La ‘Guerra sonora’ dei droni | Rolling Stone Italia
un ronzio continuo

La ‘Guerra sonora’ dei droni

Sempre più utilizzato in campo bellico, il drone militare fonde suono e tecnologia della violenza. Approfondiamo l'argomento con un estratto da 'Guerra sonora' di Steve Goodman aka Kode9

La ‘Guerra sonora’ dei droni

Drone

Foto: Jordan Cormack x Unsplash

«Il suono non è soltanto musica, volume o rumore. Il suono è un’arma». È con questa frase che si apre il comunicato stampa di Guerra Sonora di Steve Goodman, che da queste parti conosciamo meglio come dj e produttore sotto il nome di Kode9, nonché label manager di Hyperdub, ma che in realtà si è formato intellettualmente nel gruppo di ricerca britannico CCRU con filosofi diventati oramai culto come Mark Fisher, Sadie Plant, Nick Land.

Uscito in Inghilterra per la prima volta nel 2009, Guerra sonora arriva in Italia grazie a Nero con una nuova introduzione scritta dallo stesso Goodman proprio per l’edizione italiana e che aggiorna la guerra sonica a questi anni, l’era del drone. L’opera, come ben sintetizza la frase di apertura, indaga così l’utilizzo del suono in campo bellico. Che sia tortura, disturbo, pressione psicologica, il suono è qui indagato come arma, come stratagemma, violenza e inganno (quest’ultimo termine come proposto da Sun Tzu ne L’arte della guerra), come attacco psicofisico verso il nemico, verso l’altro.

Nei suoi primi 15 anni di vita, Guerra sonora non ha perso la propria contemporaneità, e più che mai oggi ne pare necessaria una lettura per comprendere quella che Goodman definisce (nella versione originale anche nel titolo) l’ecologia della paura. Per l’occasione proponiamo un estratto dall’Introduzione alla versione italiana, un “aggiornamento” nel campo della guerra sonora che parla di una delle nuove macchine del terrore dell’Uomo: i droni.

2019: L’automazione dei droni e i ronzii dell’automazione

Sia che venga sfruttato come tecnica di guerriglia, sia che venga fatto proprio dalla macchina bellica dello Stato, il suono può essere impiegato per creare un clima di paura e un incitamento all’azione. L’ecologia vibratoria della paura – il concetto attorno al quale Guerra sonora ruota – è ormai sotto il segno degli Unmanned Aerial Vehicle (Aeromobili a pilotaggio remoto): i droni militari. Nel 2019, il suono irradiato dai loro motori fu il tema centrale dell’album di Gonçalo F. Cardoso e Ruben Pater A Study Into 21st Century Drone Acoustics, presentato come una «indagine uditiva» sul tema ricorrente della guerra cibernetica. Il disco conteneva registrazioni sul campo di diciassette macchine – sia militari che commerciali – accompagnate da una composizione ispirata al loro potenziale letale e offensivo, oltre che da una guida alle loro sembianze per facilitarne il riconoscimento. Solitamente controllati a distanza, ma ormai sempre più autonomi, i droni producono un insistente ronzio insettoide soprannominato «Zanana» in Palestina (letteralmente «bambino piagnucoloso») o «Bangana» in Pakistan («ronzio continuo»). Per molte persone che si trovano in zone di conflitto o in territori occupati, tale ronzio è ormai l’indice sonoro di una vera e propria atmosfera di terrore. In un solo termine, drone, si fondono suono e tecnologie della violenza, dove una minaccia virtuale accompagna – e a volte sostituisce – una reale minaccia di morte come arma di guerra.

Guerra sonora si apre sotto un’ombra premonitrice: la vibrazione negativa causata dai cosiddetti boati sonici lanciati nel 2005 sulla Striscia di Gaza, un oscuro presentimento dell’ondata di violenza genocida seguita al massacro del 7 ottobre 2023, avvenuto nel corso del festival musicale Supernova. È solo l’ultima escalation in un travagliato secolo fatto di spirali di vendetta originate dalla colonizzazione e dalla pulizia etnica perpetrate da Israele in Palestina. Questo brutale conflitto asimmetrico, trasmesso in tempo reale attraverso le reti dei social media, continua a funzionare come laboratorio tattico per il colonialismo degli insediamenti, ma anche come esperimento di strategie per la guerra urbana e della sua riappropriazione, e come vetrina di armamenti offensivi e difensivi. È un microcosmo dell’inutile vicolo cieco prodotto dal fascismo vendicativo e identitario, e della reazionaria militarizzazione figlia del vittimismo.

