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Zitti tutti: parla Bret Easton Ellis

La passione per Stephen King, il disinteresse per la politica e la sofferenza che ha accompagnato la stesura de 'Le schegge', il suo ultimo romanzo, che potrebbe diventare presto una serie tv diretta da Luca Guadagnino: una chiacchierata con l'autore anti woke per antonomasia

Foto di JOEL SAGET/AFP via Getty Images

A chi non capita di cercare sui social i propri vecchi compagni di classe? O di googolare nomi di persone che appartengono al proprio passato, con una domanda in testa: che fine avranno fatto? A Bret Easton Ellis è capitato una notte dell’aprile 2020, durante il primo lockdown. Ce lo racconta in una sala riunioni dell’albergo in cui alloggia durante la tappa milanese del breve tour italiano organizzato per presentare Le schegge (Einaudi), il suo nuovo romanzo. «Avevo bevuto del vino un po’ prima del solito, non riuscivo a trovare alcuni compagni di classe e mi sono messo a pensare di nuovo a questo libro. Mi è arrivata addosso un’onda di nostalgia da cinquantaseienne e ho scritto i primi due paragrafi, il cui tema è il guardarsi indietro. Sono tornato al mio ultimo anno di scuola e ho deciso di provare a scriverne dal punto di vista di un uomo che è invecchiato. È stato questo ad aprire la porta. Il libro non poteva essere scritto da un ragazzo: doveva essere scritto dal punto di vista di un narratore che oggi guarda a quegli eventi del passato. Le schegge è arrivato così».

Senza fare troppi spoiler, è la storia di un diciassettenne di nome Bret, che nel 1981 frequenta l’ultimo anno di liceo alla Buckley di Los Angeles, una scuola per figli di papà che vivono tra feste in piscina, coca, macchine veloci e tanta promiscuità. Intanto un terrificante serial killer miete vittime e sembra minacciare lo stesso Bret e i suoi amici.

Pantaloni della tuta neri con le tre strisce, maglietta nera con il coccodrillo, Ellis ci assicura che prima di allora non aveva mai provato a rintracciare i suoi vecchi compagni. «Ho scoperto che il vero Matt non era stato ucciso, come invece dico nel libro, ma era diventato un roadie degli Aerosmith e aveva avuto problemi psichici» racconta. «Non sono invece riuscito a trovare il vero Thom e il vero Ryan, mentre sono riuscito a trovare la vera Debbie. Poi, quando è uscito il romanzo, mi ha mandato un messaggio su facebook che diceva: con tutti i nomi che potevi usare, perché proprio Debbie? Io odio quel nome». Nell’ultima pagina si legge che «tranne per l’autore stesso, ogni somiglianza con persone vive o defunte è perlopiù casuale e non reale». Un’avvertenza che, ascoltando Ellis raccontare il suo lavoro, sa più di precauzione che altro.

Aveva iniziato a scrivere Le schegge ancora prima di Meno di zero, il suo esordio letterario, e l’aveva ripreso in mano almeno altre tre volte, l’ultima delle quali nel 2013. Ma cosa l’ha spinto a riprovarci ancora una volta, fino ad arrivare alla pubblicazione? «Sono vecchio, sono diventato vecchio» risponde deciso. «Ho capito che i miei ricordi di quel periodo stavano svanendo. Ho sempre voluto scrivere questo libro, fin da quando avevo diciott’anni. Con l’arrivo della pandemia e del lockdown, bloccato nel mio appartamento, ho pensato ai miei compagni di classe, a quelli di loro che per me avevano significato molto. A diciassette anni ho capito che ero solo, e che i miei amici maschi stavano per affrontare la vita in maniera più facile rispetto a me. Avrebbero avuto molte più scelte, e la cosa mi dava fastidio. Questo succedeva proprio durante l’ultimo anno di liceo. Per qualche motivo poi andavo in palestra, ero dimagrito, avevo un bell’aspetto e la ragazza più popolare della scuola era interessata a me, anche se io ovviamente non ero interessato a lei perché ero gay. Volevo scrivere di tutto questo, e di un misterioso nuovo studente, e di un serial killer che girava a piede libero. E di Stephen King, che era il mio idolo. Quando ho provato a farlo, prima ancora di iniziare Meno di zero, c’erano troppe cose, troppi personaggi. Ci ho pensato troppo. Quindi l’ho messo via e ogni tanto ci sono tornato sopra, ma semplicemente non funzionava. Erano tutte frasi molto secche, al presente, tipo: “Vado a trovare la mia ragazza. Mi sto ancora riprendendo dalla cocaina della notte prima. Alla radio ci sono i Blondie”. Non funzionava mai».

Il tono di voce, i gesti di Ellis sono quelli di uno scrittore entusiasta del suo ultimo libro. Emana un calore che fa svanire subito il timore reverenziale dell’intervistatore, dovuto anche alla fama di personaggio sopra le righe che l’autore di American Psycho si porta dietro grazie anche a tweet come quello che oltre dieci anni fa parlava apertamente del suo uso di cocaina. Nelle ultime pagine di Le schegge Ellis esplicita il suo ruolo di narratore e racconta che la stesura del libro lo spaventava («come succede con l’amore, come succede con i sogni»), che per poco non ha fatto impazzire il suo compagno, che quando non riusciva a liberarsi dall’orrore beveva un bicchiere di gin con ghiaccio e poi prendeva uno Xanax o un Tavor «di quelli che ci forniva il nostro spacciatore».

