneria allegra o quei cliché che li vorrebbe sempre sorridenti. Sono profondamente tristi, chiusi e risentiti. Quando in loro prevale la parte araba dimostrano un forte senso di indolenza, la mancanza del colpo di reni. E la violenza che comincia dal paesaggio tocca un po’ tutto.
Non a caso sul tuo blog, nella sezione dei contatti, hai scritto: “Sappiate che vivo in Sicilia, ma voglio sempre andarmene”.
È un sentimento costante e non sono mai riuscita a imparare il dialetto. Qualche piccola vocale aperta può tradirmi, ma sono ancora un ibrido. Ricordo quando sono arrivata, portavo un caschetto bruno, stranissimo per le bambine siciliane. Così le compagnette mi chiamavano «la regina delle stronze». Abitavo in un quartiere popolare a ridosso di una zona complicata.
Per complicata cosa intendi?
L’80% delle persone era al 41bis o al Sert per problemi di droga. Mi chiamavano così perché avevo la cadenza campana, sapevo fare la verticale visto che avevo fatto ginnastica artistica, ero molto vivace, un elemento estraneo. Una estraneità rimasta come stigma ancora oggi.
Ti senti straniera in patria?
Sì, sono molto sola geograficamente e socialmente. Vivo una estrema marginalità, in particolare negli ultimi 15 anni o anche più.
Non hai mai provato ad andartene?
Ho sempre voluto farlo, ma ho avuto una vita bruciata, che però scrivendo ho un po’ recuperato. Forse anche a causa della mia difficoltà personale dai 18 anni in poi, prima latente. Quella difficoltà oggi ha un nome, disturbo borderline, che non è stato affrontato come se fosse da ignorare. Solo che nel frattempo quella ragazzina si è rovinata la vita.
“Predilige gli antieroi, gli immigrati, i vuoti a perdere, i profeti delle panchine” è stato scritto rispetto alle tue opere, che però non sono personaggi di finzione.
Dai 18 anni e per in 7 successivi ho vissuto nel degrado fra tossici, gente più morta che viva, con il mio primo fidanzatino che ha provato a suicidarsi con l’eroina e io sono stato la sua “stampella” finché non l’ho salvato. Ne sono uscita che pesavo 40 chili e con vari disturbi. La mia adolescenza ne è stata divorata e non ho frequentando l’università. Quelle mie difficoltà sono state ignorate e mi hanno resa molto sola. Da poco le ammetto, prima le tenevo nascoste come una vergogna.
Anche in seguito a quella storia hai avuto una relazione complicata, come scrivi nel tuo libro d’esordio Sangue di cane, con Slawek, che hai incontrato mentre chiedeva l’elemosina a un semaforo e aveva problemi con l’alcol.
Mi sono sposata giovane, il mio ex marito era un uomo dell’est che viveva per strada e beveva. Sono stati altri anni allucinanti, rivelatori e meravigliosi. Ma puoi immaginare il mio stato e la mia reputazione in città. Non ero mai certa se fossi arrivata al giorno dopo.
Se chiudi gli occhi, qual è la prima immagine di Veronica da piccola che vedi?
Ci provo. La prima, d’istinto, è di quella bambina che guarda oltre la finestra la vita degli altri. L’ho sempre fatto perché non potevo partecipare, non uscivo di casa. E le altre vite avevano qualcosa di conturbante. Ero una bambina solitaria, che parlava da sola e non aveva giocattoli. Sembra un’immagine da Libro cuore. Non avevo un alter ego, ma un nemico che mi vessava. Combattevo con lui nella mia testa perché mi faceva compiere cose brutte.
Quando è arrivata la scrittura?
Ai miei compleanni mi regalavano degli odiosi diari. Avevo circa 11-12 anni. Li odiavo perché avrei voluto i giocattoli. Così cominciai a scrivere cose assurde. Non sentite in giro. Esibivo di fronte a me stessa delle parolone con una certa sorpresa e un certo compiacimento. Non cercavo profondità, ma sentivo che funzionavano. Sono stata anche una lettrice precoce, a 13 anni avevo già letto Tropico del Cancro di Miller, Madame Bovary di Flaubert e Anonimo veneziano di Berto, che mi fece sognare il cinema. E avevo visto molti film come tutto Truffaut, perché mio zio aveva la collezione, e Christiane F. Nei temi a scuola prendevo voti altissimi, ma non pensavo di fare la scrittrice. Credevo fossero sfoghi di una ragazzina.