Nell’uso della tecnologia dei droni da parte di Israele, nell’occupazione acustica dello spazio aereo, ma anche nel modo in cui gli analisti audio hanno indagato la propaganda del governo e dell’esercito, questa sanguinosa arena offre molti spunti e dolorosi casi studio. Una notizia che ha iniziato a circolare online il 16 aprile 2024 riporta dei particolari riguardanti l’area settentrionale del campo profughi di Nuseirat, secondo i quali dei droni quadricotteri israeliani dotati di altoparlanti venivano utilizzati per riprodurre registrazioni audio di donne e neonati che chiedevano aiuto, in modo da spingere i palestinesi a uscire all’aperto per essere presi di mira con più facilità, una vera e propria esca concepita per essere ingannevole e fatale. Muhammed Abu Youseef, un testimone auricolare di 19 anni, ha riferito che «si sentivano suoni diversi provenienti dai quadricotteri. Producevano rumori, solo alcune registrazioni erano comprensibili. Sono durati per circa 30-60 minuti, poi i quadricotteri hanno iniziato ad aprire il fuoco e a sparare bombe nel quartiere». Altri testimoni hanno descritto il modo in cui questi dispositivi sono stati inoltre impiegati di notte per riprodurre suoni di spari, esplosioni, movimenti di veicoli militari e canzoni in ebraico e in arabo con lo scopo di intimidire i civili e accrescere il loro senso di impotenza e isolamento dal mondo esterno. Un altro anonimo residente del campo ha dichiarato: «Eravamo seduti di notte quando abbiamo sentito delle voci di ragazze e donne che urlavano: “Venite, aiutatemi, sono ferita!”. Siamo usciti per scoprire cosa stava succedendo. Non c’era nessuna donna, ma siamo stati subito presi di mira da un drone quadricottero». Altri ancora hanno raccontato che «il suono è continuato per circa 10-15 minuti, ma nessuno di noi è uscito perché era molto tardi e sapevamo che si trattava di registrazioni trasmesse dai droni».

La guerra con i droni presenta un’asimmetria sensoriale: il punto di vista totalizzante dell’operatore da remoto del drone contro il terrore immersivo e ronzante di chi è sorvegliato. Nel suo progetto Air Pressure, Lawrence Abu Hamdan ha creato un database che raccoglie i dati di 15 anni di invasioni illegali dello spazio aereo libanese da parte di Israele, sia con aerei da combattimento che con droni. Il clima affettivo che ne deriva è definito «uno stato di precarietà: il rischio di un bombardamento aereo su larga scala è una possibilità quotidiana». Questo condizionamento atmosferico implica che, una volta sentito un suono forte, un suono più debole viene percepito in modo differente. La memoria acustica si satura di un senso di minaccia. È così che opera un’ecologia sonora della paura. I droni, volando abbastanza in alto da non essere presi di mira, agiscono solitamente al limite dell’udibile. In modalità sia di attacco che di sorveglianza, producono un irritante suono a basso livello dai toni minacciosi che crea un netto contrasto affettivo rispetto alla plateale intermittenza di un boato sonico o all’onda d’urto di un’esplosione.

L’estetica investigativa e la guerra sonora convergono nella loro preoccupazione per questa soglia di udibilità: il modo in cui il confine tra suono e unsound (non-suono) influenza la politica della frequenza e dell’ampiezza. È su questo confine percettivo che opera l’artista e ricercatore sonoro Abu Hamdan: definendosi come un «orecchio privato», lavora come un detective dotato di tecnologie di registrazione digitale, analisi spettrografica e modellazione incentrate sull’audio forense. L’agenzia Earshot, che ha cofondato di recente, è specializzata in balistica audio, testimonianze auricolari, indagini eco-acustiche, profili sonori, autenticazione del suono, miglioramento dello spettro e analisi del parlato. Questa ricerca si basa su precedenti progetti incentrati sulle dimensioni politiche del suono, si tratti dei rivelatori silenzi provenienti dalle prigioni siriane o della ricostruzione delle memorie acustiche nei casi di crimini di guerra.

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