Nella foto c’è una signora, piccola piccola, con un paio di occhiali da sole che le oscurano mezzo volto. Sono anche vagamente storti sul naso. O forse è la posa: ci sta guardando di traverso, come se stesse cercando di studiarci. Le lenti scure impediscono di capire dove sia direzionato il suo sguardo. Ovunque, da nessuna parte. Magari ha gli occhi chiusi, come accade in molte fotografie, quando il momento dello scatto è lo stesso in cui si sbattono le palpebre.
Lei, Joan Didion si chiama, ha 80 anni, fa tra le altre cose la scrittrice e Céline l’ha appena scelta come sua testimonial per la primavera del 2015. Il fotografo che la immortala – «in stile iperrealista» dice l’ufficio stampa della griffe – è Juergen Teller, un nome di grido nell’ambiente. Il senso commerciale dell’operazione è evidente: la campagna si rivolge a donne non più giovanissime, ma molto raffinate e, soprattutto, disposte a spendere belle cifre per poter andare in giro con vestiti e accessori sobri, eleganti, in grado di farsi notare ma senza eccedere. Nota il Guardian: «C’è un qualcosa di cinico nell’usare le vecchie per far sentire meglio donne di mezza età più giovani di loro». Del resto, qualche tempo fa, Giacomo Leopardi ci aveva avvisato del fatto che la moda e la morte sono sorelle. Con tutto quello che ne consegue.
Joan Didion con la morte ha avuto a che fare molto spesso durante la sua esistenza. E anche quello della moda è un mondo che ha frequentato in più occasioni: già nel 1991 si era prestata a farsi fotografare per una pubblicità di Gap. E poi ha scritto molto, dimostrando peraltro un certo disincanto, di quell’ambiente lì, a partire da un famoso articolo su Robert Mapplethorpe in cui si era concentrata sulle modelle che eseguono più o meno consapevolmente le indicazioni di chi le immortala, trasformandole a seconda della necessità, come se non esistessero davvero e contassero solo sulla base di ciò che possono essere in mano altrui.
Alla morte, per il resto, Didion ha dedicato molti scritti e due libri fondamentali che tornano parecchio utili quando si tratta di non sprecare un lutto e piangere le necessarie lacrime. L’anno del pensiero magico e Blue Nights s’intitolano.
Il primo comincia poco prima del Natale del 2003, quando Quintana, la figlia di Didion e John Gregory Dunne prende un’influenza che diventa polmonite e poi, in ospedale, si evolve in shock settico. Una brutta situazione che peggiora ancora quando Dunne, una sera, mentre a tavola a consumare la sua cena, si accascia a terra e muore d’infarto fulminante. Didion ci metterà tre mesi a organizzare il suo funerale, perché voleva che Quintana potesse partecipare.
Il secondo parla delle ore luminose dell’inizio dell’estate, quando prima che scenda la sera i colori sembrano l’opposto della morte ma in realtà ne sono l’annuncio. Quintana peggiorerà dopo il funerale del padre: un ematoma la costringerà a subire una complicata operazione (che comunque va bene). Poi, un giorno di luglio, un attacco di pancreatite acuta la porterà via per sempre, aveva 39 anni. E Didion si ritrova così in mezzo al naufragio della sua esistenza, per giunta costretta a invecchiare, dettaglio che non aveva in alcun modo previsto e che la coglie di sorpresa proprio quando non aveva più nulla a proteggerla dall’avanzare del tempo. E allora lei rivede tutto, scena per scena, istante dopo istante, nell’eterno cambiamento di situazioni sempre diverse ma che, di solito, colgono tutti ugualmente impreparati. Le stagioni che si accavallano, gli anni della scuola e del college, il tatuaggio sulla spalla della figlia, i momenti belli, quelli difficili, quelli impossibili, quelli che sono passati e solo dopo arriva la consapevolezza che fossero perfetti. La storia si incrocia spesso con quella del marito, in un viaggio al termine delle corsie dell’ospedale (per definizione siamo tutti incurabili), tra infermiere timide e numeri di telefono di luminari della medicina forse in grado di offrire miracoli. O forse no.
Didion diceva che si scrive per vivere – ma vale anche il contrario: si vive per scrivere -, per esserci ed esserne consapevoli, perché quando c’è un problema si avverte la necessità di metterlo su pagina per analizzarlo e capire cosa sia di preciso quel male che si sente. E il personaggio principale, in tutte le sue storie, in tutti i suoi articoli, in tutti i suoi discorsi è lo stile. Cioè lei oltre lei.
