Non è chiaro come si sia potuto anche solo pensare di parlare davvero con David Bowie. Mi riferisco alla sostanza intrinseca a una simile situazione. Parlare con Bowie, vale a dire avere con lui uno scambio bidirezionale e, il più possibile, alla pari, risulta ad oggi qualcosa di quasi mai sperimentato. A dimostrarcelo arriva in queste ore in libreria il prezioso Sono l’uomo delle stelle (Il Saggiatore, euro 24,00), la traduzione italiana di Bowie on Bowie, il volume curato da Sean Egan (tra gli altri Uncut e The Guardian), già in commercio dal maggio 2015.
Si tratta della prima uscita italiana rilevante dallo scorso 10 gennaio: una raccolta di 32 interviste rilasciate dall’artista tra il novembre 1969 e il novembre 2003: trentacinque anni esatti di parole. Il risultato è sconvolgente, ancor più di quanto si potesse prevedere: una lunga fila di incontri più e meno riusciti in cui l’autore del pezzo riesce con difficoltà a scardinare con domande e piccoli processi maieutici, quella solidità che è protagonista, pur magmatica nel cuore, del Bowie-pensiero.
Con il senno di poi – soprattutto con quello di una conoscenza al dettaglio di chi fosse Bowie, almeno nella propria figura pubblica – parole come ‘alieno’ o ‘camaleontico’, ma pure come ‘uomo delle stelle’ e altra roba simile, sappiamo essere le più sgradite al protagonista e le più trite e vacue per raccontare in modo critico, diciamo pure autorevole, le profondità di questa storia lunga cinquant’anni. Naturalmente però non era ugualmente semplice inquadrare l’enormità delle sfaccettature di un simile fenomeno artistico per chi si trovava, pur fortunatissimo, nel mezzo di tutto questo quando ancora era in pieno divenire.
E così, specie nelle prime tra queste interviste – che ci vengono tutte proposte dal volume nel loro ordine cronologico – la conversazione appare spesso troncata, si avvertono spazi di vuoto nello scambio, un senso di generale spreco del tempo della conversazione, di possibilità perdute. Ciò sembra accadere in parte a causa del linguaggio giornalistico rock poco analitico, preciso e vario dei primi ’70 e in parte proprio per via della presenza così massiccia di Bowie che, tra una provocazione e una spiegazione strettamente musicale fornite al giornalista con una decisione, quando non solennità, estreme, si prende per sé l’intera scena, facendo fuori velocemente, in un involontario duello dialettico, il povero interlocutore di turno.
In nessuno di questi trentadue pezzi Bowie si lascia andare a forme di maleducazione o di prevaricazione nello scambio, ciò che però il lettore si trova facilmente a constatare è l’impossibilità intrinseca nell’essere umano Bowie, di finire inglobato in quelle piccole forme routinarie di mestiere che l’intervista porta con sé.
In questo senso, il volume crea un duplice effetto: da un lato, spesso, la percezione fastidiosa dell’assenza di una guida rilevante negli scambi, in cui è l’intervistato a tenere i fili della conversazione; dall’altro, l’ennesima presa di coscienza di quanto notabili, acute e automaticamente protagoniste fossero la mente e la personalità di David Bowie.
Dal New Musical Express al Melody Maker passando per Q, Time Out e The Face, fino all’incontro del 1993 con David Sinclair proprio per Rolling Stone, le interviste coprono molte delle ere di Bowie, non entrando nel merito della fase tossica a Los Angeles e non insistendo quanto ci si aspetterebbe sul periodo berlinese. Scelta sensata, tutto sommato, visto che, in primis in una mera prospettiva giornalistica, il materiale migliore e più intimo arriva più in là, dal 1991 in poi.
Un incontro con Bruce Springsteen, più chiama-lettori che concretamente rimarchevole, pubblicato su The Drummer nel 1974 e raccontato da Mike McGarth, non vale certo quanto il reportage in coppia con Sinclair uscito su Rolling Stone USA il 10 giugno 1993, scritto e ‘girato’ ripercorrendo le tracce della Londra del primo Bowie, con l’insegna K. West della copertina di The rise and fall of Ziggy Stardust (and The Spiders from Mars) già rimossa e un bis dell’addio alle scene, recitato stavolta di fronte a una platea vuota, dallo storico palco dell’Hammersmith Odeon, su cui Bowie si ritrova, da solo, dopo vent’anni, mille vite e album.
Il libro non vale per le intro di Egan in apertura dei pezzi, non solo inutili spiegazioni di ciò che stiamo per leggere ma spesso abbozzi di dietrologie che abbassano il livello delle conversazioni, ma assume invece notevole importanza per le miriadi di informazioni, dettagli, pensieri spirituali, non di rado filosofici e ancor più magicamente quotidiani, che Bowie offre, da sé di sé, al di là della struttura dei singoli incontri.
L’ultima intervista riportata risale al novembre 2003, è ripresa da The Word (UK) e la penna è quella del fido Paul Du Noyer.
Non di rado accade nel libro che, come in questo caso, il giornalista sia anche un fan di vecchia data. Du Noyer rievoca la sua storia di fan di Bowie e approda alla contemporaneità in modo appassionato, donando un senso d’appartenenza allo scambio non semplice da ritrovare nel libro, un tratto che strutturalmente fa davvero la differenza. Scopriamo l’ultimo Bowie pubblico, con una piccola secondogenita, innamorato della New York silenziosa delle prime ore del mattino, nuovamente appassionato di dischi in vinile, intento a raccontare del suo amore per Mos Def e i The Last Poets, delle teorie sulle responsabilità dell’attentato dell’11 settembre e del suo romanzo infinito e incompiuto: “Si tratta di un progetto grandioso, non so se riuscirò mai a portarlo a termine. Forse le note verranno pubblicate dopo la mia morte”. Rileggiamo, e siamo lieti di poterlo fare perché non c’è davvero modo in cui non sia importante farlo, una vicenda artistica e umana del tutto fuori dall’ordinario, condotta da un genio per natura straordinario, uno che nel 1976, a Robert Hilburn di Melody Maker alla domanda “Cosa vorrebbe venisse scritto sulla sua lapide, sotto il suo nome? Cantante? Performer? Songwriter? Attore?”, rispondeva: “Lapide? Io voglio un monumento. Una lapide mi lascerebbe insoddisfatto”. Tanto insoddisfatto e tanto superiore che il monumento, alla fine, se l’è fatto da sé: ★.