Dagli zombie alla criogenesi, i migliori romanzi del 2016
Alcune tra le storie più belle dell'anno che sta per finire, dalle pagine di Rolling Stone
di Rolling Stone
Il bello delle classifiche è che ognuno ha le sue, e dentro ci mette quello che gli pare. E a noi di Rolling Stone piace un sacco fare liste del genere, anche a costo di fare discutere (anzi, proprio per questo). Dagli zombie alla criogenesi, dalle onde delle Hawaii ai terrori d’infanzia, dal fascino oscuro di Charles Manson al mondo alla rovescia dell’ex Unione sovietica (e ancora da Franzen a DeLillo, da Hemon a Johnson, da Cisi e Cognetti), ecco una raccolta dei romanzi che ci sono piaciuti nel 2016. Perché, è vero, siamo già entrati nel futuro del VR e dei teledildo: ma qualche bel libro viene ancora scritto e pubblicato, ogni tanto.
“L’Arte della guerra zombi” di Aleksandr Hemon (Einaudi)
Quando un autore considerato “serio” decide di scrivere un romanzo a base di zombi, significa che ha deciso di tuffarsi al centro del maelstrom culturale americano. È il caso di L’arte della guerra zombi di Aleksandar Hemon, autore nato a Sarajevo e trasferitosi suo malgrado a Chicago nel 1992, quando, in visita come turista, si ritrovò espatriato per lo scoppio della guerra in Bosnia. Hemon abbandona qui il topos dell’espatriato bosniaco per raccontare le grottesche avventure di Joshua Levin, sceneggiatore fallito di origini ebraiche, ambizioso, ma svogliato, ossessionato dal sesso, poco affascinante sotto ogni aspetto. Joshua accumula spunti per potenziali sceneggiature, tanto improbabili sotto l’aspetto cinematografico quanto divertenti da leggere: “Joshua aprì un file con un’altra sceneggiatura in perpetuo sviluppo (titolo: Il blues di Snakeman), in cui un fanatico di fumetti e un supereroe in pensione (Snakeman), insegnante d’inglese sottopagato in una scuola pubblica, si associano per combattere il perfido sindaco di Chicago. Joshua non riusciva a decidersi se Snakeman alla fine dovesse morire o vivere per tornare all’insegnamento – un’attività davvero eroica nella città di Chicago – e, in tal caso, se dovesse farlo nelle sue sembianze umane o di serpente. L’happy end era stucchevole, ma la morte era deprimente, e Joshua non riusciva a immaginare una terza via”. Come Joshua, anche l’America è un Paese-zombi, che agisce ignorando le conseguenze, fagocitando l’altro senza sapersi controllare, incapace di raggiungere il suo Sogno senza ferire se stessa e gli altri. E in mezzo a tutto questo, lo stile di Hemon non guarda in faccia nessuno: né i suoi personaggi, né il suo stesso pantheon d’adozione, la cultura americana. Gli zombi che popolano questo libro sono rallentati, egoisti, avidi, indecisi, stupidi. E famelici. Proprio come noi. Mario Bonaldi
“Le ragazze” di Emma Cline (Einaudi)
Da ragazzini gli innamoramenti sono atti di rivendicazione, tentativi di azzardare la propria identità per opposizione: innamorarsi significa odiare ciò che non si è scelto. È così che accade a Evie Boyd, protagonista di questo impressionante romanzo d’esordio di Emma Cline. Evie – una 14enne compressa tra l’insofferenza verso i suoi genitori e la prima goffa seduzione di un cinismo da grandi, trova la sua epifania in un parco, nella bellezza sprezzante e disinvolta di un gruppo di ragazze hippy. Soprattutto di una loro: Suzanne. Siamo in California, nell’estate del ’69, al tempo in cui la radicalizzazione poteva prendere l’aspetto di una comune. Emma Cline rievoca i tragici eventi legati alla Manson Family, rimettendo in scena i suoi personaggi in chiave romanzata: un gruppo di ragazze raccolte attorno a un guru, Russell, in grado di far risplendere di luce mistica il loro trauma sommerso (perché un trauma non si nega a nessuno) in una sorta di orgia psichedelica dove adorare l’unico vero dio a misura di ragazza: il disagio. Evie si unirà alla comune, inseguendo il suo amore – più mimetico che romantico – verso Suzanne, ma restando sempre a due passi da lei, nell’impaccio di chi sta cercando di dare una dimensione credibile alla propria giovinezza, fino ad accorgersi di avere assunto lei stessa la “forma di una ragazza”. Veronica Raimo
