Quando, in occasione dell’uscita italiana di The Heroes, lo “stand alone” ambientato nel mondo della precedente Trilogia della Prima Legge (quella in corso, e di cui questo nuovo Mezzo Mondo è il secondo volume, è invece quella del Mare Infranto) ero stato incaricato di intervistare Joe Abercrombie, prima di stabilire il contatto Skype me lo ero andato a cercare su Internet. In una foto in giacca e cravatta reggeva con evidente soddisfazione una grossa ascia bipenne, proprio di quelle che storicamente non sono mai esistite ma nel fantasy vanno forte fin dai tempi di He-Man.
Diceva molto quella foto, certo nata come normalissima boutade: diceva che erano finiti i tempi in cui gli scrittori fantasy si alienavano completamente nel loro mondo (e nella loro subcultura) o pativano addirittura un complesso di inferiorità rispetto agli autori “seri”. Quello che avevo davanti, e l’intervista lo avrebbe confermato, era un tizio che si divertiva e mostrava pieno orgoglio per quel che era e faceva. Del resto Abercrombie non è solo stimato dal Martin del Trono di Spade, ma può vantare anche l’apprezzamento pubblico del Pulitzer e Mac Arthur Fellow Junot Diaz, autore di romanzi assolutamente letterari, seppure sempre con una nota di nerdom all’interno.
Per la nuova trilogia edita da Mondadori, cominciata col Mezzo Re e proseguita con questo Mezzo Mondo, Abercrombie ha scelto un mondo di ispirazione vichinga, e per quanto il taglio del libro sia lievemente più “basso” – lo stesso autore ha parlato di Young Adult, ma non ci si aspetti roba alla Twilight… – il beffardo senso della storia dell’autore di Lancaster è intatto, così come la sua cifra personale, fatta di violenza, vendetta, tradimento ed emozioni forti, così come un certo amore per i topos classici del romanzo d’avventura, in questo caso la “motley crew” – il gruppo di sbandati e reietti costretti loro malgrado a essere eroi. E poi, come sempre nei suoi libri e nei suoi mondi, c’è la radicale riduzione dell’elemento magico.
Se già Martin, rispetto al fantasy classico, aveva molto ridimensionato il peso del sovrannaturale nelle sue storie, con Abercrombie la riduzione è tale far legittimamente sospettare di non essere più nei territori del fantasy, e neanche del “low fantasy” o del “grim dark”, ma da qualche altra parte, qualcosa che potrebbe essere definito storia di fantasia, similstoria o fantastoria, visto anche il realismo del libro. È pur vero che esistono delle solide basi anche in questo senso: viene alla mente Howard, che di fatto inventò il fantasy moderno non perseguendo una volontà mitopietica, demiurgica e glossotetica come quella di Tolkien, ma per pigrizia: inizialmente voleva scrivere romanzi storici, poi vide che era una operazione faticosa che richiedeva un sacco di studio, così tenne i barbari e si inventò tutto il resto. Nacque Conan il Barbaro, ed era uno spasso. Così è uno spasso Abercrombie, e lo è anche per i lettori italiani, in virtù dell’eccelsa traduzione di Edoardo Rialti.