Non sono uno che giustifica la svolta a destra di Giovanni Lindo Ferretti come un’evoluzione dell’essere punk – e quindi sempre contro qualcosa, provocatore. Al di là della sua buonafede, trovo inconciliabili e incoerenti alcune posizioni attuali con quelle del passato: stride che l’uomo che partecipa al raduno di Atreju sia lo stesso di Linea gotica e del tributo a Beppe Fenoglio; come è assurdo che la persona che oggi parla di uno Stato che dovrebbe proteggere i propri confini sia la stessa che, all’inizio degli ’80, da un trasferimento a Berlino e dalle contaminazioni con l’Islam ha dato inizio alla sua carriera. E però – dai CCCP fino alla vita solista – al di là della politica nella sua poetica vive una costante, a lungo ignorata ma sempre centrale: la diffidenza cronica verso il progresso e le sue promesse. E ne è una prova, di questo non aver mai cambiato idea verso il contemporaneo, anche Non invano (Mondadori, 120 pagine), il suo ultimo libro di riflessioni uscito lo scorso 30 giugno.
La storia la sappiamo: da trent’anni è tornato a vivere a Cerreto Alpi, un paese di un centinaio di abitanti sugli Appennini vicino a dove è nato, circondato dai cavalli e in isolamento monastico. Non è un eremita perché, scrive adesso, ha bisogno ancora delle relazioni sociali, ma ama la solitudine e i monti gli sembrano l’unico posto in cui il tempo si è fermato, la modernità arresa e i nostri avi vissuti – appunto – non invano. È lassù, ci ha detto, che desidera morire. E da lassù, intanto, guarda sotto: adesso che, come ha già salmodiato nell’ultima Mal’aria, la società “iper-connessa” dello streaming lo disgusta, la scienza lo spaventa. E in Non invano il leitmotiv è più che mai antipositivista: con internet e i social viviamo, sostiene, “un eterno presente, tendenzialmente asettico e garantito”, mentre noi “serviamo la finanza” e “caracolliamo sul baratro di una pretesa onnipotenza che ci inghiottirà”. Può stridere con quanto detto in passato, certo, ma è lo stesso rifiuto del moderno del punk filosovietico dei CCCP (che preferiva le certezze “d’acciaio” dell’Est alle promesse di benessere dell’Ovest), o dell’elegia funebre dell’Occidente Del mondo dei C.S.I. (“È stato un tempo, il mondo, giovane e forte…”).
La differenza è che ora per Ferretti si tratta di pura resistenza: il futuro ha vinto, e non gli resta che rimanere ancorato alle proprie radici, mentre intorno sarebbe in atto uno “sradicamento” collettivo a opera della società digitalizzata, anestetizzata al male, “senza confini”, in nome di una promessa di benessere che giudica fallace. Anche qui: reazionario, certo; ma non è lo stesso pensiero che nel 1997 stava dietro il panorama desolante e postatomico di Tabula rasa elettrificata, tra l’altro suo più grande successo commerciale? La salvezza, di fronte al “trapasso antropologico”, sarebbe fra i monti perché lì permangono i valori che la nostra civiltà starebbe ora rinnegando, come gli usi, i costumi, la lingua, la certezza “del lecito e dell’illecito”, i limiti della geografia. Oppure – oltre che nella purezza rurale della Mongolia e nei cavalli, vecchie ossessioni della casa che qui ritornano soprattutto nella seconda parte – nella fede incrollabile nei dogmi (più che nelle libertà) della religione cristiana, ultimo baluardo, con le sue virtù, di irrazionale e di mistero in un mondo “schiavo” della ragione. Appunto: ci sono variazioni rispetto al pensiero originale, ma non siamo distanti dal misticismo in cui si era rifugiato ai tempi dei C.S.I., né dai riferimenti alla liturgia già presenti nei pezzi dei CCCP.
Per il resto – oltre ad attaccare un Occidente sempre nemico e spersonalizzante – Non invano è un breviario del Ferretti-pensiero con tanto di poesie a rompere le schema a flusso di coscienza, oltre a contenere la solita ricerca aulica e austera nel lessico. Non c’è molta politica, perché – come spiega le rare volte che la chiama in causa – il voto è una scelta mutevole e funzionale alla realtà, non una religione; semmai, l’elemento davvero inedito di questa raccolta rispetto al passato è lo spettro della fine delle realtà come Cerreto: la gente se ne va, i terremoti hanno messo in ginocchio l’Appennino e la ricostruzione appare difficile. Lui ne prende atto, e trasforma il piano per la rinascita di una martoriata Camerino, fra assi e pannelli per conservare il suo patrimonio artistico, nell’ennesimo pretesto per parlare di un futuro che non contempla la dimensione del paese di montagna a lui cara: “Il nuovo che avanza è un grandioso psico/bio Parco, patrimonio di una futura umanità. Per gli irriducibili ostinati si prospettano, previ corsi di rieducazione, liste di collocamento per figuranti ad uso turistico. I più coscienziosi saranno assunti come guardiani. Non uscire dal percorso segnalato, consultare la cartellonistica, seguire le istruzioni. Libertà è partecipazione”.
Certo, a volte sembra di trovarsi davanti a un editoriale di Belpietro (come nel caso del parallelo con la disgregazione dell’Impero romano, per “migrazioni incontrollate”), la visione di Ferretti a tratti è parziale (non tiene conto di tutti i progressi fatti dalla società nel campo dei diritti civili, per esempio), oltre che reazionaria. E i richiami all’ordine e alla disciplina stridono con ciò che sono stati la sua musica e la sua figura, ma la ricerca di certezze e il rifiuto delle promesse del progresso di Non invano, che costruiscono il nucleo pulsante di questi appunti, mostrano comunque un artista in assoluta continuità con quanto cantava in periodi rossi – che fosse “rifugiarsi sotto il Patto di Varsavia” o constatare un Ko de mondo.
È mutato il contesto intorno a lui, semmai, e se la globalizzazione negli anni ’90 lo spaventava è chiaro che dei social non poteva che avere un’opinione disgustata. Ma, al di là di questo, leggere oggi Ferretti vuol dire tenersi in connessione con il pensiero di un artista che ha mantenuto una coerente diffidenza verso il progresso, e che persino in una pandemia – mentre fioccano inviti a fidarsi della scienza – mette la propria esistenza solo in mano alla fede. Ognuno si faccia le sue idee a questo punto: le 120 pagine di Non invano sono soprattutto un modo per ricordarci quanto, a Ferretti, non interessi il nostro giudizio.