“Wolf” di Lavie Tidhar (Frassinelli)
Londra, fine degli anni ’30: l’ascesa del nazismo si è interrotta e in Germania hanno preso il potere i comunisti. I nazisti sono stati costretti a rifugiarsi in Inghilterra, e qui troviamo Wolf, ex leader carismatico di un partito nazionalista, ora costretto a guadagnarsi da vivere (con scarso successo) come detective privato. Per non dare nell’occhio, ha dovuto tagliarsi i caratteristici baffetti, ma il lettore ci mette poco a capire che non si tratta d’altri che di Adolf Hitler, i cui sogni di gloria e di dominio si sono sgretolati con la sconfitta del suo partito alle elezioni del 1934. Non soltanto la persecuzione degli ebrei è rimasta un sogno nel cassetto, ma la città di Londra sembra quasi traboccare dell’odiato popolo – e Wolf deve pure averci a che fare, eccome: come con il suo padrone di casa, a cui il protagonista è periodicamente costretto chiedere un po’ di pazienza, i soldi dell’affitto arriveranno. Ma questa è solo una parte dell’intreccio, e se il romanzo si limitasse soltanto a questo il risultato finale sarebbe un mero divertissement. Le avventure di Wolf sono infatti frutto dell’immaginazione di Shomer, ex scrittore di shund – i romanzi pulp yiddish – ora prigioniero ad Auschwitz. I sogni notturni che hanno per protagonista Wolf sono, per Shomer, l’unica consolazione alle massacranti, tremende giornate nel campo di concentramento, cadenzate da morti e umiliazioni. Proprio il fatto che a questa realtà alternativa – in cui Hitler non è mai salito al potere – sia contrapposto un racconto realistico di vittime dell’Olocausto rende il romanzo così originale e al tempo stesso universale. Chi aveva sentito odore di fantascienza, e per questo aveva già deciso di tenersi alla larga da Wolf, non ha più scuse. M.B.
“Purity” di Jonathan Franzen (Einaudi)
Purity è ancora più ambizioso di Freedom, il precedente romanzo di Franzen, perché alla critica sociale e alla psicanalisi della coscienza americana/occidentale di quell’opera unisce un’impronta dickensiana ricca di coincidenze e di multiple svolte nel plot – anche Purity devia dalla premessa iniziale per raccontare nel dettaglio il background di diversi personaggi interdipendenti. Pip è Purity, l’infelice etichetta che una madre narcisista ed elusiva ha regalato alla strana eroina di questo romanzo, una ragazza bloccata nella sua esistenza da un enorme debito universitario e un lavoro senza prospettive. Pip non sa chi sia suo padre, perché la madre si rifiuta di rivelarlo. Il mistero che circonda le sue origini fa entrare Pip in contatto con un hacker tedesco in stile Assange, il carismatico Andreas Wolf, che ha trovato rifugio in Bolivia e ha fondato una sorta di WikiLeaks che tratta i segreti globali. Per chi ha la pazienza di assecondare Franzen nel suo complicato gioco, alla fine tutto trova un senso, e del resto la lettura è facilitata da uno stile più neutro, meno esibizionista rispetto ai romanzi precedenti. Quasi ogni pagina regala un’osservazione intelligente sul nostro mondo, anche se non sempre richiesta. Purity è contemporaneo e retrò al tempo stesso, perché utilizza un mezzo antico – il romanzo, appunto, e tutte le sue potenzialità di rendere intricata eppure plausibile una trama – per parlare del presente, e fa riflettere il fatto che condivida alcuni temi con eccellenti serie tv Homeland o Mr. Robot. Se poi qualcuno sente il bisogno di sapere se Purity riesce anche a essere rilevante oggi, beh, può soltanto leggerlo e valutare per conto suo. Anche così, forse, non avrà una risposta. M.B.