Quando la scrittura è diventata qualcosa di più serio?
Si è ripresentata a 22-23 anni quando un amico mi chiese di andare a sistemare l’archivio del quotidiano La Sicilia con migliaia di giornali. Un lavoro allucinante. In seguito iniziarono a propormi di scrivere qualcosina e da lì ho lavorato per alcuni anni come giornalista. Ma la scrittura letteraria è arrivata dopo e mi ci ha portato la vita stessa che avevo trascorso. Sapevo che un giorno quell’esistenza parallela, indicibile, avrei dovuto testimoniarla.
Una sorta di missione?
Sì, perché era qualcosa di enorme e di troppo drammatico, solo che non lo vedeva nessuno perché nessuno si interessava a quel mondo nascosto. È come se fosse stato un dono divino. Tanto ti stai sacrificando, tanto ti restituisco in cambio gli strumenti per testimoniare. Infatti le parole superano di gran lunga i miei studi, come se mi fossero state date in prestito.
Sangue di cane, edito da Laurana, è stato un esordio folgorante. Poi cos’è successo, tanto da farti arrivare all’autopubblicazione di un libro come Vodka siberiana?
Potevo ottenere moltissimo ma non è successo. Malgrado quel romanzo sia arrivato ovunque, non avendo un agente non ho saputo sfruttare la maggior parte delle opportunità. Ora non è neppure in commercio, mi auguro che sia ripubblicato come tascabile da La Nave di Teseo.
Anche la critica lo accolse benissimo.
Angelo Guglielmi, Fulvio Panzeri, Giovanni Pacchiano. Puoi immaginare cosa provai quando lessi le loro recensioni, io, una donnetta di provincia, apprezzata da critici così importanti.
Ora sei pubblicata da La Nave di Teseo, ma prima sei passata da una casa editrice a un’altra. Sempre per il fatto di non conoscere le logiche del mercato?
Ho pubblicato in maniera frammentaria con Marsilio, Feltrinelli, Gaffi, Miraggi e altri per capire che non era quella la strada. A un certo punto, non avendo nessuno accanto, mi è mancato chi intorno a me prendesse a cuore il mio percorso editoriale.
Tanto che, come detto, sei arrivata persino ad autopubblicarti Vodka siberiana.
Venivo da un romanzo di rottura e deregolamentazione come Gli Imperdonabili e dalla parentesi di un movimento con Giulia Milani contro questo sistema editoriale che non ci piaceva, quello dei giochi già fatti. Mi ero stancata perché mi rendevo conto che non trovavo sbocchi. Quello che scrivevo non andava bene, non sapevo chi dovevo accontentare, oltre a non capire perché la mia scrittura doveva conformarsi. Vodka siberiana per me era un romanzo altissimo, eppure non veniva capito dagli editori. Un argomento che nessuno ha affrontato in quel mondo, ma perché nessuno ha avuto la vita che ho avuto io.
Nonostante l’autopubblicazione, però, il libro è stato nuovamente accolto benissimo sia dal pubblico che dalla critica.
Non ci potevo credere. Il mio agente, dopo qualche tempo, mi disse che quel gesto era arrivato ai piani alti dell’editoria e cominciavo a dare fastidio, tanto che qualcuno pensava a limitarmi. Io da sola, senza mezzi e uffici stampa, ero su tutti i giornali. Poi mi è stato detto che il mio vero valore nel mercato editoriale poteva essere molto più alto. Vengo considerata la nuova Anna Maria Ortese. Non lo dico io, lo dice il mio agente sentendolo nell’ambiente.
Prima dell’intervista mi hai scritto questo messaggio: “Pensa la scrittrice, io, considerata, così dice il mio agente, la nuova Ortese, potrebbe essere la più povera, scrittrice, d’Italia. Puoi scegliere tu la mostrina”. Cosa provi per questo contrasto?
