In uno dei momenti più cupi della sua esistenza, Mel Brooks, all’anagrafe Melvin Kaminsky, si ritrovò divorziato, con tre figli a carico e senza un dollaro. Era il 1960. Reduce da una decennale “sbornia televisiva” come giovane autore alla corte del comico Sid Caesar e forse anche a causa di una personalità istrionica e dilagante, si era ficcato in un apparente vicolo cieco.
A tenergli compagnia non c’era Molly, la ballerina senzatetto interpretata da Lesley Ann Warren in Che vita da cani! (1991), uno dei suoi film più bistrattati, ma il circolo dei buongustai di Chinatown. Il “club” era una trovata goliardica inventata da Brooks stesso e dal suo nuovo coinquilino, lo sculture Speed Vogel, assieme al pittore Ngoot Lee e a Joseph Heller (in seguito autore di Comma 22). L’idea era di vedersi ogni martedì sera al tavolo di un ristorante cinese della città, unico approdo gastronomico per le loro tasche. Fecero parte dell’agrodolce comitiva: artisti, scrittori e uomini d’affari, fra cui Mario Puzo, che pochi anni dopo avrebbe scritto Il Padrino.
L’America, famelica e spietata, è anche la terra delle seconde opportunità. La rinascita e il successo di Mel erano proprio lì, dietro a un angolo. In quel periodo incontrò l’amore della sua vita, l’attrice Anne Bancroft (“Sono abbastanza certo che una delle ragioni determinanti sia stata che il suo vero nome era Anne Italiano e che sapeva fare gli spaghetti”), Oscar come miglior attrice per Anna dei miracoli, che diede alla luce Max, il quarto e ultimo figlio del regista. Subito dopo iniziò a lavorare al copione di una commedia tragicomica su Broadway che aveva come momento clou un musical su Hitler. The Producers, da noi intitolato Per favore non toccate le vecchiette (1967) era un soggetto grottesco e caricaturale su due produttori ambiziosi e nevrotici, anziane facoltose e lascive, una coppia di gay squinternatati, una segretaria super-sexy ma totalmente incapace, e nazisti hippie e da operetta. Alla faccia della cancel culture. La pellicola divenne quello che negli Stati Uniti chiamano sleeper hit, cioè un film a cui va dato tempo per crescere al botteghino. All’inizio fu criticato per eccessi di ogni tipo (volgarità, umorismo etnico, insensibilità) ma nel 1969 vinse un Oscar per la sceneggiatura. Fu in quel preciso momento che Mel Brooks, a quarantuno anni, svoltò.
Tutto su di me!, corposa autobiografia del comico, regista e attore nato il 26 giugno del 1926, edita da La nave di Teseo, si apre con la premessa che il suo autore non si risparmierà, non sarà riluttante o schivo. E il creatore di cult movie, fra farsa e parodia, come Frankenstein Junior, Mezzogiorno e mezzo di fuoco e Balle spaziali – per citare solo i titoli più amati dal pubblico – ha mantenuto la parola, raccontandosi senza pudori, con slancio vitale e una lucidità da completista, per mettere assieme quella che lui stesso definisce “una sorta di favolosa road map di tutto quel che ho detto e fatto nella mia vita”.
È una descrizione che fa centro: oltre a narrare in modo rigorosamente lineare e cronologico la sua storia umana e professionale, Tutto su di me! è una lunga carrellata sentimentale di personaggi, incontri-scontri con “mostri sacri” (Cary Grant, Dick Cavett, Bob Hope, Jerry Lewis, Alfred Hitchcock…), di dietro le quinte dei film e dei programmi tv, inframezzati da battute, storielle, aneddoti, foto e, perfino, spezzoni di copioni.
Si comincia con la “meravigliosa” infanzia a Brooklyn nel quartiere di Williamsburg, nonostante il prematuro decesso del padre Max – quando “Melvy” aveva solo due anni – portato via dalla tubercolosi. Brooks racconta la vita di stenti della sua famiglia ebraica non ortodossa negli anni della Grande Depressione, in cui le veci paterne erano a carico di Irving, fratello maggiore di una nidiata di quattro maschi. E poi la figura della madre Kitty, rimasta vedova, che poté tirar su il “cucciolo vivacissimo” – quando lei aveva tanto desiderato una femmina – anche grazie alla sorveglianza della famiglia allargata e del vicinato. Il nonno paterno, Abraham Kaminsky, originario di Danzica, che s’indispettiva quando c’erano chiasso e divertimento: “Perché ridete tanto laggiù? Gli ebrei sono ancora in Egitto, non mi sembra ci sia niente da ridere!” Gli accompagnatori al campo estivo di Camp Sussex: “Chi è stato? Kaminsky? Prendetelo, tenetelo fermo e sculacciatelo!”