“Orfanzia” di Athos Zontini (Bompiani)
Il protagonista di Orfanzia rifiuta il cibo insieme a tutto ciò che il cibo si porta dietro, ovvero la crescita, il diventare adulti, il prendere parte a quel gran banchetto della consapevolezza, dove la fragilità personale è rivendicata e poi gestita solo sotto forma di patologia. Per Zontini il disagio è la condizione che precede il formalismo della maturità, i tic della convivenza civile e la rabbia compressa della convivenza forzata, il gioco di ruolo della genitorialità che può rivelarsi più estenuante di una partita a Risiko. Scritto come una favola nera, i luoghi di Orfanzia non sono molto diversi dai boschi, i castelli, o le casette di marzapane, e non perché siano fatati, ma perché non sono altro che se stessi, riducono a zero l’apparato intellettuale che – crescendo – edifichiamo sopra i luoghi reali. E allora la città è la città, l’isola è l’isola, alla Primavera segue l’Estate, e all’Autunno l’Inverno (i nome delle sezioni del romanzo), e nessuno sta lì a rimpiangere le perdute mezze-stagioni. Questa stilizzazione geografica e sociale diventa molto più potente di qualsiasi spaccato poetico, pittoresco o realistico, a maggior ragione considerando che Zontini è di Napoli, e che oggi sembra quasi una prerogativa contrattuale per gli scrittori partenopei ricamare allo sfinimento sul loro immaginario local, con l’ambizione pedante di renderlo al tempo stesso incredibilmente unico e metafora di ogni cosa. Per fortuna tutto ciò ci viene risparmiato e, in questo senso, Orfanzia è l’esatto opposto di un romanzo ruffiano, fa pensare semmai a un libro come La trilogia della città di K, anche nella lingua asciuttissima e icastica, in grado di dosare l’ironia a una profondità intuitiva, schietta quanto il pensiero di un ragazzino, a partire dal bellissimo incipit: “Niente mi ha fatto male più dell’amore. Appena nato stavo per morire di ernia strozzata. I miei mi vedevano piangere e non capivano, si ostinavano a tenermi in braccio come se fosse una questione di affetto – una nostalgia da placenta che andava colmata”. V.R.
“Preparativi per la prossima vita” di Atticus Lish (Rizzoli)
Zou Lei viene dalle steppe della Cina nord-occidentale, una terra di tribù nomadi del deserto, che parlano una lingua antica e ricca di immagini. È di etnia uigura, musulmana, e per gli stessi immigrati cinesi è un’aliena che parla una lingua incomprensibile. Arrivata negli Stati Uniti dal Messico, passa attraverso l’arresto e la detenzione preventiva post-11/9 del sistema giudiziario americano; tre mesi dopo essere stata rilasciata, trova un lavoro nell’unica industria disponibile per questi fantasmi del capitalismo, illegali, ma indispensabili per muovere uno dei motori base della città che non dorme mai: l’underworld nascosto, ma sempre attivo, della ristorazione a basso prezzo. Brad Skinner ha una ferita da mortaio alla schiena, una pistola nello zaino d’assalto e il ricordo fresco di un commilitone ucciso da quelle stesse schegge che hanno raggiunto lui. Non ha più una casa né un lavoro, e dorme nei McDonald’s durante le pulizie notturne. Questi improbabili amanti entrano in contatto per coincidenza e restano insieme, legati dalle uniche due cose che possiedono: una sconfinata, insanabile solitudine, e la passione per l’esercizio fisico, l’unico aspetto delle proprie vite su cui forse sono ancora in grado di applicare qualche tipo di controllo. Atticus Lish, 43 anni, ha vissuto in Cina, è stato nei Marines ed è un appassionato di fitness e di arti marziali. Sembra aver conosciuto lo straniamento dei suoi personaggi, e la loro difficoltà di trovare un posto nel mondo. Si tratta proprio di quel raro tipo di autore inclassificabile: qualcuno che nella sua difficoltà a collocarsi all’interno di una scena letteraria, e forse esistenziale, riesce a dare alle sue parole una bellezza fragile, aliena, eppure così autentica. M.B.