È normale, quindi, chiedergli chi gliel’ha fatto fare di arrivare, questa volta, alla stesura definitiva di un libro fonte di tante sofferenze. «In realtà scriverlo mi ha portato gioia» risponde in apparente contraddizione con quanto si legge nel romanzo. «Mi sono liberato della sofferenza. La sofferenza stava nell’immaginare di scrivere il libro. Il mese prima di cominciare ero molto tormentato. Ero ossessionato da quelle persone, da quello che era successo, dal vero Ryan. Perché non eravamo sposati? Era un tormento che cresceva, e questo è stato la sofferenza. Quando ho iniziato a scrivere mi sono come liberato: finalmente potevo dire a tutti cosa avevo provato, esprimere sentimenti che avevo messo in un angolo per tutto questo tempo. E potevo farlo dal punto di vista di un vecchio, perché ora che ho cinquantanove anni sono un vecchio rispetto al me stesso adolescente di allora. Potermi mettere a scrivere quella storia tutti i giorni mi ha dato tanta gioia, ed è sempre stato così per tutti i miei libri. Non capisco quegli scrittori che si mettono seduti davanti a uno schermo vuoto e ti raccontano di quanto è dura, come se scrivere fosse un’agonia. Per me non è mai stato così: scrivo perché mi piace, e se non mi piacesse non lo farei. L’unico libro che mi ha fatto precipitare in una brutta depressione è stato Imperial Bedrooms, che si può dire sia il diario che ho tenuto mentre lavoravo alla realizzazione di The Informers – Vite oltre il limite (2008), che ho adattato dai miei racconti di Acqua dal sole. Avevo quarantaquattro anni e stavo semplicemente invecchiando, non avrei dovuto farne una tragedia: mi stava semplicemente accadendo una cosa prevista dalla biologia. Ma ne ho fatto una tragedia. Oltretutto bevevo come una spugna. L’unica cosa che mi ha fatto stare meglio era scrivere la sera quando tornavo a casa dal set. Non mi è mai capitato di essere così crudele e onesto con me stesso in un libro come allora. Forse è capitato di nuovo proprio in Le schegge. Spesso leggo che sarei un narratore inaffidabile, ma è proprio di questo che parla il cazzo di libro: parla di un narratore inaffidabile, di una persona falsa, uno che si mette vestiti che non vorrebbe mettersi, che ha una ragazza con cui non vorrebbe stare e un ragazzo da cui pensa di essere amato».

Le schegge potrebbe in futuro diventare una serie televisiva. I diritti sono stati opzionati da Hbo diversi mesi prima dell’uscita del libro e la regia dovrebbe essere affidata a Luca Guadagnino. «Proprio stasera andrò a cena con lui» racconta, «sarebbe il regista perfetto. L’idea di Hbo è quella di fare tre stagioni ma così è troppo lungo. Vedremo, stasera capirò qualcosa di più». La lunga frequentazione di Hollywood, in particolare nel ruolo di sceneggiatore, ha reso Ellis parecchio disincantato riguardo alla possibilità di portare sullo schermo progetti ancora sulla carta. O almeno così sembra quando racconta del film horror che dovrebbe dirigere in prima persona, ambientato a Los Angeles ma girato alle Canarie. «Davvero? Le Canarie? Avevo capito che sarebbero state le Cayman! In realtà è una cosa che è in ballo da anni. A volte penso che se andrà in porto sarà un miracolo. In teoria dovrei dirigere questo film tratto da una mia sceneggiatura, ma con il covid non se n’è più saputo niente per tre anni. Poi, quando ci siamo ritrovati, c’è stato lo sciopero degli sceneggiatori. Abbiamo la maggior parte dei soldi che ci servono, ma ce ne servono altri. Girare a Los Angeles costa troppo, anche se il film è ambientato a West Hollywood. Ci stiamo lavorando ma, come per tutti i film di Hollywood, quello che sembra che stia per succedere poi non succede: il 90 per cento dei film a cui si lavora non escono mai. Succede anche al 90 per cento dei libri dei quali vengono acquistati i diritti cinematografici».

Lo stesso disincanto sembra valere riguardo alla collaborazione con un altro peso massimo della letteratura: Irvine Welsh. «Dovevamo fare un programma tv insieme» racconta Ellis, «ma poi non se ne è fatto niente. Un anno e mezzo fa è saltato fuori quest’altro produttore che ci ha detto che la cosa più figa del momento erano i podcast true crime. Ci sarebbero anche stati dei bei soldi per noi. Poi devo ammettere che sono un maniaco del controllo e ho preso in mano io la situazione, lasciando meno spazio a Irvine. Lui poi è molto veloce a scrivere, io sono più lento di lui. Recentemente abbiamo anche ricevuto una mail dal produttore, che non sentivamo da tantissimo tempo e voleva sapere come andavano le cose. Ci stiamo ancora lavorando».

Per non parlare, infine, del totale distacco dichiarato nei confronti della politica e delle elezioni presidenziali del prossimo anno. «Non voterò» spiega lo scrittore. «Vivo in California e per me non cambierà nulla, indipendentemente da chi vincerà. Dato che non voterò, non mi lamenterò di chi verrà eletto presidente. Con Biden è stato lo stesso: non ho votato e non mi sono lamentato. La maggior parte degli americani non vota e neanch’io voto: sono molto lontano dalla politica e da quello che succede. Penso che non ci si possa fidare né dei politici né dei media, e come me la pensa il 90 per cento degli americani. Mi rendo conto di com’era un tempo il New York Times e di come è adesso, vedo la televisione, vedo tutto ciò che le Big Pharma controllano. Perché dovrei partecipare a false elezioni, fake news, falsa informazione? Hai chiesto alla persona sbagliata, non sono politicamente motivato né coinvolto».

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