La gavetta del comico comincia in età scolare fra l’amore precoce per il cinema e come atto di difesa contro i bulli: “Li facevo ridere, e nessuno picchia i bambini che fanno ridere”, e prosegue da soldato durante la Seconda guerra mondiale, fino al periodo di apprendistato nei resort della Borscht Belt, luogo di villeggiatura della comunità ebraica in auge fino agli anni Sessanta. Poi l’incontro che gli cambia la vita, quello con Sid Cesear, possente attore comico per cui diventa autore di sketch a servizio del programma televisivo Your Show of Shows (1950–1954) – ogni settimana visto da sessanta milioni di americani – e Caesar’s Hour (1954–1957). Brooks, a gomito a gomito con Neil Simon, Woody Allen, Mel Tolkin, Lucille Kallen e Larry Gelbart, ideatore di M*A*S*H, lavora con i migliori sceneggiatori sulla piazza e i novellini più promettenti. Prima di fare il salto dalla tv al grande schermo, registra con il sodale Carl Reiner (“Carl fu sempre un sostenitore della mia comicità spontanea e un po’ pazza”) la celebre gag-intervista The 2000 Year Old Man (mai tradotto in italiano) in cui Brooks, interrogato da Reiner, recita la parte di un uomo preistorico che parla anche yiddish, alle prese con le domande della contemporaneità. Le prime registrazioni di uno sketch che poi fu portato avanti dal duo per anni furono pubblicate su vinile (il volume completo edito nel 2006 dalla Rhino contiene anche lo show che si aggiudicò il Grammy nel 1998). La scenetta della coppia divenne molto popolare al punto di essere ospitata nella primissima puntata del Tonight Show Starring Johnny Carson, datata 1 ottobre 1962, dove oltre a Brooks e Rainer c’erano come ospiti Groucho Marx, Joan Crawford, Rudy Vallee e Tony Bennett.
Ma la cosa in assoluto più divertente e inquietante si trova nelle righe in cui Mel Brooks descrive, parafrasando la sua presa per il culo di Guerre Stellari in Balle spaziali, il lato oscuro dello Sforzo (Schwartz, nella versione originale) puntellato di momenti scabrosi fra incredibili scenate di frenesia narcisistica e liti furibonde. Come quando, dopo essere stato escluso da una riunione alla NBC, si travestì con costumi di scena e fece irruzione durante il meeting gridando davanti ai colleghi e ai dirigenti esterrefatti: “Lindbergh è atterrato! È a Parigi, ce l’ha fatta!”. O quel giorno in cui fu brutalizzato dal colossale Caesar perché gli aveva intimato di aprire le finestre in una camera d’hotel. Oppure quando – per fare uno scherzo da pazzoidi – rapinò per ben due volte il povero attore Howard Morris. A un certo punto, le pulsioni del futuro regista di Frankenstein Junior da grottesche stavano diventando sempre più dannose, sia per sé, sia per l’ambiente lavorativo. L’ansia da prestazione, frutto indigesto dei ritmi disumani della tv e di una personalità con tratti patologici, lo conduceva a crisi di panico e a vomitare nei parcheggi degli studi. Mel Tolkien, uno degli autori, in confidenza con il suo omonimo, osservò: “Devi parlarne con uno psicanalista.”
“Seguii la terapia a intermittenza, per tre anni. Durante le sedute passavo dal pianto sommesso alle urla più dirompenti. Dopo qualche tempo, la terapia mi aprì come una scatola di sardine. Invece di continuare a vomitare fra le auto parcheggiate, trovai il coraggio di chiedere un aumento e un vero riconoscimento per il contributo che davo allo spettacolo, cose ugualmente importanti.”
Alla fine di quei folgoranti anni Cinquanta, con la chiusura degli show per gli ascolti sempre più bassi, quel periodo appassionato ma un po’ delirante diede spazio a una fase di riflessione, alle serate col circolo e, soprattutto, alla frequentazione con Anne Bancroft. Poco prima di iniziare il nuovo programma Get Smart (una serie tv che si burlava di James Bond), una sera Mel Brooks conobbe un attore che recitava con lei in Madre Courage e i suoi figli di Bertolt Brecht. Il suo nome era Gene Wilder. Il regista decise di affidargli la parte di Leo Bloom in The Producers che, inizialmente, doveva chiamarsi Springtime for Hitler. “Mi suggerirono di modificare in Springtime for Mussolini. Mussolini, da loro, era considerato un dittatore molto più accettabile.”