“Giorni selvaggi. Una vita sulle onde” di William Finnegan (66th and 2nd)
Per i profani, il surf è semplicemente uno sport. Per chi lo pratica, è molto di più: un’arte, una dipendenza, un amore difficile da tradire, che diventa sempre più impegnativo e più pericoloso con il procedere dell’esperienza accumulata. Per il 12enne William, tutto nasce da un evento che per un bambino di solito è traumatico: un trasferimento, e tutto ciò che segue in termini di sradicamento, solitudine ecc. Invece qui è proprio il contrario: per un amante del surf, le Hawaii – il luogo in cui suo padre, produttore tv, ha trovato lavoro – rappresentano la meta in cui prima o poi è obbligatorio andare in pellegrinaggio. I giorni del giovane William sono scanditi dalle lunghe sessioni di surf, prima e dopo la scuola. Ma per un surfista, diventare adulto è qualcosa che avviene lontano dall’acqua: l’apparente improduttività del solcare le onde con una tavola – le lunghe attese, i fugaci, ma potentissimi, momenti in piedi sulla tavola – si concilia poco con le crescenti responsabilità che la vita reale esige: trovare un lavoro, mettere radici in un posto preciso, formare una famiglia. Per seguire le onde bisogna rinunciare a tutto il resto, ed è esattamente quello che fa William, quando, qualche anno dopo – ormai un vero barbaro del surf (il titolo originale è Barbarian Days) – rincorre le onde attraverso mezzo Pacifico, dall’Australia al Madagascar passando per le Figi, Sumatra e Samoa. E le affronta carico di abbondanti dosi di LSD, con i prevedibili rischi e le intense visioni di assoluto che questo binomio – surf e psichedelia – sono in grado ispirare. Se il surf è una dipendenza, come candidamente ammette l’autore di questo libro, qualcosa deve avere a che fare con il tentativo di recuperare quell’intensissimo, irripetibile high iniziale. O forse si tratta di altro. Forse il surf è soltanto un modo (più cool di altri) per provare sulla pelle il brivido della libertà. Ma Giorni selvaggi ci lascia con una piccola certezza: a volte, il modo migliore per capire il mondo è proprio quello di perdere tempo. M.B.
“Johann Holtrop, ascesa e declino” di Rainald Goetz (Fazi Editore)
Non è facile per la letteratura rappresentare il Potere, soprattutto se decide di imporselo come obiettivo. Rainald Goetz – uno dei più acclamati scrittori tedeschi, per la prima volta tradotto in Italia – non riesce a smarcarsi da un certo accanimento didattico nella costruzione di Johann Holtrop, CEO del fittizio mega-colosso editoriale Assperg (fusioni e monopolio non sono una stravaganza italiana…) Holtrop è un uomo cinico e visionario (aggettivo ormai dispensato più agli imprenditori che agli artisti o ai politici), ispirato alla figura vera di Thomas Middelhoff. Nella sua parabola di ascesa e tracollo, Holtrop si muove in un universo di uomini altrettanto calcolatori – il cui limite di spietatezza è dato solo da un deficit di intuito: l’essere o meno al passo coi tempi – e intrighi di potere, sorrisi sempre finti, gesti sempre ambigui, donne strategiche ma marginali. Il problema di un universo simile è il suo meccanicismo (anche nei colpi di scena), e a volte nell’asfissia programmatica di Goetz si ha l’impressione di assistere a un reality sul capitalismo attuale. Personalmente, continuo a pensare non tanto che la vita non sia un reality, quanto che un reality non mi dica niente sulla vita, e un romanzo a orologeria sulla ferocia imprenditoriale come Johann Holtrop corre il rischio di diventare un manuale di New Economy for Dummies. V.R.