Il modo con cui riusciva a raccontare l’irracontabile, il momento esatto in cui la vita si rompe e bisogna fare i conti con l’evidenza che nulla sarà mai più come prima, il passaggio forse astratto tra tra la volontà di andare avanti e la consapevolezza che lo si può fare soltanto dando le spalle al futuro, cioè guardando in faccia il solo passato . Perché l’attaccamento alle persone, in qualche caso l’amore, porta al pensiero magico di non lasciarle andare, di tenerle con sé per sempre. Quando le chiesero il consenso per donare gli organi del marito, Didion non sapeva come rispondere. «Come potrà tornare se glieli tolgono?». Ecco, quando la pista si svuota e le luci si spengono, quando è il momento di andare via, quanto costa fare l’ultimo passo?
Nel 1968, dopo un attacco di nausea, delle fastidiose vertigini e una visita psichiatrica, Didion aveva scoperto di soffrire di sclerosi multipla. Non c’è cura, come si sa, ma la situazione può essere tenuta sotto controllo. E così sarà fino alla fine, quando a tutto il resto si aggiungerà il morbo di Parkinson. La morte, all’età di 87 anni, arriverà il 23 dicembre del 2021. A New York City. E dove altrimenti? Non esiste altra città al mondo in grado di fare da tomba a una persona che in vita sua ha vissuto ovunque, comunque e qualsiasi cosa. L’imbarazzante (per i lettori, per i numerosi emuli) consapevolezza di saperla lunga e di saperla pure raccontare.
Partire e tornare sono i due verbi fondamentali di Joan Didion. La sua vita è stata tutta così. E così è stata pure tutta la sua scrittura: un viaggio continuo tra fiction, non fiction, memoir, reportage, sceneggiatura, registrazione, immaginazione, impressione personale, culto del dettaglio. In un certo senso quello che ha messo per iscritto è la prosecuzione di quello che non ha mai trovato il tempo di scrivere, in una fusione unica e totale di ciò che si è e ciò che si fa. Sartre parlava della differenza tra «fare il cameriere» e «essere un cameriere», ma in certi casi la situazione è più complicata e si fa quello che si è. Consacrare la propria vita alle parole. Una scelta radicale, anche se in fondo c’è di peggio al mondo.
Perché scrivere, dunque? Qual è la distanza tra un’autrice e la sua biografia? Per formazione e tendenza, il critico tende a dire e a ripetere spesso quanto sia necessario mettere una distanza tra chi scrive e ciò che scrive, ma nel caso di Didion questa distinzione appare impossibile. Lei era esattamente quello che scriveva, aveva votato la sua vita – appunto – a farlo e, con il passare del tempo, aveva raggiunto lo stato di grazia, ovvero l’esatta equivalenza tra ciò che era e ciò che riusciva a comporre sulla tastiera del suo computer. È vero – su questo la critica concorda – Didion non ha azzeccato tutti i suoi romanzi. O meglio, non tutta la sua produzione è eccezionale e potremmo discutere parecchio sull’effettiva qualità letteraria di alcune delle sue opere. Ma altre – e soprattutto i suoi articoli – svelano l’unica cosa che conta sul serio: una scrittrice non è i suoi libri, ma è tutti i suoi libri insieme. Perché, ormai dovremmo averlo capito, quando si va a tirare una linea e a far di conto, il tutto è sempre più della somma delle sue parti.
È una questione di sensibilità: Joan Didion non è nata scrittrice, ma giornalista. Anzi il suo primo incarico fu da copywriter, e solo dopo divenne redattrice associata a Vogue. E poi tutto il resto: i suoi capi la chiamavano per quelli che in Italia una volta si chiamavano «servizi speciali». Quegli argomenti per cui non è necessaria una preparazione approfondita o specifica, ma che si basano sulla capacità di chi scrive di trovare lo spunto giusto nel caos delle circostanze. Per esempio Didion, per sua stessa ammissione, non ci ha mai capito molto di politica ma quando se n’è occupata (vedi Democracy e Finzioni Politiche su tutti) ha raccontato come (quasi) nessun altro il funzionamento della gestione della cosa pubblica e della corsa elettorale negli Stati Uniti d’America. Là dove si pensa di tutto, si dice ancora di più, ma alla fine ogni mossa è finalizzata a conquistare una fetta ridottissima di indecisi che con il loro voto determinano il corso della storia e il prosieguo della vita democratica (o quasi) dell’unica vera nazione al cospetto di dio.
È poco? È troppo? È abbastanza? La risposta è un fatto di metodo, ovvero di essenza: «Ho un fisico così minuto, un temperamento così discreto, sono nevroticamente così inarticolata che le persone tendono a dimenticare che la mia presenza va contro i loro interessi», diceva Didion di sé.
E quindi no, non lo sapremo mai se sotto le lenti scure di Céline i suoi occhi erano chiusi o aperti, cosa stesse guardando, quale particolare avesse attirato la sua attenzione. Magari nessuno. Magari tutti. E noi qui a domandarcelo per sempre. Solo in parte consapevoli del fatto che «a posteriori, quando cominciamo, sappiamo come scrivere. Quello che impariamo mentre lo facciamo è perché scriviamo». Perché facciamo ciò che siamo.