Nel cast doveva esserci Dustin Hoffman, che però fu chiamato all’improvviso da Mike Nichols per recitare, proprio con la Bancroft, ne Il laureato (1967). Cominciò così una delle collaborazioni più famose della storia del cinema. A Wilder si aggiungeranno gli altri attori della sua cerchia: Zero Mostel (“Zero era matto – un matto buono”), Kenneth Mars, Marty Feldman, Madeline Kahn, Dom DeLuise, Harvey Korman e Cloris Leachman e, negli anni Novanta, anche il nostro Ezio Greggio (per Brooks: “Il Johnny Carson italiano”). Il resto è storia della cultura popolare. Oltre ai film già citati, il comico dipana i retroscena della sua filmografia burlesca – non sempre brillante e in parte datata – che mette alla berlina i vari generi del cinema (western, fantascienza, horror…) giocando con stereotipi, citazionismo e meta-cinematografia. L’ultima follia di Mel Brooks (1976) è un film muto in cui l’unico a proferir parola è il mimo Marcel Marceau. Alta tensione (1977) prende in giro Alfred Hitchcock, La pazza storia del mondo (1981) scherza con la notte dei tempi, il Vecchio testamento, L’Impero romano e la Rivoluzione francese. Robin Hood – Un uomo in calzamaglia (1993) prende di mira il film con Kevin Costner e Dracula morto e contento (1995) si fa beffe della versione di Francis Ford Coppola. Il libro dedica anche parecchio spazio alla casa di produzione di famiglia, la Brooksfilms, che ha prodotto capolavori come The Elephant Man, La mosca, Frances e 84 Charing Cross Road. Sempre per la Brooksfilms, assieme alla moglie, Brooks ha interpretato Essere o non essere, film diretto da Alan Johnson, remake di Vogliamo vivere! di Ernst Lubitsch del 1942.
L’autobiografia del regista, un “lungometraggio cartaceo” di oltre 600 pagine, cerca davvero di non tralasciare nulla. Salvo qualche palese omissione: come la storia del primo matrimonio con l’attrice Florence Baum (che non viene mai citata) da cui ha avuto Stefanie, Nicholas ed Edward (“Una vera benedizione”, ci tiene a sottolineare Mel) e la causa intentata dalla diva viennese Hedy Lamarr, il cui nome fu scimmiottato in Mezzogiorno e mezzo di fuoco associandolo al villain Hedley Lamarr (interpretato da Harvey Korman).
Come in tutti i memoir che si rispettino c’è quel pizzico di autocelebrazione che si concede a chi ha lo status di Maestro. In pochi possono vantarsi di essere nella schiera degli EGOT: acronimo che indica quella sparuta élite che ha vinto tutti i premi più importanti del mondo dello spettacolo (Emmy, Grammy, Oscar e Tony). Mel Brooks nel 2009 ha ricevuto da Barack Obama il premio Kennedy per il suo contributo alla cultura americana (onore che aveva rifiutato ai tempi di George W. Bush) e altre onorificenze come il Life Achievement Award dall’American Film Institute e la National Medal of Arts, insignita sempre da Obama. Durante la premiazione del 2009, Ben Stiller, riciclando il suo sense of humour, fra le risate, lo definì “un pioniere, un apripista. È stato per i comici ebrei di bassa statura l’equivalente di Barack Obama”.
La storia incredibile di Mel Brooks non è un capitolo chiuso. Nonostante la veneranda età (95 anni) e la perdita di Anne Bancroft, cui dedica pagine struggenti, il regista e attore è ancora vitale e fatalmente ottimista. Nel 2022 uscirà Blazing Samurai, un film animato che è direttamente ispirato al suo Mezzogiorno e mezzo di fuoco del 1974 – il cui titolo originale è, appunto, Blazing Saddles – con le voci dello stesso Brooks (già Vlad nella saga Hotel Transilvania o “mostro del gabinetto” in Senti chi parla 2), Samuel L. Jackson, Ricky Gervais e Michelle Yeoh. Di recente ha sponsorizzato Joe Biden, un altro personaggio vitalistico oltre l’età anagrafica, e sta lavorando al seguito di La pazza storia del mondo, che dovrebbe vedere la luce come varietà televisivo suddiviso in otto puntate nella primavera del 2022.
“Francis Scott Fitzgerald, il celebre autore di Il grande Gatsby, una volta disse: ‘Non esistono secondi atti nella vita degli americani.’ Be’, io sono stato tanto fortunato da provare che si sbagliava”.