“Zero K” di Don DeLillo (Einaudi)
La criogenesi – ovvero il procedimento di farsi ibernare al momento della morte, in attesa che gli sviluppi della scienza consentano di far tornare a vivere almeno la mente – è un topos contemporaneo abbastanza trito, nei suoi aspetti prosaici che ricordano la catena del freddo della ristorazione. Ma siccome tutto ciò che Don DeLillo produce, almeno a partire da La stella di Ratner (1976), prende immediatamente le sembianze di un testo giunto dal futuro, ecco che con Zero K, ultimo romanzo del quasi ottantenne autore americano, la criogenesi torna prepotentemente a essere cool. Qui, una clinica chiamata Convergence, isolata tra le steppe sconfinate del Kazakistan, promette vita eterna a quanti decidano di abbandonare una Terra destinata certamente all’Apocalisse per “ampliare i confini di ciò che significa essere umani”. Zero K si apre con un figlio, Jeffrey Lockhart (il narratore) convocato da un padre miliardario, Ross, per dare l’estremo saluto alla seconda moglie Artis, più giovane e affetta da sclerosi multipla. Artis sta per essere disassemblata e congelata, nell’attesa di tornare un giorno in cui l’umanità avrà guarito la Terra, o viceversa. Due terzi del romanzo si svolgono dentro questa opprimente, asettica struttura sotterranea a metà tra un istituto di ricerca e un’installazione di land art. Lo sguardo di Jeffrey e i rari scambi con il padre faticano a rendere meno alienante la lettura, tra scienziati impassibili e “accompagnatrici” robotiche, sequele di porte misteriose che non conducono da nessuna parte, e pannelli che trasmettono in loop scenari di devastazione naturale e umana. Si torna a respirare un po’ nell’ultima parte, ambientata a New York, che per un bellissimo tratto di strada e di romanzo si svolge a bordo di un taxi. Sentirsi descrivere il nostro mondo dallo stile ancora lucido di Don DeLillo, per il breve spazio che è disposto a concederci, è ancora un’esperienza che probabilmente nessun altro sa eguagliare, nella letteratura contemporanea. M.B.
“Bussola” di Mathias Enard (E/O)
Se nelle opere di un autore come Don DeLillo (per fare solo un esempio) i personaggi funzionano spesso da ripetitori impersonali delle tesi del loro autore, in questo romanzo di Mathias Enard, vincitore dell’edizione 2015 del Premio Goncourt, massima onoreficenza letteraria francese, i dialoghi rappresentano soprattutto la scusa per bersagliare il lettore con un’impressionante gragnuola di erudizione. Franz Ritter, musicologo misantropo, scopre di avere una grave malattia. Una notte insonne è l’occasione per ripercorrere i viaggi e le ossessioni di una vita, da Vienna a Istanbul, da Damasco ad Aleppo, sulle tracce di un’attrazione, quella tra Occidente e Oriente, che oggi sembra impossibile. Come l’amore di Franz per l’avventuriera Sarah, un personaggio inafferrabile e iperletterario. L’autore dell’acclamato Zona, che qui ha deciso di tornare a utilizzare la punteggiatura, ha scritto un romanzo coltissimo, francesissimo, un oggetto d’arte che sembra venuto da un’altra epoca in cui non esisteva Wikipedia. Resterebbe soltanto swag enciclopedico, se non fosse per la scrittura avvolgente e piena di calore – come nella bellissima, morbosa descrizione di un modello anatomico femminile, conservato in una bizzarra kunstkamera di Vienna. Mathias Enard ha dedicato al popolo siriano questo libro vivente, retrò e attualissimo al tempo stesso. M.B.
“Lo schiavista” di Paul Beatty (Fazi Editore)
Se non conoscete Paul Beatty, leggetevi Lo schiavista perché potrebbe restare il suo libro migliore, nonché uno dei migliori romanzi americani degli ultimi anni (ha vinto il Man Booker Prize 2016). Potete prenderlo come la trascrizione in forma letteraria di uno show di Louis C.K. fatto da un afroamericano, o se avete smanie da filologi potete divertirvi a scovare tutti i riferimenti più o meno occulti. Insomma, leggetevelo come vi pare, e trovateci pure quello che volete: il nuovo Roth, il nuovo Swift, il Kraus americano, uno Žizek romanziere, o semplicemente uno scrittore bravissimo in grado di spostare parecchi chilometri più in là l’orizzonte asfittico e auto-celebrativo di un’ironia politicamente scorretta da social media, perché l’abilità di Paul Beatty – che è molto più di un’abilità, è il dono di uno scrittore – è sfondare le regole stesse dell’ironia e dei suoi bersagli. Con Lo schiavista assistiamo al processo del protagonista di fronte alla Corte Suprema per aver ristabilito la schiavitù come esperimento sociale in un ghetto alla periferia di Los Angeles. Beatty non si limita a mettere in crisi l’accorata pantomima dei diritti civili – una nuova forma di religione più castrante della peggiore Inquisizione – ma ha l’audacia spietata di trasformarla in un paradosso distopico, senza però il salvacondotto della catarsi. V.R.