Mi crea disagio, perché poi resta la vita che è quella che è. Per quanto questa mostrina della scrittrice vada in giro, c’è la realtà che mi procura sofferenza. Vorrei aver avuto una vita emancipata, mi è capitato invece il destino di testimoniare. In cambio una vita che non ho avuto. In più, da quando ho iniziato a testimoniare, la mia vita è finita. Dopo averla descritta, infatti, ora non mi rimane altro che il commento. L’inganno infatti parla di questo.
Temi che un giorno non avrai più niente di cui scrivere?
Incredibilmente sono investita da una ispirazione torrenziale che non si arresta. Negli ultimi tre anni ho scritto cinque romanzi. Non ho timore per la scrittura, ho timore per il mio futuro. Mi rendo conto di non sapere che fine farò. Chi si prenderà cura di una così?
Hai scritto: “Il mio welfare si chiama: papà”.
È così. Già durante il matrimonio ero abituata alle privazioni, ma dopo è stato ancora peggio. Ho difficoltà sociali ed economiche enormi. Ho perso il lavoro al giornale La Sicilia, dove avevo un minimo che mi consentiva la sussistenza e poi non ho più avuto una indipendenza. Così ho affrontato un giorno dopo l’altro, con un figlio e senza sostegno. Ultimamente ho perso anche il Reddito di cittadinanza, che ricevevo da poco tempo.
Com’è possibile che al quotidiano La Sicilia si trovino in casa una delle migliori scrittrici italiane e non le offrano almeno una collaborazione?
È una realtà paurosa e ancora adesso, per chi ci lavora, le cose non sono cambiate. In quel contesto mi sono sentita mortificata, anche economicamente. Ero sottopagata, quando arrivavano quei benedetti soldi… Si dipende tutti dal caposervizio e dalle sue simpatie o antipatie. A 26 anni, senza contratto, coordinavo quattro pagine. Ma quando è cambiato il caposervizio, quello nuovo mi ha tolto quei quattro soldi che prendevo prospettandomi di tornare a scrivere a 5 euro a pezzo. Non che guadagnassi molto di più, ma ributtarmi in strada non mi sembra giusto. Purtroppo il giornalismo in Sicilia è una realtà sofferente.
Sulla scelta del governo relativa al Reddito di cittadinanza hai scritto: “Non dovrei indossare io questo abito, si chiama vergogna. Ma lo indosso. Dovrebbe indossarlo anche lei, signor presidente, moglie-madre-patriota. Un giorno tuttavia la interrogherà, scrupolosa, la vergogna: come ci si sente, signor presidente, a infilare la mano nella tasca vuota di un povero e del poco (eppure) riempire l’epa pingue di un ricco?”.
Al di là della tragedia, distribuita in tutto il paese, è stato un gesto di un’arroganza incredibile. Una dichiarazione di guerra alla fragilità e alla povertà, a chi dovrebbe essere tutelato e custodito. Ha creato un precedente. Una sorta di selezione della specie. Stanno facendo un esperimento di eugenetica. Chi ce la fa sopravvive e chi non ce la fa muore. Non so cosa succederà, ma credo sia fortissima la rabbia sociale. Loro lo sanno quello che hanno fatto e quindi è una sorta di selezione della razza, che ci divide tra ricchi e poveri.
Sai che parlando in questo modo non rientrerai nello spoil system del governo?
Lo immagino, ma non credo ci sia altra possibilità di gratificazione. Come puoi interloquire con questa classe politica? Con quale profondità di pensiero o empatia? Non mi sento né di destra né di sinistra, non è una questione ideologica, siamo al di là di ogni pessimistica previsione. Quando i sociologi definiscono questa destra “asociale” hanno ragione. Dimostra di avere una forma di cattiveria estrema che però paghiamo sulla nostra pelle.
Quando vedi che alcuni intellettuali aderiscono a questa classe politica, cosa provi?
Mi incupisco e mi isolo ancora di più. Perché l’intellettuale dovrebbe sempre rimanere la pietra di scarto. La sbarra di traverso. Come può l’intellettuale libero per conformazione diventare portavoce del potere? O un sodale compiacente esecutore del politico di turno? Per me lì finisce l’impegno critico, così come l’apprezzamento per molte figure che stimavo.