“La strada del Donbas” di Serhij Zadan (Voland)
Come si dice? Due è ok, in tre si è già una folla. Eppure ogni romanzo picaresco che si rispetti ha bisogno di una folla: e così Herman, il protagonista del clamoroso La strada del Donbas, dovendo partire controvoglia verso la sua città natale per raggiungere la stazione di benzina abbandonata dal fratello, si porta dietro due personaggi improbabili, i fratelli L’olik e Bolik. Perché? Perché nel mondo vivacissimo e desolato dell’Ucraina al confine con la Russia raccontata da Serhij Žadan (poeta, rockstar, patriota) tutto è irrazionale, eccessivo, sentimentale. Herman è una sorta di yuppie: “Avevo trentatré anni, facevo un lavoro incomprensibile ai più […] Per quanto mi riguardava, la mia vita era un successo”. Eppure, una volta tornato ai luoghi della sua infanzia, Herman ne rimane misteriosamente invischiato: al punto da difendere la stazione di benzina da Pastušok, un “oligarca del granoturco” deciso a possedere tutta la regione. Come avviene in tanta letteratura post-coloniale (possiamo definire così l’Ucraina ex sovietica), la scrittura di Žadan sconfina nel realismo magico, per raccontare una terra in cui il passato non si può dimenticare: come nell’indimenticabile scena di una partita a calcio con una squadra di fantasmi – vecchi amici di Herman, tutti morti per crimini, malattie, alcolismo. M.B.
“La piena” di Andrea Cisi (minimum fax)
Ogni volta che leggo la parola “sincero” a proposito di un libro, di un disco o di uno spettacolo, ho un moto di scetticismo, e quindi adesso mi sento in crisi nel dover ricorrere proprio a questo termine per parlare del nuovo romanzo di Andrea Cisi, La piena. È la storia di un 40enne, già padre di un figlio e in attesa del secondo, operaio in una ditta metallurgica, scisso tra l’irrequietezza e il bisogno di appartenenza – alla famiglia, alla fabbrica, alla provincia, ai tornei di calcetto, alla vita che verrà. Cisi ha uno stile estremamente cinematico, in grado di dipingere con poche frasi ben assestate lo scenario di una provincia smaniosa e annoiata, i momenti più delicati e struggenti all’interno di una coppia, la tenerezza comica di un figlio piccolo, i rapporti goffamente competitivi tra maschi alle prese con la fabbrica o con la tifoseria da curva, lo squilibrio nevrotico e nostalgico di un uomo desideroso di essere innamorato e spaventato dall’idea di tradire; ma soprattutto ha la formidabile capacità di creare dei personaggi. Per tirar fuori un riferimento, penserei a un mix tra la commedia all’italiana e Woody Allen, diciamo tra un C’eravamo tanto amati e Io e Annie, dove gli elementi surreali, parodistici o comici non hanno mai quel vezzo hipster e astruso da commedia del Sundance. E se un mix del genere riesce a evocarvi qualcosa, oserei un altro azzardo: immaginatevi i diari di John Cheever riportati ai giorni nostri, ambientati nella provincia italiana (per la precisione Cremona, con tutti i suoi cambi di luce e di biancore che davvero ricordano l’ossessione per il tempo atmosferico di Cheever) e che però riescono pure a farvi a ridere. Ecco, forse significa questo essere sinceri in un romanzo. V.R.
“Le otto montagne” di Paolo Cognetti (Einaudi)
Caso letterario prima ancora della pubblicazione, è la terza opera “montanara” di Cognetti, dopo Il ragazzo selvatico e alcune ispirazioni di A pesca nelle pozze più profonde. È il racconto di un apprendistato all’amicizia e alla vita, attraverso il rapporto tra Pietro, il protagonista, e Bruno, un ragazzino che abita nel paesino ai piedi del Monte Rosa, dove Pietro e i genitori trascorrono l’estate. Bruno è nel suo habitat (cura le vacche, e in agosto parte con i parenti per raggiungere un alpeggio), mentre Pietro è un ragazzino di città, che viene iniziato all’amore per la montagna dalla madre, assistente sociale, e dal padre, un uomo irrequieto confinato alla prigione del lavoro in città, spesso imperscrutabile, ma capace di grandi dolcezze. In narrativa non ci sono temi più universali del paesaggio, dell’amicizia e del diventare adulti, e la scrittura di Cognetti si fa classicissima per raccontare al meglio questa storia. Per molti, quando si parla di romanzo a tema “montagna” la prima cosa che viene in mente è Mauro Corona, e le sue elegie minime da eremita in divisa. Qui non c’è niente di tutto questo. C’è solo il romanzo vero di un bravo scrittore. M.B.
“Anatomia di un soldato” di Harry Parker (BigSur)
Qualche anno fa è uscito Severance di Robert Olen Butler, un libro ispirato a un presupposto pseudoscientifico secondo cui una testa umana rimane cosciente per un minuto e mezzo dopo la decapitazione. Butler ha scritto 62 racconti immaginando gli ultimi pensieri di personaggi come Medusa, Anna Bolena, una gallina sacrificata per un pasto ecc. L’esecuzione non era neanche male, ma opere come queste lasciano il dubbio che ok, molto originale, ma adesso siamo a posto così. Prima della lettura, anche Anatomia di un soldato di Harry Parker (1983, soldato in Iraq e Afghanistan, dove ha perso entrambe le gambe per un ordigno) fa temere di trovarsi di fronte a un caso del genere. È la storia di tre personaggi: un giovane soldato britannico in Afghanistan, a cui vengono amputate le gambe a causa di una bomba, e due ragazzi afgani, amici, ma ai lati opposti del conflitto. La particolarità del romanzo è che tutto è raccontato attraverso la voce degli oggetti testimoni della vicenda: il sacco di fertilizzante utilizzato per preparare l’espolsivo, una cannula per intubazione, lo zaino di un soldato ecc. E il risultato è una sorprendente, dolente versione di Toy Story al contrario: gli oggetti prendono vita, e diventano il coro degli eventi assurdi e incomprensibili degli uomini, i loro creatori. M.B.
“Mostri che ridono” di Denis Johnson (Einaudi)
Altro che James Bond: la vita vera dell’agente segreto è molto lontana dall’immagine glamour che ci ha consegnato Hollywood. Lo racconta benissimo l’ultimo romanzo di Denis Johnson, autore di Albero di fumo (imponente romanzo sulla guerra in Vietnam, con cui Johnson ha vinto il National Book Award nel 2007). Roland Nair, protagonista e narratore, arriva in Sierra Leone, dopo un’assenza lunga un decennio. È un americano di origini scandinave, che lavora per un’agenzia di intelligence. È semi-alcolizzato: o almeno, lo è quando si trova in Africa. È stato inviato lì per rintracciare un ugandese di nome Michael Adriko, un suo vecchio contatto, ora in forze all’esercito americano, sospettato di traffici illeciti (uranio arricchito, per la precisione). Le cose si complicano da qui. Mostri che ridono è stato accostato a Cuore di tenebra di Conrad e alla elegante narrativa di spionaggio di Graham Greene. Ma il corrispettivo più calzante, forse, è il film Il salario della paura, capolavoro di William Friedkin del 1977: le disavventure al limite dell’horror di personaggi che odiano se stessi, spinti da qualcosa che credono essere brama di denaro, e invece è solo brama di morte. Il problema di questi avventurieri, compresi quelli improbabili e un po’ abietti di questo romanzo, è che un giorno, nel loro passato, hanno smesso di dire la verità, e ora niente può essere più preso sul serio. È la precisa intenzione di Johnson: ritrarre questi cittadini del mondo nel loro habitat naturale. Peccato che sia un mondo sbagliato, in cui la globalizzazione non ha distribuito ricchezza e ordine, ma ha soltanto generato mostri. E l’Africa è il playground perfetto per esercitare la cupa libertà di un tempo senza più regole, in cui nemmeno i giocatori abituati a muoversi nell’ombra ci capiscono più qualcosa. M.B.
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