Ti senti rappresentata dal femminismo attuale?
No, mi sembra una nuova dittatura, all’interno di quella più ampia del politicamente corretto. È una trappola, prendo le distanze dalle varie schwa. Sono movimenti che ottundono, non chiariscono, non illuminano. Pregiudicano il ruolo della donna. Non ci trovo nessuna libertà. Solo nuove catene nelle quali avvolgerci.
Eppure, anche in letteratura, ci sono gruppi di scrittori e scrittrici che aderiscono.
Ci sono sicuramente, ci sono sempre stati. Puoi farne parte se ti riconoscono una di loro, anche se a te non te ne frega nulla. Sicuramente possono condizionare un percorso letterario. Io sono stata fortunata, perché sono libera e sola. Sono arrivata a pubblicare senza sottostare a nessun patto di sangue. Ho incontrato delle persone che hanno deciso di credere in me, come Marco Travaglio, Giulio Mozzi e Ugo Marchetti, che più di un agente per me è un padre.
Sulla scrittura hai dichiarato: «Per me viene prima lo stile della trama, un po’ come in un solfeggio di jazz».
È fondamentale lo stile, anche da lettrice. Conta lo scorrere delle parole e dei periodi. Lì c’è l’architettura, lì c’è la verifica del tuo pensiero. Il punto è il linguaggio, che apre squarci incredibili. Nella ricerca dell’architettura perfetta della parola arrivano le rivelazioni. Si insinuano pensieri, riflessioni, descrizioni, quasi sostenuti dal linguaggio stesso che stai ricercando. Per questo sono convinta che la vera trama sia il linguaggio.
Oggi si parla molto di autofiction, nel bene e nel male.
Sono discussioni inutili. Puoi parlare degli affaracci tuoi, posto che qualsiasi scrittore inserisce per forza parte della propria biografia, ma se scrivi di merda scrivi di merda. Non realizzi un buon romanzo solo in base a una buona trama, serve lo stile.
Perché, nonostante tutto, si continua a scrivere libri?
Perché è una necessità che non fai per altri, o forse in parte sì, ma fondamentalmente proviene da una ferita con la quale devi avere a che fare tutta la vita. Non si rimarginerà mai. Ci fai i conti ogni giorno. Il segreto è quello. Ti era già stato annunciato cosa saresti diventato. Ognuno è predestinato in base alla propria ferita. Non c’è alternativa.
Quando intervistai Viola Di Grado mi disse: «Vivo in terza persona, anche quando faccio sesso scrivo». Ti ci ritrovi?
Sì, la scrittura lavora in sordina. Anche quando penso che non ci sia, in realtà c’è. Ma quando finisco una pagina me ne voglio liberare, allontanarla. È come alleggerirsi da una gravosità incombente. A volte chi mi conosce mi trova un po’ infantile e questa gravosità, di cui quasi mi vergogno, non combacia con il mio modo di essere. Per questo non voglio portarmela dietro con solennità. Voglio togliermi queste ombre di torno. Ti danno una percezione del mondo con una pesantezza infinita e spesso mi devo difendere dalla scrittura.
In che modo ti difendi dalla scrittura?
Frequentando persone semplici, povere, che hanno sbagliato. Per entrare nelle vite altrui, come facevo da bambina guardandoli dalla finestra. Io questa vita non la sento, non so cos’è. Forse voglio salvare il mondo salvando le persone. Con alcuni ci sono riuscita grazie allo strumento della mia persona. Come i miei ex, che sarebbe morti come i loro amici vomitando sangue, devastati da alcol e droga, con gambe e braccia nere appoggiati ad un albero.
E invece gli hai dato un’altra possibilità.
Perché ero lì, in mezzo tra il baratro e la vita. Ogni tanto mi sveglio la notte perché torna quell’angoscia simile alla prigionia. Loro sono vivi, ma io ne sono uscita distrutta fisicamente e con mille fobie. Oggi per consolarmi mi dico: bè, due non sono morti. Ma sono stati anni biblici. L’unico rimpianto è aver consumato la stagione migliore, quella dell’adolescenza. Invece l’ho passata in reclusione. Gli anni successivi, con il padre di mio figlio, sono stati immaginifici. Sembrava di essere immersi in un romanzo di Gogol’ o in un film di Kusturica.
In che senso?
Lui era un fuggitivo, se fosse tornato nel proprio paese lo avrebbero arrestato. Ha avuto una esistenza alla Limonov. Ma grazie a lui ho incontrato personaggi incredibili, ma soprattutto Dio. Sono stati gli anni più belli e pericolosi. Con rinunce pesantissime che prima o poi paghi. Adesso sono sola. Se morta o viva non gliene frega niente a nessuno.
Tuo figlio come ha vissuto quella situazione?
È stato preservato da tutto grazie ai nonni. Ho cercato di non fargli vedere nulla, rinunciando addirittura al mio ruolo genitoriale. Quando uscì Sangue di cane aveva 9-10 anni e spero che non lo abbia letto ancora oggi.
Come mai?
Perché non so cosa potrebbe pensare di sua madre, che nel quotidiano era un po’ pesante. A volte, parlando con i suoi amici, l’ho sentito dire:«Mia mamma è strana». In generale non credo che tutta quella sofferenza lo abbia raggiunto, anche se qualcosa ha dovuto pagare senza averne colpa. Ma ho cercato di non fargli mancare nulla. Oggi lavora tanto, non si lamenta, è una persona semplice e lo ritrovo più come fratello che come figlio.
Che cos’è l’amore per te?
L’amore è tutto. Senza amore niente conta. Però mi sembra che la vita mi prenda in giro. È
come se mi dicesse: hai tutto, ma nessuno che ti dice di che colore sono i tuoi occhi. Se non hai qualcuno per cui sei il primo e l’ultimo pensiero della giornata non sei viva. Lo sei soltanto per circostanza. Tutto quello che è importante è il vero amore, ed è quello che mi manca. È tutto quello di cui avrei bisogno ed è tutto quello che non ho.
Oggi cosa ti fa più paura?
Mi affligge vivere a lungo. La solitudine, le difficoltà in cui verso, che hanno caratterizzato la mia esistenza e alle quali non volevo dare un nome, quel disturbo che mi porto dentro, le mie fobie, le mie crisi abbandoniche, i miei sbalzi di umore. Non è solo il fatto oggettivo esterno, ma un fatto oggettivo interno. Alla lunga mi stanca e mi fa paura. Cosa farò? Con chi? Dove?
Per ora è tuo padre l’unica àncora di salvezza?
Sì, infatti a volte spero di essere io ad andarmene prima di lui. Non riesco a immaginarmi il dopo perché non ho nessuno intorno che mi può aiutare. Ho una personalità che oscilla continuamente fra la disperazione e l’ascesi. Quando leggo di Sinéad O’Connor o Amy Winehouse, dentro le loro storie c’è molto di me. In quelle disperazioni mi rivedo.
Hai detto che grazie al tuo ex marito hai incontrato Dio. Ti è di conforto?
Mi ha aiutata e mi aiuterà ancora. Ho rischiato la vita diverse volte, però mi ha dato segni molto concreti della sua presenza. Lo percepisco nelle cose che accadono. Non posso dire che non esiste, sento che spesso c’è stato un intervento superiore. In fondo anche questa intervista la reputo un segno. Comunque ho un rapporto continuo con Dio, anche di ribellione. Un giorno, ne sono certa, dovrà spiegarmi perché non mi ha scagionata da alcune afflizioni.
C’è qualcosa che ti fa ridere?
Mio figlio, che ha un senso dell’umorismo incredibile preso dal padre, mi fa ridere fino alle lacrime. Così i miei animali. E sorrido, ricambiata, con i bambini. Sono momenti molto belli.
Credi che i tuoi libri rimarranno nella storia della letteratura?
Lo spero con tutto il cuore, ma non ci ho mai pensato in questi termini perché non mi importa di ciò che rimarrà dopo di me. Non vorrei neanche una lapide al cimitero. Non trovo indizi che mi facciano pensare che rimarranno, ma non sarebbe male. Proprio niente male…